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Vol. V/2007

RIVISTA DI DIRITTO DELL’ECONOMIA,

DEI TRASPORTI E DELL’AMBIENTE

 

 

 

Tutela della vita umana in mare e difesa degli interessi dello Stato: i tentativi d’immigrazione clandestina*

Guido Camarda**

 

1. Ho voluto porre in evidenza, anche nel titolo di questo scritto, la complessità degli interrogativi giuridici suscitati dal fenomeno dell’immigrazione clandestina via mare, con conseguenze spesso drammatiche per gli stessi immigrati e con forti implicazioni d’ordine etico, sociale, economico e politico per lo Stato di destinazione, inteso nella duplice accezione di apparato e comunità.

Le difficoltà delle scelte non riguardano semplicemente il legislatore, ma si estendono all’interprete. Da quest’ultimo dipende, frequentemente, se una norma, che si presti a molteplici e differenti risultati ermeneutici e modalità applicative, possa salvarsi da censure d’incostituzionalità o da disapplicazioni caso per caso.

Il principio di conservazione della norma[1] va tenuto nella massima considerazione, in relazione all’esigenza di armonizzazione o almeno di non contrasto con l’intero sistema giuridico, specie con norme di grado gerarchico superiore del medesimo ordinamento (in particolare le norme costituzionali) o con norme di ordinamenti che, proprio sulla base della Costituzione stessa (artt. 10-11), risultino sovraordinati. Il criterio storico-evolutivo, insieme al criterio d’equità, può ben concorrere a raggiungere il risultato di conservazione. Il negare, per esempio, che vi siano forme legittime, sia pure indirette, di respingimento collettivo mette al riparo la normativa nazionale dal contrasto con la Convenzione europea sui diritti dell’uomo, ove, all’art. 4 (prot. n. 4) il comportamento è vietato in modo espresso.

Quanto al carattere di sovraordinazione rispetto alle discipline interne, mi riferisco in linea generale alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali v’è il principio pacta sunt servanda; tramite quest’ultimo si includono gli accordi internazionali in vigore in Italia. Mi riferisco, inoltre, alle norme comunitarie.

Solo l’assoluta impossibilità di un risultato ermeneutico di conservazione cui l’interprete ha il dovere di tendere, rende necessaria – in applicazione del principio generale del primato della normativa internazionale e della normativa comunitaria -: a) la remissione della questione di legittimità alla Corte costituzionale, ove si sia in presenza di norma interna sopravvenuta ed in contrasto con il diritto internazionale; b) la disapplicazione della norma interna stessa, ove vi sia il contrasto sia con una norma comunitaria, anteriore o posteriore che sia, o con una norma internazionale entrata successivamente in vigore. In quest’ultimo caso, la norma interna è da considerarsi implicitamente abrogata dal momento che, attraverso l’ordine di esecuzione, la nuova disciplina internazionale viene a produrre effetti diretti nell’ordinamento interno.

Ritorno ai contenuti della nostra Carta costituzionale per sottolineare, ai fini dell’argomento, la centralità del secondo e del terzo comma del citato art. 10: La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge.

2. La prova evidente delle forti implicazioni di ordine costituzionale presenti nel complesso normativo riguardante l’immigrazione e la condizione dello straniero (d. lgs 25 luglio 1998 n. 286 e successive modificazioni e integrazioni[2]) è, per così dire, in re ipsa. Esiste, infatti, un rilevante patrimonio giurisprudenziale costituito da numerose sentenze e ordinanze del Giudice delle leggi. In più di un caso, il legislatore ha cercato di rimediare alle censure con novelle via via succedutesi. Per il carattere di questo scritto prevalentemente rivolto ad aspetti internazionalistici e comunitari (con particolare riferimento alle modalità marittime dell’immigrazione) mi preme rilevare che attraverso l’intervento della giustizia costituzionale sono stati tutelati (pur se implicitamente), principi e diritti contenuti anche in tali ordinamenti.

Tra le questioni di costituzionalità più interessanti si segnalano quelle esaminate sotto il profilo delle eventuali violazioni degli artt. 13 e 24 Cost. Del principio della riserva di giurisdizione in tema di provvedimenti restrittivi della libertà personale (art. 13 cost.) si è occupata diffusamente la nota sentenza n. 105 del 2001, affermando la necessità della pienezza del controllo giurisdizionale non solo in relazione al trattenimento dello straniero presso i centri, ma anche in relazione all’accompagnamento coattivo alla frontiera. Da ciò ha avuto origine l’iniziativa di modifica dell’art. 13 del T.U. del 1998 con l’apposito riconoscimento di più ampie competenze dell’Autorità giudiziaria.

A sua volta la sentenza n. 222 del 2004, con un’espressa pronuncia d’incostituzionalità sotto il profilo della violazione del diritto alla difesa (art. 24 Cost.), sottolinea l’esigenza che la normativa preveda lo svolgimento del giudizio di convalida del provvedimento di accompagnamento alla frontiera prima che il provvedimento stesso venga eseguito e, comunque, nel contraddittorio con l’interessato cui dovranno essere assicurati i diritti della difesa. Ancora una volta il legislatore è intervenuto (l. 271/2004 ) con le relative modifiche.

Con altre pronunce (sentt. n. 353, n. 1997 e ord. 353 del 2002) la Corte costituzionale ha individuato nella tassatività delle cause di espulsione previste dal legislatore una garanzia di conformità della disciplina al più volte citato art. 13 Cost. Il che, però, non esclude che il c.d. automatismo espulsivo[3] trovi, a sua volta, una serie di eccezioni, in particolare per motivi umanitari, anche sulla base del T.U. 286/1998 e successive modifiche; anzi l’art. 12 precisa che, fermo restando quanto previsto dall’art. 54 del codice penale, non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato.

Aggiungo che, in tema di respingimento, l’art. 10 dello stesso T.U. precisa che il respingimento (con eventuale riaccompagnamento alla frontiera) non si applica “nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari”. E, inoltre, - dispone l’art. 19 - “in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”. Anche se non ricorrano le condizioni suindicate, il secondo comma del medesimo art. 19 stabilisce che non è consentita l’espulsione, salvo che nei casi previsti dall’articolo 13, comma 1 (motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello stato) nei confronti: a) degli stranieri minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi; b) degli stranieri in possesso della carta di soggiorno, salvo il disposto dell’articolo 9; c) degli stranieri conviventi con parenti entro il quarto grado o con il coniuge, di nazionalità italiana; d) delle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono[4].

3. Un’analisi delle principali norme di diritto internazionale impone d’iniziare dalla Convenzione di Montego bay del 10 dicembre 1982 (UNCLOS) perché costituisce una sorta di “carta costituzionale” per tutto il diritto del mare. L’art. 311 dispone, infatti, che sono salvi soltanto gli altri accordi internazionali compatibili con la Convenzione stessa. Due o più Stati - continua l’art. 311 della Convenzione sul diritto del mare - possono concludere accordi che modifichino o sospendano l’applicazione delle disposizioni della Convenzione e che si applichino unicamente alle loro reciproche relazioni, solo a condizione che questi accordi non rechino pregiudizio ad una delle disposizioni della Convenzione, la cui mancata osservanza sarebbe incompatibile con la realizzazione del suo oggetto e del suo scopo e, parimenti, a condizione che questi accordi non pregiudichino l’applicazione dei principi fondamentali della Convenzione e non pregiudichino anche il godimento dei diritti o l’adempimento degli obblighi degli altri Stati derivanti dalla Convenzione stessa.

