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Vol. IV/2006

 Casella di testo:  Rivista di Diritto dell'Economia, dei Trasporti e dell'Ambiente
	                                                                         
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Strumenti di soluzione concordata della crisi d’impresa.

Note a margine del convegno di studi sulla

“Privatizzazione delle procedure concorsuali e tutela dei creditori”

Messina, 31 marzo 2006.

 

Antonio Zabbia*

 

Accelerazione e semplificazione delle procedure concorsuali, ampliamento degli strumenti di soluzione concordata della crisi d’impresa, ridimensionamento del ruolo e dei poteri dell’autorità giudiziaria, ma anche il rafforzamento dei poteri del curatore e la valorizzazione del ruolo del comitato dei creditori.

Questi alcuni degli aspetti più innovativi, ma anche controversi, della recente riforma della legge fallimentare, che sono stati oggetto di una approfondita e stimolante riflessione condotta in occasione del convegno di studi- svolto presso l’Università degli studi di Messina- sul tema della “Privatizzazione delle procedure concorsuali e tutela dei creditori”.

L’analisi delle nuove norme in materia fallimentare, autorevolmente condotta dai relatori che vi hanno partecipato, si inserisce in quel più ampio dibattito che, in attesa dell’imminente entrata in vigore delle nuove disposizioni, ha animato e continua opportunamente a coinvolgere tutti gli operatori del materia commercial-processualistica, dagli esponenti del mondo accademico, agli operatori della realtà giudiziaria.

L’incontro è stato articolato in due sessioni: nella prima, coordinata dal Professore Concetto Costa, si sono susseguite le relazioni dei Professori Paolo Spada, Maurizio Sciuto e Lino Guglielmucci; nella seconda, sotto la direzione del  Professore Giuseppe Terranova, la discussione si sviluppata intorno alle relazioni del Prof. Francesco Guerrera, del Prof. Michele Perrino e del Prof. Girolamo Bongiorno.

Le relazioni svolte, che hanno fornito spunto a queste brevi note, hanno sollevato le molteplici questioni nonché alcuni dei profili più significativi della nuova disciplina che si appresta ad entrare  in vigore.

Il travagliato percorso legislativo, che ha condotto ad una  profonda innovazione della disciplina delle procedure concorsuali contenuta nel R.D. 16 marzo 1942, n. 267, è, infatti, giunto a compimento.

Col D.Lgs. 9 gennaio 2006, n.5, pubblicato nella S.O. n. 13 alla G.U. n. 12 del 16 gennaio 2006, il Governo ha dato attuazione alla delega contenuta all’art. 1, comma 6, lettera a,b,c, della legge 14 maggio 2005, n. 80, varando “la riforma organica delle procedure concorsuali”.

Tralasciando di approfondire in questa sede i diversi progetti di riforma che redatti dalle Commissioni parlamentari succedutesi nel tempo non hanno mai visto la luce (tra questi, ad esempio, lo schema di disegno di legge redatto dalla commissione Travisanato, istituita con decreto ministeriale 27 febbraio 2004 dal Ministro di giustizia, che proponeva gli interventi più innovativi), occorre, invece, rilevare che il provvedimento legislativo citato costituisce il momento finale di un processo riformatore sviluppatosi in due fasi successive.

Il primo intervento riformatore è stato attuato col decreto legge 14.03.2005, n. 35, recante “disposizioni urgenti nell’ambito del piano di azione dello sviluppo economico” (c.d. decreto sulla competitività delle imprese), entrato in vigore il 17 marzo 2005 e convertito, con alcune modifiche, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80.

Una scelta, quella del decreto legge quale strumento normativo per introdurre le prime modifiche alla legge fallimentare, che è apparsa a molti (per tutti m. arato, il diritto fallimentare e delle societa’ commerciali, vol lxxxxi, 2006,157 e seg.) anomala e criticabile, e che ha sollevato dubbi sulla stessa sussistenza di quei requisiti di “necessità ed urgenza” che l’art. 77 Cost. pone quale indefettibile presupposto per l’esercizio del potere di legiferare per decreto.

Con tale provvedimento normativo il Governo ha apportato alcune modifiche dirette alla legge fallimentare (R.D. 267/1942).

Il Legislatore, in particolare, è intervenuto sugli artt. 67 e 70, in materia di revocatoria fallimentare.