Il suesposto principio di compatibilità non entra in discussione qualora la medesima Convenzione di Montego bay richiami e confermi espressamente accordi internazionali in vigore o ne auspichi la stipulazione con riferimento a specifici settori.

Tra le norme che non possono essere oggetto di deroga da parte degli Stati anche mediante accordi con altri Stati va richiamato anzitutto l’art. 98 dell’UNCLOS, perché esso costituisce l’applicazione del principio fondamentale ed elementare della solidarietà in mare[5].

Ogni Stato - si legge - impone che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nei limiti del possibile e senza che la nave, l’equipaggio ed i passeggeri corrano gravi rischi (non un rischio qualunque, dunque!): a) presti assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare; b) vada il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà se viene informato che persone in difficoltà hanno bisogno d’assistenza, nei limiti della ragionevolezza dell’intervento; c) presti soccorso, in caso di collisione (cfr. Conv. int. sull’urto di navi del 1910), all’altra nave, al suo equipaggio ed ai passeggeri e, nella misura del possibile, indichi all’altra nave il nome ed il porto d’iscrizione e il primo porto del suo approdo. Il secondo comma prevede che gli Stati costieri creino e curino il funzionamento di un servizio permanente di ricerca e di salvataggio adeguato ed efficace per garantire la sicurezza marittima e aerea e, se del caso, collaborino a questo fine con gli Stati vicini nel quadro di accordi regionali.

Varie convenzioni internazionali, tutte in vigore in Italia insieme all’UNCLOS, costituiscono un completamento (c.d. implementation) della norma ora citata.

In primo luogo, l’art. 10 della Convenzione del 1989 sul soccorso in mare (e nelle acque in genere) così dispone: Ogni comandante è obbligato, nella misura in cui ciò non crei pericolo grave per la sua nave e le persone a bordo, di soccorrere ogni persona che sia in pericolo di scomparsa in mare. Gli Stati adotteranno tutte le misure necessarie per far osservare tale obbligo.

Con un rinvio (se consentito) per ulteriori e più ampi approfondimenti ad un mio volume appena pubblicato[6], osservo in proposito che l’obbligo in questione riguarda anche fattispecie senza alcuna connotazione d’internazionalità, perchè la convenzione Salvage 1989 ha sostituito la corrispondente disciplina del codice della navigazione, che ora trova applicazione solo in funzione complementare ed integratrice. Sono fatte salve alcune eccezioni, ad esempio con riferimento alle navi di Stato per le quali, nei limiti in cui il regime convenzionale viene ad escluderle, rimane la piena vigenza degli artt. 489-500 cod. nav..

In ogni caso sono vigenti gli artt. 69 e 70 dello stesso codice sul “soccorso a navi in pericolo e a naufraghi” e sullo “impiego di navi per il soccorso”. Più precisamente: l’autorità marittima, che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio o di altro sinistro, deve immediatamente provvedere al soccorso, e, quando non abbia a disposizione né possa procurarsi i mezzi necessari, deve darne avviso alle altre autorità che possano utilmente intervenire./Quando l’autorità marittima non può tempestivamente intervenire, i primi provvedimenti necessari sono presi dall’autorità comunale./ L’autorità marittima o, in mancanza, quella comunale possono ordinare che le navi che si trovano nel porto o nelle vicinanze siano messe a loro disposizione con i relativi equipaggi.

La seconda Convenzione internazionale che viene in considerazione riguarda anch’essa la ricerca ed il salvataggio marittimo. A differenza della Salvage 1989 i cui profili pubblicistici s’innestano in un corpo di diritto privato uniforme, la Convenzione SAR 1979 è a contenuto essenzialmente pubblicistico e trova rispondenza negli articoli del codice della navigazione da ultimo citati, ma soprattutto nella specifica normativa interna d’implementazione costituita dal d.P.R. 28 settembre 1994 n. 662. L’autorità responsabile per l’applicazione della convenzione è il Ministro dei trasporti mentre l’organizzazione centrale e periferica è affidata al Comando generale del Corpo delle Capitanerie di porto ed ad relative strutture periferiche.

La Convenzione SAR si fonda sul principio della cooperazione internazionale. Le zone di ricerca e salvataggio sono ripartite d’intesa con gli altri Stati interessati. Tali zone non corrispondono necessariamente con le frontiere marittime esistenti. Esiste l’obbligo di approntare piani operativi che prevedono le varie tipologie d’emergenza e le competenze dei centri preposti.

I poteri-doveri di intervento e coordinamento da parte degli apparati di un singolo Stato nell’area di competenza non escludono, sulla base di tutte le norme più sopra elencate, che unità navali di diversa bandiera possano iniziare il soccorso quando l’imminenza del pericolo per le vite umane lo richieda.

L’enforcement a carattere penale si individua (a prescindere dalla configurazione di altri reati) nell’art. 1158 cod. nav. (primo comma: Il comandante di nave, di galleggiante o di aeromobile nazionale o straniero, che ometta di prestare assistenza ovvero di tentare il salvataggio nei casi in cui ne ha l’obbligo a norma del codice, è punito con la reclusione fino a due anni. Secondo comma: La pena è della reclusione da uno a sei anni, se dal fatto deriva una lesione personale; da tre a otto anni, se ne deriva la morte. Terzo comma: Se il fatto è commesso per colpa, la pena è della reclusione fino a sei mesi; nei casi indicati nel comma precedente, le pene ivi previste sono ridotte alla metà).

Malgrado tutto l’apparato normativo che ho cercato di sintetizzare, sono frequenti le denunce che si ascoltano nelle sedi più diverse circa navi che pur avendo avvistato naufraghi o navi in grave pericolo fanno finta di nulla proseguendo per la propria rotta[7]. Forse occorre una riflessione sul mantenimento del principio della gratuità del soccorso in mare di persone. Tale regola (a parte le eccezioni che qui non è il caso di richiamare) è espressamente prevista dall’art. 16 della Convenzione Salvage 1989. L’ispirazione ideale rischia di produrre un disincentivo economico, inducendo chi sa di non essere scoperto e non è sorretto da saldi principi etici a omettere l’intervento in soccorso. L’introduzione dell’opposto principio di onerosità rimarrebbe, però, senza effetti positivi specie nelle ipotesi di navi senza alcun valore e di persone prive di qualunque patrimonio. Occorrerebbe un’ulteriore norma che preveda un fondo internazionale integrativo a favore dei soccorritori di vite umane che in nessun altro modo riescano ad ottenere un compenso.

4. Una particolare considerazione merita la problematica relativa a ciò che debba intendersi per conduzione della persona salvata in luogo sicuro. Infatti è dal momento dell’arrivo in tale luogo che cessano gli obblighi internazionali (e nazionali) relativamente alle operazioni di salvataggio, che pertanto non si esauriscono con le prime cure mediche o con la soddisfazione degli altri più immediati bisogni (alimentazione etc.). Con l’entrata in vigore (luglio 2006) degli emendamenti all’annesso della Convenzione SAR 1979 (luglio 2006)[8] e alla Convenzione SOLAS 1974 (e successivi protocolli)[9] e con le linee guida - adottate in sede IMO lo stesso giorno di approvazione degli emendamenti alle convenzioni e protocolli - viene fatta maggiore chiarezza sul concetto di place of safety e sul fatto che la nave soccorritrice è un luogo puramente provvisorio di salvataggio, il cui raggiungimento non coincide con il momento terminale delle operazioni di soccorso[10]. Da notare che le “linee guida” insistono particolarmente sul ruolo attivo che deve assumere lo Stato costiero nel liberare la nave soccorritrice dal peso non indifferente di gestire a bordo le persone salvate.