Se per un verso il Legislatore ha mantenuto l’impianto originario dell’istituto, conservando la tradizionale distinzione degli atti revocabili in “atti anormali” ed “atti normali”, per altro verso ha apportato significative modifiche circa gli stessi atti soggetti a revoca, dimezzando la fase temporale del c.d. “periodo sospetto”, individuando nella misura di “oltre un quarto” la  sperequazione minima tra il valore delle prestazioni necessaria ai fini dell’applicazione della stessa norma ed ampliando i casi di esenzione dall’azione revocatoria, che vengono per la prima volta specificatamente enucleati ed elencati al terzo comma dell’art.67; una previsione, quella dei casi di esenzione, che per l’ampiezza delle fattispecie previste dalla legge e per il coinvolgimento soltanto di alcune categorie di creditori non ha mancato di  sollevare dubbi circa il rispetto del principio della  parità di trattamento.

Ed ancora, nell’ambito di questo primo intervento sulla materia concorsuale, il Legislatore ha profondamente innovato la disciplina contenuta negli artt. 160, 161, 163, 167, 180, 181, in materia di concordato preventivo ed ha introdotto il nuovo articolo 182 bis, in tema di “accordi di ristrutturazione dei debiti”.

L’ulteriore intervento riformatore è stato rimesso al Governo con la delega, contenuta all’art 1, c. 6 della stessa legge di conversione  14 maggio 2005, n. 80, da esercitare entro 180 giorni.

Ed anche tale soluzione non ha mancato di sollevare forti perplessità tra i primi interpreti, e per le modalità stesse con cui la delega è stata conferita, essendo stata inserita in un maxiemendamento al decreto legge 35/2005, poi convertito con una deliberazione delle Camere sulla quale il Governo ha posto la fiducia,  e per stessa la genericità delle disposizioni di delega.

Approvato dal Consiglio dei Ministri lo schema di decreto legislativo, successivamente sottoposto all’esame delle Commissioni Parlamentari competenti, acquisiti i relativi pareri, in attuazione della delega conferita, col D.Lgs. 9 gennaio 2006, n.5, il  Governo ha dato alla luce l’attesa “riforma organica delle procedure concorsuali”.

Il legislatore delegato, per altro, ha espressamente differito (art. 153 L.F.) l’entrata in vigore delle nuove disposizioni di sei mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, e dunque a partire dal 16 luglio 2006, ad eccezione degli articoli 45,46,47, 151e 152 per i quali è stata prevista l’entrata in vigore il giorno della pubblicazione del medesimo decreto nella Gazzetta Ufficiale.

Non è questa la sede per esporre in rassegna le molteplici innovazioni che caratterizzano le nuove disposizioni in materia fallimentare.

Mi preme invece richiamare alcune delle tematiche, in principio già indicate,  sulle quali si è volta l’attenzione  dei relatori.

Il filo conduttore che lega le questioni esaminate, in armonia d’altronde con le intenzioni degli organizzatori del convegno, pare rintracciabile in quella dimensione “negoziale” che sotto diversi profili sembra emergere nella nuova disciplina delle procedure concorsuali.

Se il sistema concorsuale tradizionale si caratterizzava per uno stretto controllo della procedura da parte del tribunale fallimentare e del giudice delegato, nell’impianto della riforma tende ad emergere una forte attenuazione del carattere giurisdizionale delle procedure concorsuali, con un significativo ampliamento, tra l’altro, delle possibilità di regolare la situazione di insolvenza dell’imprenditore, od anche solo di crisi, attraverso diverse tipologie di accordi con i creditori, rispetto ai quali il ruolo del giudice appare appunto ridimensionato ed in alcuni casi solo eventuale.

La nuova regolamentazione in materia di accordi con i creditori è stata introdotta già in occasione del primo intervento riformatore, attuato col D.L. 35/2005.

Il carattere della privatizzazione delle procedure di insolvenza e crisi dell’impresa, che permea di se il nuovo modello concorsuale, emerge, con intensità variamente modulata, nei diversi strumenti di composizione concordata della crisi previsti dalla Legge Fallimentare riformata.

Appare massima nel nuovo istituto del “concordato stragiudiziale” richiamato all’art. 67, co 3, lett.d,  che prevede espressamente l’esenzione da revocatoria per “gli atti, pagamenti e garanzie, concessi su beni del debitore, purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria, e la cui ragionevolezza sia attestata ai sensi dell’art. 2501 bis comma 4 cod. civ.”.

Il piano deve quindi essere accompagnato dalla relazione di un esperto chiamato “ad attestare la ragionevolezza del contenuto del concordato stragiudiziale al fine di eliminare lo stato di insolvenza e di consentirne la sua esecuzione” (cfr. m.arato, idem, 176), certificazione che costituisce condizione per l’esenzione da revocatoria di tutti i pagamenti previsti nel piano e compiuti per la sua esecuzione.

Un piano, dunque, unilateralmente proposto dal debitore, senza che sia prevista la partecipazione dei creditori, nell’ambito di una procedura di carattere non giudiziale, dalla quale rimane estraneo un controllo da parte dell’autorità giudiziaria volto ad accertarne l’idoneità ad eliminare l’insolvenza.

Lo spazio per un controllo da parte degli organi giurisdizionali si aprirebbe, si legge nel parere sulla riforma della legge fallimentare approvato dal plenum del csm il 10-11-2005, in occasione “del giudizio sulla revocatoria fallimentare, giudizio ovviamente eventuale in quanto dipendente  dall’esito negativo dell’accordo, ed altresì dall’esperimento dell’azione revocatoria nonostante la generica previsione di esenzione di cui alla lett. d.” Ed ancora si osserva che “fuori da tale ipotesi i creditori sono esclusi dalla possibilità di azionare un controllo sulla validità del piano da parte degli organi giurisdizionali, salvo in ogni caso, la possibilità che venga fatto ricorso al giudice per la dichiarazione di fallimento”.

Tra i nuovi strumenti volti a favorire una soluzione concordata della crisi d’impresa si inserisce anche quello degli “accordi di ristrutturazione dei debiti”, previsti e disciplinati all’art. 182 bis della L.Fall.

Dalla formulazione della norma non emerge in modo chiaro se tali accordi debbano qualificarsi come “procedura autonoma rispetto al nuovo concordato preventivo ovvero ne costituiscano una modalità di attuazione, una sorta di concordato semplificato sul modello della prepackaged bankruptcy americana” (b. ianniello, il nuovo diritto fallimentare, giuffrè, 2006).

 L’accordo, che può essere stipulato con i creditori che rappresentano almeno il 60% dei crediti, deve essere depositato dal debitore unitamente alla documentazione relativa al concordato preventivo, e corredato da una relazione redatta da un esperto sull’attuabilità dello stesso “con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare il pagamento dei creditori estranei”.

L’accordo diviene efficace sin dalla sua pubblicazione nel registro delle imprese; momento dal quale la norma, in modo censurabile sotto il profilo della tutela del diritto di difesa, fa decorrere il termine di trenta giorni entro i quali i creditori ed ogni altro soggetto interessato possono proporre opposizioni. Su di esse decide il Tribunale, prima di procedere alla eventuale omologazione dell’accordo con decreto motivato.

L’operatività di tale strumento di ristrutturazione concordata dei debiti rivela dunque una maggiore caratterizzazione giurisdizionale, emergente soprattutto in caso di opposizioni, seppur limitata alla fase dell’omologazione e non anche a quella del controllo dell’attuazione dell’accordo.

Certa dottrina sembra però escludere, soprattutto in assenza di opposizioni, che il giudizio di omologazione possa investire “il merito delle scelte assunte dall’imprenditore e dal ceto creditorio”, (cfr. b. ianniello, idem, 416); il tribunale avrebbe solo il potere di esercitare un controllo di legalità  formale, sulla regolarità dell’iter procedimentale, e non sui profili sostanziali dell’accordo.

La disposizione regolatrice non specifica quali siano le finalità di tali accordi, se strumenti aventi l’obiettivo del salvataggio delle imprese, anche solo in crisi, o della loro liquidazione, né specifica i presupposti, rilevando invece che l’accordo sia idoneo a consentire un rapido risanamento dell’esposizione debitoria. Tale aspetto, per altro, finisce per incidere sugli stessi poteri di controllo sull’accordo che il tribunale viene ad esercitare in sede di omologazione. Ed è stato dunque  rilevato che “al tribunale non interessa la ragione per cui l’imprenditore si è deciso all’accordo, ma soltanto che questi rispetti le condizioni di legge, demandando ai soli creditori il giudizio di convenienza dello stesso, in una logica esclusivamente privatistica” (cfr. b. ianniello, idem, 416).