Esprimo, comunque, l’opinione che anche prima dell’entrata in vigore di tali emendamenti poteva pervenirsi alle medesime conclusioni attraverso un’interpretazione logico sistematica delle normative già applicabili, cioè delle convenzioni internazionali sopracitate. Il mio convincimento, che trova riscontro in tesi già sostenute in dottrina[11], riguarda in modo più evidente almeno quei numerosi casi nei quali la nave soccorritrice - per l’avvenuto imbarco delle persone salvate - scenda al di sotto dei limiti consentiti dalla normativa di sicurezza e non abbia comunque sufficienti attrezzature per il vitto, l’alloggio ed i sevizi igienico-sanitari. Si pensi inoltre ad altri casi in cui le persone salvate abbiano necessità di urgente assistenza medico-ospedaliera.

A fronte del suesposto quadro normativo si registrano in tutto il mondo episodi di navi che, a seguito motivazione giuridiche le più varie addotte dallo stato costiero, non riescono a sbarcare normalmente persone soccorse in mare.

Nei due esempi che mi limito a citare comincio da un caso italiano risalente al giugno 2004. La nave Cap Anamur, battente bandiera tedesca ed appartenente ad un’organizzazione umanitaria, aveva raccolto nelle acque del Canale di Sicilia trentasette naufraghi immigranti clandestini, che avevano dichiarato di essere fuggiti dal Sudan a causa della guerra civile. A 17 miglia da Porto Empedocle le autorità italiane rifiutarono l’ingresso della nave nelle acque territoriali (a complicare la questione era intervenuta la circostanza che la nave, dopo aver preso a bordo i clandestini, aveva toccato un porto maltese per delle riparazioni senza che si provvedesse allo sbarco dei naufraghi, ritenendosi-secondo il comandante- che non v’erano sufficienti garanzie per gli stessi; ne era nata una questione circa competenze e responsabilità dello stato maltese, di quello italiano e di quello tedesco). Sta di fatto che l’autorità italiana dopo tre settimane concesse il permesso d’ingresso a Porto Empedocle e l’indomani venne autorizzato lo sbarco. Il comandante della nave e l’equipaggio furono arrestati per avere favorito l’emigrazione clandestina, mentre i naufraghi vennero avviati ad un centro di prima accoglienza. Il giorno ancora successivo comandante ed equipaggio vennero rilasciati perchè il giudice competente non aveva convalidato i provvedimenti restrittivi della libertà personale. Il processo penale si celebrerà comunque tra qualche giorno e analoga correttezza impone di non esprimersi sul caso concreto, anche perché non ho avuto modo di consultare le carte processuali e ho riportato un resoconto dei fatti come letti in una rivista giuridica di chiaro livello scientifico (Annuaire du droit de la mer, vol. 9). Non dò dunque risposte alle domande: se il comportamento del comandante e dell’equipaggio della Cap Anamur integri gli estremi del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina[12]; se vi fossero le finalità di profitto; se, invece, ricorrano le esimenti ex art. 54 cod. pen.; se si trattasse di una mera operazione di soccorso in mare, doverosa per il diritto internazionale (e interno) sino allo sbarco in luogo sicuro, in un’ampia eccezione del termine. Mi limito ad occuparmi dei clandestini che, tranne uno, vennero espulsi con esecuzione dell’accompagnamento coatto prima che si celebrasse il giudizio avverso le espulsioni. Uno di loro era rimasto in circostanze fortunose ed a costui il Tribunale di Roma, con provvedimento del 30 luglio 2004, consentì di rimanere prima che si esaurisse la relativa fase giudiziale. Tale pronuncia indirettamente riconosceva che anche tutte le altre espulsioni era state eseguite illegittimamente. Del resto la Corte costituzionale con una sentenza di pochi giorni anteriore alla pronuncia del giudice romano (n. 222 del 15 luglio 2004) aveva dichiarato - come ho già avuto occasione di precisare- l’illegittimità costituzionale - per violazione degli artt. 13, 24 e 111 Cost. - dell’art. 13 comma 5 bis del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, introdotto dall’art. 2 del d.l. 4 aprile 2004 n. 51, convertito con modificazioni nella legge 7 giugno 2002 n. 106, nella parte in cui non prevedeva che il giudizio di convalida del provvedimento con il quale è disposto l’accompagnamento alla frontiera (provvedimento restrittivo della libertà personale), debba svolgersi in contraddittorio prima dell’esecuzione del provvedimento stesso, con le garanzie della difesa (si vanificava in tal modo - osserva la Corte costituzionale - sia la garanzia contenuta nel terzo comma dell’art. 13 Cost., e cioè la perdita di effetti del provvedimento nel caso di diniego o di mancata convalida ad opera dell’autorità giudiziaria nelle successive quarantotto ore, sia il diritto di difesa dello straniero nel suo nucleo incomprimibile, vale a dire il diritto di essere ascoltato dal giudice, con l’assistenza di un difensore)[13]. Quanto al ritardo con cui le autorità italiane concessero l’autorizzazione allo sbarco non trovo sufficienti elementi oggettivi di giustificazione. Manifesto questo avviso in termini di stretta applicazione di norme giuridiche e non beninteso di elemento psicologico (errore d’interpretazione delle norme, scusabile o no; volontà di combattere con fermezza il fenomeno dell’immigrazione clandestina in un contesto giuridico internazionale ritenuto ancora poco chiaro sul punto, etc.). Né sull’accaduto può influire il fatto che paradossalmente nel nostro Paese si discute se proprio la c.d. legge Bossi Fini abbia istituito la zona contigua, entro la quale si sarebbe trovata la nave Cap Anamur. Infatti, l’obbligo dello Stato di cooperare per la conclusione dell’operazione di soccorso in mare, consentendo lo sbarco dei naufraghi, impone comportamenti consequenziali che prescindono dal potere dello Stato stesso di perseguire i presunti favoreggiatori (comandante ed equipaggio) o di adottare verso i clandestini (ma in tutta sicurezza) i provvedimenti previsti dalla legge.

L’altro caso riguarda uno spazio marino quasi agli antipodi. Si tratta di un soccorso dell’agosto 2001, avvenuto in acque relativamente prossime a quelle territoriali australiane da parte di un mercantile norvegese. Le 433 persone soccorse (afgani, indonesiani, pakistani, iracheni, cingalesi) erano in pericolo di morte a seguito dell’affondamento del peschereccio indonesiano che le trasportava verso l’Australia ove avrebbero chiesto il riconoscimento dello status di rifugiati e l’asilo. Le autorità (australiane) rifiutarono l’ingresso della nave soccorritrice nelle acque territoriali, sostenendo che la questione riguardava lo stato di bandiera della nave soccorritrice (Norvegia) e quello della nave soccorsa, in cui si trovavano i clandestini prima che la nave stessa affondasse (Indonesia). Considerato che le condizioni sanitarie a bordo peggioravano, anche perché la nave soccorritrice poteva ospitare un massimo di cinquanta persone, il comandante, malgrado il divieto, entrò in acque territoriali, ottenne l’intervento di medici a bordo e fece presente che la ripresa del mare aperto avrebbe comportato gravissimi pericoli per la sicurezza della nave e conseguentemente per la vita di chi si trovava a bordo. Dopo circa una settimana la vicenda si avviò a conclusione con la disponibilità neozelandese ad accogliere i naufraghi che continuarono il viaggio a bordo di una nave militare australiana. Anche in questo episodio il salvataggio da parte della nave norvegese costituì l’adempimento di uno degli obblighi più elementari del diritto internazionale. A sua volta il rifiuto dell’Australia, stato costiero più vicino, suscitò molte proteste in campo internazionale, soprattutto da parte della Norvegia. Si sosteneva, tra l’altro, che con il rifiuto era stata violata la Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, sullo status dei rifugiati, ed il successivo protocollo. Si replicava, di contro, che tenuto conto del fatto che il soccorso era avvenuto in acque internazionali, la nave soccorritrice non avrebbe potuto pretendere di entrare nelle acque territoriali di un altro Stato con l’intenzione di sbarcarvi i naufraghi e non per esercitarvi il semplice passaggio inoffensivo ammesso dal diritto internazionale.

Si potrebbe, però, controreplicare richiamando, con riferimento al diritto consuetudinario e l’art. 18 dell’UNCLOS, lo stato di necessità e obiettando che - come già rilevato - il soccorso in mare non può certo concludersi in una nave, ma in un “luogo sicuro, secondo le ragionevoli valutazioni del comandante”. In conclusione, non ritengo che si possa ritenere legittimo il comportamento australiano sotto il profilo dell’osservanza di quel principio di cooperazione da parte dello Stato previsto anche dalla convenzione Salvage 1989.

Quanto alla possibile violazione dell’art. 33 della Convenzione del 1951 che vieta il respingimento, si può forse condividere l’opinione di chi fa notare che in realtà l’Australia non riaccompagnò i richiedenti asilo ai loro Paesi d’origine con i pericoli che ciò avrebbe comportato per gli espatriati, ma concluse un accordo di accoglienza con la Nuova Zelanda. Ben diversa sarebbe stata la questione se nessun’altro Stato avesse voluto accettare i richiedenti asilo[14].

5. Dopo il richiamo a due casi concreti, certamente non isolati e comunque molto rappresentativi della complessità delle problematiche, occorre riprendere l’impostazione generale muovendo dall’art. 13 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dall’assemblea generale delle Nazioni unite il 10 dicembre 1948: 1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato./2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese.

È evidente che non siamo in presenza di una norma internazionale con il carattere della cogenza, ma non sembra che si possa negare a tale dichiarazione un carattere oltre che etico-politico anche di soft law. Si tratta com’è noto di regole giuridiche tendenziali, molte delle quali vanno sotto il nome di raccomandazioni; regole che nessuno può considerare semplici esercitazioni retoriche ma che, al contrario, contribuiscono a creare criteri ermeneutici d’interpretazione del c.d. jus cogens. Nel caso in specie, la fonte di provenienza della dichiarazione riguarda il massimo organo di un’Organizzazione (l’ONU) in cui si riconosce la comunità internazionale, attraverso la libera adesione dei singoli stati all’Organizzazione stessa. Sicché ogni norma emanata dal singolo Stato che disciplini e stabilisca le condizioni del legittimo ingresso e soggiorno dello straniero nel suo territorio va considerata come restrizione al principio di base indicato nella Dichiarazione universale. Tali eccezioni, vorrei precisarlo con maggiore chiarezza, trovano peraltro fondamento giuridico-formale nel concetto di sovranità dello Stato esercitabile in sede normativa, con i limiti cogenti degli obblighi assunti, direttamente o indirettamente, dallo Stato stesso in sede internazionale e comunitaria.

Almeno per quanto riguarda i Paesi comunitari ed i relativi territori la conferma della suindicata impostazione sistematica si può trarre dall’art. 13 del regolamento comunitario 562 del 2006 entrato in vigore il successivo 13 ottobre: 1. Sono respinti dal territorio degli Stati membri i cittadini di paesi terzi che non soddisfino tutte le condizioni d’ingresso previste dall’articolo 5, paragrafo 1, e non rientrino nelle categorie di persone di cui all’articolo 5, paragrafo 4. Ciò non pregiudica l’applicazione di disposizioni particolari relative al diritto d’asilo e alla protezione internazionale o al rilascio di visti per soggiorno di lunga durata./2. Il respingimento può essere disposto solo con un provvedimento motivato che ne indichi le ragioni precise. Il provvedimento è adottato da un’autorità competente secondo la legislazione nazionale ed è d’applicazione immediata. Il provvedimento motivato indicante le ragioni precise del respingimento è notificato a mezzo del modello uniforme di cui all’allegato V, parte B, compilato dall’autorità che, secondo la legislazione nazionale, è competente a disporre il respingimento. Il modello uniforme compilato è consegnato al cittadino di paese terzo interessato, il quale accusa ricevuta del provvedimento a mezzo del medesimo modello uniforme./3. Le persone respinte hanno il diritto di presentare ricorso. I ricorsi sono disciplinati conformemente alla legislazione nazionale. Al cittadino di paese terzo sono altresì consegnate indicazioni scritte riguardanti punti di contatto in grado di fornire informazioni su rappresentanti competenti ad agire per conto del cittadino di paese terzo a norma della legislazione nazionale. L’avvio del procedimento di impugnazione non ha effetto sospensivo sul provvedimento di respingimento. Fatto salvo qualsiasi indennizzo concesso a norma della legislazione nazionale, il cittadino di paese terzo interessato ha diritto a che lo Stato membro che ha proceduto al respingimento rettifichi il timbro di ingresso annullato e tutti gli altri annullamenti o aggiunte effettuati, se in esito al ricorso il provvedimento di respingimento risulta infondato./4. Le guardie di frontiera vigilano affinché un cittadino di paese terzo oggetto di un provvedimento di respingimento non entri nel territorio dello Stato membro interessato./5. Gli Stati membri raccolgono statistiche sul numero di persone respinte, i motivi del respingimento, la cittadinanza delle persone respinte e il tipo di frontiera (terrestre, aerea, marittima) alla quale sono state respinte. Gli Stati membri trasmettono annualmente tali statistiche alla Commissione. La Commissione pubblica ogni due anni una compilazione delle statistiche fornite dagli Stati membri./6. Le modalità del respingimento figurano nell’allegato V, parte A.

Mi limito a rilevare - proprio per quei motivi di armonizzazione dell’intero sistema normativo ai vari livelli ordinamentali - che il recente regolamento non si pone in contrasto o non è più “rigoroso” del T.U. 286/1998, con particolare riferimento all’art 19; ciò perchè la norma comunitaria fa salve non solo le disposizioni particolari relative al diritto d’asilo strettamente inteso, ma anche le disposizioni particolari sulla protezione internazionale o sul rilascio di visti per soggiorni di lunga durata.

Diversa è invece la situazione di determinate categorie di stranieri (ovviamente mi riferisco agli extracomunitari, essendo gli altri ampiamente equiparati o assimilati ai cittadini italiani[15]) ove vogliano fare ingresso e soggiornare nel territorio d’uno Stato perché ritengono di avere i requisiti per esercitare il diritto d’asilo o diritti ad esso assimilabili in via temporanea o definitiva. In questi casi v’è tutta una serie di norme internazionali cui il nostro Paese ha aderito : un vero e proprio corpo di jus cogens integrato da norme comunitarie che tendono a facilitarne l’applicazione.