Analogamente la norma non definisce contenuto, oggetto e limiti dei patti, lasciando all’autonomia delle parti ampio spazio per la conclusione di accordi di varia natura e contenuto negoziale eterogeneo: dalla transazione (novativa e non), al pactum de non petendo, alla cessione dei beni ai creditori (cfr. m. arato, idem, 173).

Segno ulteriore del favor manifestato dal legislatore per l’adozione di tale strumento di regolazione negoziale della crisi d’impresa si coglie alla luce della nuova disciplina in materia di revocatoria fallimentare, ed in particolare della disposizione di cui all’art.67 comma 3, lett. e, la quale prevede che gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione degli accordi di ristrutturazione di cui all’art. 182 bis, sono esentati da revocatoria, purché l’accordo venga omologato (diversamente, per i creditori rimasti estranei all’accordo, da pagare integralmente, per i quali i pagamenti ricevuti saranno assoggettabili a revocatoria in caso di successivo fallimento).

Tra gli interventi riformatori attuati con la L.80/2005 e diretti ad introdurre una nuova disciplina degli accordi con i creditori si inserisce anche, e soprattutto, la riformulazione delle norme in materia di concordato preventivo.

La procedura è stata profondamente riformata tanto sotto il profilo sostanziale, dei presupposti di ammissione, quanto sotto quello procedurale, di approvazione ed attuazione della proposta.

Sotto il profilo sostanziale, il primo dato che si palesa all’attenzione dell’interprete attiene al presupposto oggettivo della procedura medesima, ora individuato nello “stato di crisi” e non più in quello di “insolvenza”, previsto dalla normativa previgente.

L’ambiguità dell’espressione utilizzata dal legislatore, accompagnata dalla mancanza di ogni intervento definitorio, ha determinato, sin dall’entrata in vigore delle nuove norme, il sollevarsi di non pochi dubbi sulla sua  reale portata.

L’interrogativo che si sono posti già i primi commentatori è se lo “stato di crisi”, cui fa riferimento la nuova disposizione, debba essere inteso solo in termini di una situazione di “temporanea difficoltà”, che precede l’insolvenza e dunque connotata da reversibilità, o se esso debba anche comprendere l’insolvenza in senso stretto, presupposto oggettivo del fallimento.

Tanto la dottrina, quanto la giurisprudenza hanno formulato diverse interpretazioni della norma, manifestando apertura per entrambe le soluzioni (cfr. in particolare, in senso favorevole all’inquadramento dello stato di insolvenza nella “situazione di crisi”, Trib. Bari, decreto 21 nov. 2005, Trib. Pescara sent. 13 ottobre 2005; Trib. Sulmona, 6 giugno 2005; in senso contrario, Trib. Treviso decreto 22 luglio 2005).

La questione è stata recentemente risolta  dal Legislatore (art. 36, D.L. 30 dicembre 2005, n.273, convertito dalla Legge 23 febbraio 2006, n.51) che ha introdotto un ulteriore comma all’art. 160, stabilendo espressamente che “ai fini di cui al primo comma (individuazione delle condizioni di ammissibilità al concordato preventivo) per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”.

Ancora considerando il profilo relativo alle condizioni di ammissione alla procedura,  tra gli interventi di riforma deve ulteriormente registrarsi l’eliminazione dei c.d. “requisiti di meritevolezza” che l’imprenditore doveva presentare per accedere alla procedura.

Relativamente, poi, al suo contenuto, la proposta di concordato perde la sua connotazione di “tipicità”, potendo adesso prevedere “la ristrutturazione dei debiti e  soddisfazione dei creditori  attraverso qualsiasi forma”, e si svincola dall’obbligo di garantire ai chirografari la soddisfazione del loro credito in misura non inferiore al 40%, previsione scomparsa dalla nuova disposizione, che apre, invece, alla possibilità di una “suddivisione dei creditori in classi secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei”, e relativo “trattamento differenziato tra i creditori appartenenti a classi diverse”.

Molteplici e di grande portata sono le innovazioni che attengono ai profili  procedurali del nuovo concordato preventivo.

Non è questa, però, la sede adeguata  per un  esame di tutti gli elementi di riforma che attengono alla proposizione della domanda, al controllo di ammissibilità, nonché alla approvazione della proposta da parte di creditori ed al giudizio di omologazione.