Già nel 1951 veniva sottoscritta a Ginevra la Convenzione relativa allo status dei rifugiati[16] che richiama e costituisce applicazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata nel 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

La Convenzione, dopo aver richiamato la definizione di rifugiato sulla base delle convenzioni internazionali allora già vigenti (definizione ampliata con il protocollo del 1967[17]), indica gli obblighi generali: “Ogni rifugiato ha nei confronti del Paese in cui si trova dei doveri che comportano in particolare l’obbligo di conformarsi sia alle leggi e ai regolamenti, sia ai provvedimenti adottati per il mantenimento dell’ordine pubblico.” A loro volta, “gli Stati contraenti applicheranno le disposizioni della presente Convenzione ai rifugiati, senza discriminazione riguardo alla razza, la religione e il Paese di origine(art. 3).

In via di principio generale (fatte salve, cioè, norme più specifiche o più favorevoli contenute nella stessa Convenzione - ad es. art. 33 - e negli accordi successivi a carattere mondiale o regionale)Gli Stati contraenti non espelleranno un rifugiato residente regolarmente sul loro territorio, se non per motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico. L’espulsione di detto rifugiato non avrà luogo se non in esecuzione di una decisione presa conformemente alla procedura prevista dalla legge. Il rifugiato - a meno che imperiosi motivi di sicurezza nazionale lo impediscano- dovrà essere ammesso a fornire prove a suo discarico, a presentare un ricorso e ad essere rappresentato a questo scopo davanti alle autorità competenti o davanti ad una o più persone appositamente designate dalle autorità competenti. Gli Stati contraenti concederanno ad un rifugiato nella situazione di cui sopra un periodo di tempo ragionevole per permettergli di tentare di farsi ammettere regolarmente in un altro Paese. Gli Stati contraenti, durante questo periodo di tempo, potranno adottare quei provvedimenti di ordine interno che riterranno opportuni” (art. 32 Conv.).

La norma successiva disciplina, in particolare, il divieto di espulsione o respingimento (refoulement) disponendo che “Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (refouler) - in nessun modo - un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche. Il beneficio di detta disposizione non potrà tuttavia essere invocato da un rifugiato per il quale vi siano gravi motivi per considerarlo un pericolo per la sicurezza dello Stato in cui si trova, oppure da un rifugiato il quale, essendo stato oggetto di una condanna già passata in giudicato per un crimine o un delitto particolarmente grave, rappresenti una minaccia per la comunità di detto Stato”. 

In ogni caso, le espulsioni collettive sono vietate dal quarto protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo firmato a Strasburgo il 16 settembre 1963 (cfr. art. 19.1 della Carta dell’U.E. firmata a Nizza).

6. Nell’ambito comunitario e nel quadro di cui all’art. 63 del testo consolidato del trattato istitutivo della Comunità e degli artt. 18 e 19 della Carta di Nizza, hanno particolare rilevanza la direttiva n. 9 del 27 gennaio 2003 (norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri)[18], attuata con d. lgs. n. 140 del 2005, le direttive n. 83 del 29 aprile 2004 e n. 85 del 1° dicembre 2005 (rispettivamente:norme minime sull’attribuzione a cittadini di Paesi terzi o apolidi della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta e norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato) ed il regolamento n. 343 del 18 febbraio 2003[19]. Quest’ultimo viene comunemente denominato Dublino II perché fa seguito ad una convenzione internazionale firmata dagli Stati membri della Comunità europea in quella città il 15 marzo 1990, relativamente all’individuazione dello Stato competente per la domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri della Comunità (lo Stato d’ingresso, regolare o meno, dello straniero nell’ambito del territorio dell’Unione è quello competente per l’esame della domanda stessa, indipendentemente da dove l’istanza sia stata presentata).

Alcuni dei considerando del regolamento n. 343/2003 ne spiegano efficacemente i contenuti e le finalità: 1) Una politica comune nel settore dell’asilo, che preveda un regime europeo comune in materia di asilo, costituisce un elemento fondamentale dell’obiettivo dell’Unione europea di istituire progressivamente uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia aperto a quanti, spinti dalle circostanze, cercano legittimamente protezione nella Comunità. 2) Il Consiglio europeo, nella riunione straordinaria di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999, ha deciso di lavorare all’istituzione di un regime europeo comune in materia di asilo basato sull’applicazione, in ogni sua componente, della convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 28 luglio 1951, integrata dal protocollo di New York del 31 gennaio 1967, e di garantire in tal modo che nessuno sia rinviato in un paese nel quale rischia di essere nuovamente esposto alla persecuzione, in ottemperanza al principio di non respingimento. Sotto tale profilo, e senza pregiudizio dei criteri di competenza definiti nel presente regolamento, gli Stati membri, tutti rispettosi del principio di non respingimento, sono considerati Stati sicuri per i cittadini di paesi terzi. 3) Secondo le conclusioni del Consiglio europeo di Tampere, il regime europeo comune in materia di asilo dovrebbe prevedere a breve termine un meccanismo per determinare con chiarezza e praticità lo Stato membro competente per l’esame di una domanda di asilo. 4) Tale meccanismo dovrebbe essere fondato su criteri oggettivi ed equi sia per gli Stati membri sia per le persone interessate. Dovrebbe, soprattutto, consentire di determinare con rapidità lo Stato membro competente al fine di garantire l’effettivo accesso alle procedure volte al riconoscimento dello status di rifugiato e non dovrebbe pregiudicare l’obiettivo di un rapido espletamento delle domande d’asilo. 5) Nel contesto della progressiva realizzazione di un regime europeo comune in materia di asilo che potrebbe portare, a termine, all’introduzione di una procedura comune e uno status uniforme e valido in tutta l’Unione per le persone alle quali è stato riconosciuto il diritto d’asilo, è opportuno, nella presente fase, pur apportandovi i necessari miglioramenti individuati alla luce dell’esperienza, ribadire i principi che ispirano la convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità europee, firmata a Dublino il 15 giugno 1990 (4) (di seguito “convenzione di Dublino”), la cui attuazione ha stimolato il processo d’armonizzazione delle politiche in materia di asilo. 6) L’unità del nucleo familiare dovrebbe essere preservata, nella misura compatibile con gli altri obiettivi perseguiti attraverso l’individuazione dei criteri e meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo. 7) Il trattamento congiunto delle domande d’asilo degli appartenenti alla stessa famiglia da parte di un unico Stato membro consente di assicurare un esame approfondito delle domande e la coerenza delle decisioni adottate nei loro confronti. Nondimeno, gli Stati membri dovrebbero poter derogare ai criteri di competenza per permettere la riunione dei membri di una stessa famiglia quando ciò è reso necessario da motivi umanitari. 8) La progressiva instaurazione di uno spazio senza frontiere interne, entro il quale è garantita la libera circolazione delle persone in forza del trattato che istituisce la Comunità europea, e la definizione di politiche comunitarie relative alle condizioni di ingresso e di soggiorno dei cittadini dei paesi terzi, compresi gli sforzi comuni per la gestione delle frontiere esterne, rende necessario instaurare un equilibrio tra i criteri di competenza in uno spirito di solidarietà.