Sembra comunque opportuno evidenziare, seppur in termini generali, quel profilo della procedura riformata che più volte è stato al centro degli interventi compiuti dai relatori. Il riferimento è a quella tendenziale attenuazione del ruolo dell’autorità giudiziaria, che ha, peraltro, permeato di sé la più recente ed ampia “riforma organica” del sistema di diritto concorsuale.

In particolare, dall’esame delle nuove norme emerge una significativa riduzione dei poteri  del tribunale in ordine tanto al controllo di ammissibilità alla procedura, quanto a quello sulla sua convenienza.

Nella disciplina previgente la procedura del concordato preventivo si caratterizzava per una connotazione “beneficiale”, come soluzione alternativa al fallimento per l’imprenditore insolvente che avesse presentato particolari requisiti di “meritevolezza”. In tale contesto, sin dal momento dell’ammissione alla procedura, un ruolo decisivo era riconosciuto all’autorità giudiziaria, chiamata a valutare la sussistenza delle specifiche condizioni oggettive e soggettive di ammissibilità alla procedura previste dalla legge.

Nel nuovo modello di concordato preventivo disegnato dal Riformatore è certo problema di non poco momento quello della corretta determinazione della sfera di poteri del tribunale: se il tribunale, cioè, debba limitarsi solo ad una verifica formale della domanda o se possa o debba compiere una valutazione nel merito della sua convenienza.

Restando legati al dato testuale delle nuove disposizioni (art. 163 L.F.), per il vero scritte in modo poco chiaro e  con un significativo difetto di coordinamento, il ruolo del tribunale in sede di ammissione sembra attenuarsi e ridursi ad un controllo meramente formale circa la “completezza e regolarità della documentazione” allegata alla domanda, ed alla valutazione dei criteri di correttezza nella formazione delle classi, ove il piano di concordato preveda tale soluzione.

Ed ancora nel senso della “degiurisdizionalizzazione” della procedura in esame è la previsione che il decreto di apertura della procedura non è soggetto a reclamo.

Assume invece un rilievo preminente “la relazione di un professionista”, avente i requisiti per la nomina a curatore; relazione che ai sensi dell’art. 161, co3, L.F deve accompagnare il piano e la relativa documentazione, ed è finalizzata all’attestazione della veridicità dei dati aziendali ed alla fattibilità del medesimo piano. Non già un semplice riassunto del piano, ma una sorta di certificazione dell’esattezza dei dati contabili e giudizio professionale sulla concreta riuscita della proposta di concordato; senza obbligo, però- la legge non lo impone- di certificare che quello sia il migliore piano possibile  (cfr. m. arato, idem, 167).

Alla  relazione del professionista è dunque lasciata ogni determinazione circa la fattibilità del piano, e quindi circa l’ammissibilità della proposta; ciò non senza sollevare qualche perplessità, considerato che “tale attestazione non è fornita di oggettiva affidabilità ed il soggetto al quale è demandata l’attestazione si caratterizza solo per essere professionista nel pieno possesso delle capacita e non interessato, almeno nelle forme tipiche menzionate nell’art. 28. Egli non è titolare di poteri certificatori, né è tenuto a particolari oneri deontologici, espressamente sanzionati. Né viene introdotta alcuna norma sanzionatrice che prevenga possibili abusi per falsità in tali attestazioni” (parere sulla riforma della legge fallimentare, idem, 5).

Considerazioni in parte diverse pare di poter fare relativamente al giudizio di omologazione.

Esso si apre per impulso d’ufficio, ad iniziativa del tribunale al quale- in luogo del giudice delegato- le nuove disposizioni (art.180 L.Fall) attribuiscono il compito di fissare l’udienza, in camera di consiglio, per la comparizione del debitore e del commissario giudiziale, al fine dell’omologazione del concordato.

Quali poteri sia possibile riconoscere al tribunale in sede di omologazione non è problema di facile soluzione e meriterebbe uno spazio di analisi ben più ampio.

Limitandosi in questa sede alla formulazione di alcune considerazioni, possono essere messi in evidenza due diversi approcci alle disposizioni in esame.

Un orientamento più rigoroso, legato ad una interpretazione letterale dell’art.180 co.4 ,  espresso da certa giurisprudenza (cfr. per tutte Tribunale di Taranto decr. 1 luglio 2005) conduce a riconoscere un ruolo prettamente “notarile” al tribunale, il quale, in caso di raggiungimento delle maggioranze richieste all’art.177 L.F. per l’approvazione del piano di concordato, non potrebbe rifiutare l’omologa.