Malgrado il regolamento Dublino II costituisca un passo avanti, uno studio pubblicato nella primavera del 2006 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) evidenziava la necessità di una sostanziale revisione, al fine di assicurare meglio il rispetto dei diritti di richiedenti asilo e rifugiati. Il rapporto dell’UNHCR è stato reso pubblico proprio mentre la Commissione Europea è impegnata nella preparazione di una propria revisione del Regolamento. Il funzionamento del Regolamento presuppone che le leggi sull’asilo e le derivanti prassi dei paesi aderenti poggino su standard comuni. Tuttavia – osserva anche tale studio - un’armonizzazione delle politiche d’asilo e delle pratiche adottate all’interno dell’UE non è ancora stata raggiunta. Sia le legislazioni nazionali che le rispettive prassi in materia d’asilo variano ancora molto da paese a paese, generando così un diverso trattamento dei richiedenti asilo. Ciò può produrre disparità nell’applicazione del Regolamento Dublino II. La questione più importante – rileva ancora l’UNHCR - è l’evitare concretamente (cioè in tutti gli Stati comunitari ) che il richiedente asilo venga inviato fuori dello spazio regolato da Dublino II, senza che la sua richiesta sia stata esaminata. L’UNHCR evidenzia anche la necessità di un sistema più efficace per assicurare i ricongiungimenti familiari con una definizione più estesa della nozione di membro di una famiglia.

Con particolare riferimento al controllo delle frontiere comunitarie esterne e al già citato reg. com. n. 562 del 15 marzo 2006 (Schengen borders code) va premesso che il testo riconosce e s’ispira al convincimento che il controllo di frontiera è nell’interesse non solo dello Stato membro alle cui frontiere esterne viene effettuato, ma di tutti gli Stati membri che hanno abolito il controllo di frontiera interno[20]. Il controllo di frontiera – afferma uno dei punti delle premesse - dovrebbe contribuire alla lotta contro l’immigrazione clandestina e la tratta degli esseri umani[21] nonché alla prevenzione di qualunque minaccia per la sicurezza interna, l’ordine pubblico, la salute pubblica e le relazioni internazionali degli Stati membri. Giova forse precisare che a prescindere da quanto espressamente fatto salvo dal medesimo regolamento stesso e già rilevato in questo scritto, nessuna interpretazione di alcuna parte della normativa può porsi in contrasto con la tutela dei diritti dei rifugiati e dei diritti umani in genere, nei limiti di quanto internazionalmente riconosciuto e di quanto fa parte dei principi dello stesso ordinamento comunitario.

7. Gli aspetti della prevenzione del fenomeno dell’immigrazione clandestina via mare sono particolarmente complessi perché, come s’è avuta più volte occasione di rilevare, la legittimità e la liceità degli strumenti d’intervento trova un limite nel diritto umanitario (anzitutto) e nei principi del diritto del mare. Sotto quest’ultimo profilo si registra in epoca recente una significativa evoluzione nella consapevolezza che il principio fondamentale della liberta dei mari deve trovare nuovi e significativi contemperamenti soprattutto allo scopo di evitare comode protezioni a chi intende compiere i più turpi mercati mettendo a rischio la vita dei clandestini stessi.

Prescindo, per ora, dalle possibilità d’intervento offerte dal protocollo di Palermo del dicembre 2000 o da altre specifiche convenzioni internazionali, per limitarmi alla normativa contenuta nella convenzione di Montego bay del 1992 e più precisamente al diritto di visita ed al diritto d’inseguimento, disciplinati dagli artt. 110 e 111.

La prima di tali norme prevede che fatti salvi i casi di ulteriori poteri conferiti con singoli accordi, come ho già fatto cenno, una nave da guerra che incrocia in alto mare una nave straniera - escluse quelle che godano dell’immunità ex 95 e 96 della Convenzione stessa - non può fermarla a meno che non abbia serie ragioni per sospettare che la nave stessa eserciti la pirateria, trasporti persone ridotte in schiavitù, compia trasmissioni non autorizzate, sia priva di nazionalità o in realtà abbia la stessa nazionalità della nave da guerra malgrado batta bandiera straniera o rifiuti d’alzare la propria bandiera di nazionalità.

In tali casi, la nave da guerra può procedere ad una verifica dei titoli che autorizzano l’uso della bandiera. A tale scopo una un’ imbarcazione al comando d’un ufficiale può avvicinarsi alla nave sospetta e se dopo la verifica dei documenti permangono ancora i sospetti, la verifica può continuare a bordo della nave stessa con l’uso dei riguardi possibili. Tali poteri sono estesi alle navi che esercitano un servizio pubblico.

La Convenzione di Montego bay consente che la nave sospetta sia condotta o costretta a far rotta verso un porto nazionale solo nell’ipotesi di pirateria o di mancanza di nazionalità. Più complessa ed incerta è l’indagine circa la formazione di una consuetudine generale che estenda l’imposizione al caso di trasporto di persone ridotte in schiavitù con l’assimilazione ulteriore –almeno in determinate ipotesi- al traffico di emigranti clandestini.

Tale principio ha trovato puntuale applicazione in giurisprudenza. Cito, in particolare, una sentenza del Tribunale di Crotone pronunciata nel 2001 con riferimento a fatti verificatisi nello stesso anno[22]. A circa cento miglia dalla costa e, dunque, in alto mare (per incidens, l’Italia non ha proclamato la zona economica esclusiva ed è dubbio se si sia avvalsa del potere di proclamare la zona contigua), il gruppo di esplorazione aeromarittima aveva notato che si stava effettuando un trasbordo di persone da un peschereccio all’altro. Compiuta l’operazione, la nave che aveva effettuato il trasbordo si allontanava dalla costa italiana ma veniva raggiunta da unità della Guardia di Finanza che, nel presupposto di mancanza di qualunque segno d’indicazione della nazionalità e nel rispetto delle forme previste dal regime di diritto internazionale, esercitava il diritto di visita . Permanendo l’impossibilità di identificazione della nazionalità ed il sospetto che la nave era coinvolta in traffico di emigranti clandestini, veniva intimato di far rotta verso la costa italiana.  Successivamente alla convalida dell’arresto dei componenti dell’equipaggio ed allo svolgimento del processo, gli imputati vennero condannati per il reato di cui all’art. 12, terzo comma, del T.U. n. 386 del 1998, nel testo allora vigente.

Il Tribunale, allo scopo di giustificare la condotta della polizia giudiziaria in ordine al diritto di visita, richiama - oltre all’assenza di documenti d’immatricolazione e comunque idonei ad identificare la bandiera - anche la circostanza che molti elementi inducevano al sospetto che il peschereccio fosse coinvolto in un’attività criminosa e più precisamente nel traffico illecito di clandestini. È stato però esattamente osservato[23] che, sotto questo profilo, la seconda circostanza non sarebbe stata necessaria e determinante perché l’art. 110 della convenzione di Montego bay ritiene sufficiente il fatto che la nave sia priva di nazionalità o comunque manchino gli elementi per identificare la nazionalità stessa.

Più complessa è la questione relativa al potere di cattura di una nave non italiana in alto mare dopo l’esercizio del diritto di visita ed a seguito delle relative risultanze. Può però pervenirsi alle medesime conclusioni positive in ordine alla legittimità dell’operato dell’autorità di polizia, dal momento che la nave priva di nazionalità è pienamente soggetta al controllo e all’interferenza in alto mare di qualsiasi potenza marittima[24]. Quest’ultima pertanto – fatti salvi i diritti fondamentali relativi al trattamento dell’equipaggio - può applicare la propria legge e, più in generale, esercitare la propria giurisdizione senza il limite derivante dai poteri sovrani di un altro Paese, al contrario di casi di navi battenti legittimamente un’altra bandiera. Almeno sotto il profilo che rileva, il fatto commesso su nave priva di nazionalità è equiparabile al fatto commesso su nave italiana[25].