 Il che potrebbe determinare seri problemi ove, intervenuta l’approvazione del concordato da parte dei creditori, successivamente e prima dell’omologa emergessero fatti e nuove circostanze idonee a non rendere più realizzabile il piano concordato.

In questo quadro interpretativo, un maggiore spazio di valutazione sussisterebbe per il tribunale nel caso in cui la proposta di concordato avesse previsto la suddivisione dei creditori in classi omogenee.

Tale soluzione incide, infatti, sulle regole di approvazione del concordato, prevedendo dei meccanismi tesi ad evitare che essa si traduca in ostacolo all’attuazione del piano proposto, contro la ratio stessa della novella.

Pertanto, se il comma primo dell’art. 177 richiede per l’approvazione della proposta che “il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto” sia espresso per ciascuna classe, il comma successivo prevede anche che il tribunale possa comunque approvare il concordato “nonostante il dissenso di una o più classi di creditori”, purché ricorrano le condizioni specificatamente previste dalla norma, ed in particolare: che sia “riscontrata in ogni caso la maggioranza di cui al primo comma” (voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto); che “la maggioranza delle classi abbia approvato la proposta di concordato”; ed infine- ed  è questo l’aspetto che qui più interessa- che il tribunale “ritenga che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti possano risultare soddisfatti dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili”.

In forza di tale meccanismo, c.d. del cram down, il tribunale viene investito del potere di formulare un giudizio sulla convenienza del concordato, attraverso una valutazione delle concrete possibilità di soddisfacimento dei creditori appartenenti alle classi dissenzienti attraverso l’attuazione del concordato proposto, le quali- perché possa comunque emettersi il decreto di approvazione- non devono essere inferiori “rispetto alle alternative concretamente praticabili” (art 180, co4).

A tal proposito certa dottrina (b. ianniello, idem, 407) osserva che “in questo modo la funzione dell’organo collegiale fa un salto di qualità: non più organo di mero controllo sulla regolarità delle maggioranze, ma organo volto a verificare se nel caso di un’eventuale dichiarazione di fallimento i creditori dissenzienti troverebbero o meno un più vantaggioso trattamento rispetto a quello concordatario”.

 E pertanto, anche ove si accogliesse la più rigorosa interpretazione dell’art. 180, prima proposta, nell’ambito di operatività del meccanismo ora esaminato, il tribunale ove rilevasse, all’esito dell’istruttoria nel giudizio di omologazione, la sussistenza quelle circostanze obiettive che potrebbero non rendere più realizzabile la proposta del debitore, potrebbe ritenere non “conveniente”, nei termini di cui all’art 180 co.4,  per i creditori appartenenti alla classe dissenziente, il piano proposto e rifiutare, di conseguenza, l’omologazione.

Ferme restando le considerazioni ora svolte per l’ipotesi in cui si proceda ad una divisione dei creditori in classi, le disposizioni in esame (art. 180), considerate in modo unitario, sono suscettibili di una diversa interpretazione, aperta al riconoscimento di un ruolo più incisivo del tribunale in sede di omologazione.

In primo luogo si consideri la struttura stessa del giudizio di omologazione, che, se per quanto concerne la definizione del thema decidendum (ar 180 co 2)  è ispirato al principio dispositivo, sotto il profilo dell’acquisizione delle prove è dominato dal principio inquisitorio.

 L’art. 180 LF, infatti, attribuisce al Tribunale ampi poteri istruttori, consentendo, nel contraddittorio delle parti, “di assumere anche d’ufficio tutte le informazioni e le prove necessarie, eventualmente delegando uno dei componenti del collegio per l’espletamento dell’istruttoria”; poteri che trovano una fondata giustificazione se orientati a consentire all’autorità giudiziaria una valutazione nel merito della convenienza della proposta di concordato.