Nella specie, occorre ricordarlo, si era, peraltro, in presenza di comportamenti qualificabili come criminosi, cioè di attività dirette a favorire l’ingresso di stranieri nel territorio dello Stato e dunque di attività che presentano un sicuro collegamento con il territorio dello Stato stesso.

Nell’ambito della tutela degli interessi dello Stato rivierasco anche l’art. 111 dell’UNCLOS ha particolare rilevanza. La norma prevede che l’inseguimento di una nave straniera possa proseguire anche in alto mare, ove le competenti Autorità dello Stato costiero abbiano seri motivi per ritenere che la nave abbia violato le leggi ed i regolamenti dello Stato. L’inseguimento deve, però, cominciare quando la nave straniera o una delle sue imbarcazioni si trovino nelle acque interne, nelle acque arcipelagiche, nel mare territoriale o nell’ulteriore spazio di dodici miglia costituente la zona contigua[26]; la prosecuzione in alto mare è consentita solo se l’inseguimento non abbia subito interruzione prima dell’uscita dai suindicati spazi di giurisdizione. Tuttavia, la nave che esegua la cattura non deve essere necessariamente la stessa che ha iniziato l’inseguimento. Più precisamente, se la nave straniera, all’inizio dell’inseguimento si trova nella zona contigua, tale inseguimento è legittimo soltanto se la nave ha violato i diritti protetti in tale zona attraverso norme doganali, fiscali, sanitarie e d’immigrazione (art. 33 UNCLOS cit.). La normativa internazionale contiene una disposizione analoga per la piattaforma continentale e la zona economica esclusiva. L’Italia, per, non ha proclamato una propria z.e.e. considerando, tra l’altro, le difficoltà di delimitazioni e di rispetto dei principi di libera navigazione nel Mediterraneo; ma, secondo la mia opinione, quest’ultima esigenza potrebbe però trovare opportune soluzioni di salvaguardia compatibili con l’attuazione del regime della zona economica esclusiva.

Se l’inseguimento ha successo, la nave straniera può essere condotta in un porto nazionale per l’espletamento delle indagini e per il prosieguo giudiziario e amministrativo.

In giurisprudenza segnalo sul punto una sentenza del Tribunale di Locri[27], la quale pur di data non recente (1996) e pur riferitesi a fattispecie di contrabbando (e non di immigrazione clandestina) è particolarmente rilevante perché, nel periodo successivo all’entrata in vigore della Convenzione di Montego bay, costituisce uno dei primi casi di applicazione in Italia dell’art. 111 dell’UNCLOS in relazione alla teoria della presenza costruttiva. Viene ritenuto lecito l’inseguimento e la cattura anche della “nave madre” mai entrata nelle acque sotto la giurisdizione italiana, ritenendosi sufficiente ai fini della localizzazione del fatto costitutivo di reato e dell’inizio dell’inseguimento unitariamente considerato la sola presenza negli spazi marini territoriali delle imbarcazioni “gigogne”.

8. Ho avuto occasione di accennare ai dubbi (un po’ paradossali) circa l’attuale esistenza di una zona contigua al mare territoriale italiano. Premesso che non ho ritenuto (neppure in passato) giustificate -secondo una valutazione di costi benefici - le ragioni politiche di un notevole ritardo da parte dello Stato italiano nell’istituzione della zona in questione, il paradosso consiste nel fatto che a seguito dell’entrata in vigore della legge c.d. Bossi-Fini una norma impone alle nostre autorità di polizia di intervenire nella zona contigua[28]. Di contro, non risulta (fatte salve verifiche per il periodo molto recente) che in sede internazionale sia stata svolta tutta l’attività di notificazione necessaria per rendere opponibile agli stati terzi l’istituzione della zona in argomento con la precisazione relativa all’estensione (implicitamente ritengo nell’estensione massima di dodici miglia oltre il mare territoriale) e con un rispetto cautelativo dei criteri di delimitazione transfrontaliera (richiamo in particolare il criterio della linea mediana).

La conseguenza logica è che nell’ordinamento interno tutti gli obblighi derivanti dall’esistenza della zona contigua sono pienamente vigenti risultando implicitamente dal citato art. 12 del T.U. come modificato dalla legge da ultimo citata, la volontà dello Stato (e per esso del legislatore) di istituire la zona stessa o meglio (con un approccio di tipo dichiarativo e non strettamente costitutivo) di avvalersi de poteri previsti dalla convenzione di Montego bay in tali spazi marini. Nei confronti della comunità internazionale, l’eventuale perdurare delle omissioni in ordine alle formalità quanto meno di notificazione, impone, però, allo Stato italiano, caso per caso, l’onere di provare, in occasione di eventuali controversie, che lo Stato interessato (normalmente lo stato di nazionalità della nave oggetto di provvedimenti anche coercitivi) era venuto, in qualunque modo, a conoscenza dell’avvenuto esercizio della volontà dell’Italia in merito.

Per maggiore chiarezza trascrivo di seguito la norma già citata: La nave italiana in servizio di polizia, che incontri nel mare territoriale o nella zona contigua, una nave, di cui si ha fondato motivo di ritenere che sia adibita o coinvolta nel trasporto illecito di migranti, può fermarla, sottoporla ad ispezione e, se vengono rinvenuti elementi che confermino il coinvolgimento della nave in un traffico di migranti, sequestrarla conducendo la stessa in un porto dello Stato.

9. Ci si domanda in quale misura sia stato l’effettivo contributo apportato alla soluzione dei problemi in argomento da parte della Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine transnazionale organizzato ed il relativo protocollo contro il traffico illecito di emigranti, entrambe aperte alla firma a Palermo il 12 dicembre 2000 ed entrate internazionalmente in vigore rispettivamente il 29 settembre 2003 ed il 28 gennaio 2004[29].

Con particolare riferimento al protocollo specifico, concordo nel ritenere che per la parte che qui rileva (contrariamente ad altre parti e particolarmente a quelle che configurano specifici reati) non vi sono novità sensibili rispetto al regime UNCLOS sopradescritto, viene però curato il dettaglio procedurale anche sotto il profilo della salvaguardia ambientale e rafforzato il principio di cooperazione tra Stati.

Per facilitare comunque la comparazione traduco nel senso gli artt. 8 e 9.