In tal senso si è espressa certa dottrina (m.arato, idem, 171), rilevando con chiarezza che “i poteri, anche istruttori di verifica attribuiti al Tribunale ai sensi dell’art. 180, co 3 LF, indicano che l’art 180 co. 4 LF, secondo il quale il Tribunale, se la maggioranza di cui al comma 1dell’art. 177 è raggiunta, approva il concordato con decreto motivato, non va interpretato quasi fosse una replica obbligata dell’esame compiuto in sede di verifica della maggioranza per l’approvazione del concordato ai sensi del’art. 177 LF o in sede di ammissione allorché vengono delibati i requisiti formali di presentazione della domanda. Altrimenti non si spiegherebbero i poteri istruttori attribuiti al tribunale e l’obbligo di redazione del parere motivato da parte del commissario giudiziale. L’art. 180 co 4 va dunque interpretato nel senso che il presupposto necessario ma non sufficiente per l’omologa è che la maggioranza dei creditori o delle classi sia stata raggiunta, ma, ciononostante, il concordato poterebbe anche non essere omologato per ragioni di merito, anche di convenienza”.

Sulla stessa via interpretativa sembra porsi la giurisprudenza di legittimità, affermando, in una recente pronuncia, che “le condizioni di ammissibilità e di convenienza del concordato preventivo devono essere accertate con riferimento alla situazione esistente al momento dell’omologazione, la quale, quindi deve essere negata ove il giudice accerti che tali condizioni, quand’anche inizialmente esistenti, siano successivamente venute a mancare” (Cass. Civ., sez. I, 19 marzo 2004, n.5562; Giust. Civ. Mass., 2004, f.3).

In secondo luogo, particolare attenzione va posta sulla figura del commissario giudiziale.

Le nuove disposizioni conservano in capo al commissario giudiziale quegli ampi poteri di valutazione sulla proposta di concordato che ad esso erano già riconosciuti dalla normativa previgente, ponendo, però, alcuni problemi di coordinamento con nuove competenze ora riconosciute dalla novella.

In particolare, ai sensi dell’art 172 L.F., non modificato, il commissario è sempre tenuto a redigere “una relazione particolareggiata sulle cause del dissesto, sulla condotta del debitore, sulle proposte di concordato e sulle garanzie offerte ai creditori”. E’ da chiedersi se tale adempimento non si traduca in una sovrapposizione di compiti rispetto al parere del professionista, tanto da ridurne l’importanza.

L’art 180 L.F. impone, poi,  al commissario di depositare, almeno 20 giorni prima dell’udienza in camera di consiglio, un proprio parere motivato in ordine al progetto di concordato oggetto di  omologa. Ed appare corretto ritenere che nel redigere tale parere il commissario possa o forse debba prendere in considerazione quello formulato dal professionista nella fase di ammissione alla procedura, anche per muovere rilievi critici ed  osservazioni, ove dalle proprie valutazioni scaturiscano dubbi circa la fattibilità del piano, seppur sostenuta e certificata dal professionista.

Le riflessioni che i primi commentatori hanno condotto su tali adempimenti del commissario giudiziale coinvolgono ancora il tema della posizione del tribunale in sede di omologa, e conducono, anche per questa via, a riconoscere ad esso ruolo più incisivo.

Il tribunale sarebbe dunque investito del merito della proposta concordataria almeno sotto il profilo della sua fattibilità; che senso avrebbe- è stato osservato-fornire al tribunale elementi di valutazione ulteriori se l’attività di controllo di quest’ultimo riguarda solo la completezza e regolarità della documentazione ed  ancora, “non si comprenderebbe altrimenti l’obbligo di redazione del parere motivato in capo al commissario giudiziale, in quanto fermi restando gli aspetti di stretta regolarità e legalità della proposta, già vagliati in sede di ammissione della procedura, si aggiungerebbe la sola novità dell’esito della votazione che non può che essere favorevole o contrario, circostanza quest’ultima pienamente riscontrabile dal tribunale senza il parere del commissario. La tesi che afferma che il tribunale in presenza del voto favorevole dei creditori dovrebbe approvare acriticamente il concordato anche in presenza di una relazione del commissario che contesti la fattibilità della proposta, non tiene conto degli ampi poteri attribuiti al tribunale dalla nuova disciplina, che non avrebbero significato, e svuota di contenuto la funzione di garanzia rappresentata dall’intervento dell’organo giurisdizionale” (l. panzani, Requisiti previsti per la nuova procedura di concordato preventivo, nota a Trib. Bari, decreto 21 novembre 2005, in www quotidiano giuridico.it-ipsoa).



* Dottorando in “Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente”, Facoltà di Economia, Università degli Studi di Palermo.

 

 

Data di pubblicazione: 5 luglio 2006.