Articolo 8: Uno Stato parte che ha dei motivi ragionevoli per sospettare che una nave - battente la propria bandiera o che sia immatricolata nei propri registi o se nazionalità o che in realtà ha la nazionalità di quello Stato malgrado utilizzi altra bandiera o rifiuti di alzarne una – eserciti un traffico illecito di emigranti via mare può chiedere agli altri Stati parte di aiutarla a por fine a tale pratica. Gli altri Stati parte ove richiesti forniscono l’assistenza nella misura del possibile tenuto conto dei mezzi di cui dispongono./Uno Stato parte che ha motivi ragionevoli per sospettare che una nave -che eserciti la libertà di navigazione conformemente al diritto internazionale e che batta la bandiera di un altro Stato o ne porti la marca d’immatricolazione- pratichi il traffico illecito d’emigranti per mare può comunicarlo allo Stato d’immatricolazione e, se la nazionalità è confermata, può chiedere a quest’ultimo Stato l’autorizzazione a: a) fermare la nave sospetta; b) esercitare il diritto di visita; c) prendere le misure appropriate nei confronti di tale nave, delle persone e del carico a bordo nella misura in cui è stato autorizzato./ Il tipo delle misure adottate deve essere comunicato senza ritardo allo stato della bandiera/ Lo Stato richiesto ha il dovere di rispondere senza ritardo alle domande sulla nazionalità della nave e sulle autorizzazioni/ Lo Stato di bandiera può subordinare l’autorizzazione a determinate condizioni concordate con lo Stato richiedente in conformità con il diritto internazionale e con gli scopi specifici della convenzione. Lo Stato parte può agire senza consenso dell’altro Stato solo per evitare un pericolo imminente per la vita delle persone o se altri accordi bilaterali o multilaterali lo consentono./Ogni Stato ha l’obbligo di specificare e far conoscere agli altri, tramite il segretariato generale dell’ONU, quali sono le autorità competenti: a fornire l’assistenza in mare nel quadro di cooperazione nelle operazioni riguardanti le navi sospette; a fornire informazioni sulla nave sospetta (effettività dell’immatricolazione), a concedere autorizzazioni per l’adozione diretta di misure appropriate da parte dello Stato richiedente./ Se, infine, la nave sospetta di traffico illecito d’emigranti è priva di nazionalità o può essere assimilata ad una nave priva di nazionalità, lo Stato parte può fermarla e visitarla. Se i sospetti si rivelano fondati, possono essere adottate tutte le misure appropriate conformemente al diritto interno ed internazionale.

Articolo 9 : Uno Stato parte quando adotta le misure di cui al precedente articolo: a) vigila sulla sicurezza e sul trattamento umanitario delle persone a bordo; b) tiene in debito conto dell’ esigenza di non compromettere la sicurezza della nave e del carico; c) tiene in debito conto dell’ esigenza di non arrecare pregiudizio agli interessi commerciali o ai diritti dello Stato di bandiera o di ogni altro Stato interessato; d) vigila, nei limiti dei propri mezzi, affinché ogni misura adottata nei confronti della nave sia ecologicamente razionale. Quando le ragioni delle misure adottate in applicazione dell’art. 8 si rivelino successivamente come destituite di fondamento, la nave è indennizzata per ogni perdita o danno eventuale, a condizione che non abbia commesso alcuna atto che giustificasse le misure adottate. In ogni caso le misure previste vanno eseguite in modo non recare nessun danno o ostacolo che non sia necessario allo scopo da raggiungere. Ciò con particolare riferimento ai diritti ed obblighi dello Stato costiero ed alle sue competenze, ai diritti ed obblighi dello Stato della bandiera in relazione alle sue competenze ed ai controlli amministrativi, tecnici e sociali riguardanti la nave. Ogni misura è adottata da navi ed aeromobili militari o da altre navi in servizio pubblico debitamente abilitate e con contrassegni che ne indichino il servizio di Stato.

10. In conclusione, occorre porre ancora in evidenza la particolare importanza, anche in sede ermeneutica, dell’applicazione del principio del primato del diritto internazionale e del primato del diritto comunitario nel significato meglio specificato nelle pagine che precedono.

In un contesto in cui non risulta completato in modo soddisfacente il quadro di norme comunitarie (secondo le linee ex art. 63 del Trattato istitutivo)[30] e di accordi internazionali sull’argomento ed in cui le norme nazionali sono ancora, per così dire, in fase di piena sintonizzazione anche con la carta costituzionale, la funzione di interpretazione e di adeguamento al singolo caso concreto di regole astratte assume un ruolo centrale. Per non pervenire a risultati applicativi aberranti occorre, di volta in volta, tener conto dei principi di diritto umanitario, tra i quali ha una posizione eminente l’obbligo di soccorso in mare.

Sul piano degli accordi internazionali, il protocollo di Palermo del 2000 costituisce un significativo passo avanti, ma v’è ancora molto cammino da percorrere soprattutto nel riesame di alcune norme che, pur ispirandosi all’antico e giusto principio di libertà di navigazione, in realtà, per il modo ampio e generico della loro formulazione, finiscono con il favorire in più d’un caso non la libertà ma l’arbitrio ed il crimine. Nel diritto internazionale del mare, i poteri degli Stati (e per essi delle loro navi militari) riconosciuti dall’UNCLOS nelle ipotesi di pirateria andrebbero estesi, con gli opportuni adattamenti, al traffico illecito d’emigranti via mare, inteso come quel comportamento che - al fine di trarre direttamente o indirettamente vantaggi finanziari o d’altro tipo materiale - mira ad assicurare l’ingresso illecito in uno Stato da parte di chi non ne abbia la nazionalità o la residenza (v. art. 3 lett. a prot. Palermo cit.). Il T.U. 286/98, nel testo aggiornato del 2002 e 2004, a sua volta dispone, all’art. 12 terzo comma che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre profitto anche indiretto, compie atti diretti a procurare l’ingresso di taluno nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente testo unico, ovvero a procurare l’ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da quattro a quindici anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona”[31].

L’attività di prevenzione, com’è comune convincimento, costituisce uno strumento ottimale rispetto all’uso di strumenti repressivi ma è evidente che un’attività di prevenzione che dia risultati soddisfacenti e duraturi non può prescindere da una piena cognizione delle cause del fenomeno e da interventi per eliminarle, utilizzando forme di partenariato con i Paesi terzi, allo scopo di assicurare la coerenza tra l’azione interna ed esterna, come osserva anche il Parlamento europeo in un documento relativamente recente[32].

Premesso che le migrazioni in sé considerate fanno parte dei grandi fenomeni della storia del mondo, il problema è combattere, invece, le forme effettivamente illecite ed i fenomeni di criminalità (specie organizzata) connessi e nel contempo approntare, in un quadro comunitario, strumenti normativi per una gestione organica dei movimenti migratori (anche secondari) in positivo sotto un profilo cioè economico-sociale, accanto alla pur necessaria legislazione di polizia (ordini, divieti, sanzioni…).

Accanto alla figura del rifugiato politico - con le tutele già esistenti, ma che necessitano puntuale applicazione e perfezionamento - è stata coniata (in modo solo apparentemente paradossale e provocatorio) l’espressione di rifugiato economico, cioè di chi, in situazione di estrema necessità, fugge dal pericolo di morte non a causa delle sue idee, ma della miseria e della fame.

Su questa “provocazione” non mi pare che la comunità internazionale ed i singoli Stati abbiano già messo in opera misure idonee e sufficienti anche se,specie recentemente, non sono mancate iniziative e proposte soprattutto in sede comunitaria[33].

La preoccupazione per le precarie condizioni economiche di una parte considerevole della popolazione mondiale non ha radici meramente etiche, ma altrettante motivazioni molto pragmatiche sotto il profilo della finalità di prevenzione del fenomeno oggetto di questo scritto. Basta soffermarsi sul forte legame tra pace ed effettiva sicurezza, sviluppo e diritti umani[34].



* Lo scritto, con integrazioni e modifiche, è il testo di una relazione svolta il 18 novembre 2006 presso il Palazzo di Giustizia di Palermo nell’ambito di attività di formazione decentrata del Consiglio Superiore della Magistratura (Ufficio dei referenti presso la Corte d’Appello di Palermo).

** Professore ordinario di diritto della navigazione, Università di Palermo, Facoltà di Economia.

[1] V., tra gli altri, Bigliazzi-Geri-Breccia-Busnelli-Natoli, Trattato di diritto civile, I, Torino, 1987, 65.

[2] Il T.U. a sua volta fa ampio riferimento alla legge n. 40 del 1998. Un precedente tentativo di disciplina organica si rinviene nel decreto legge 30 dicembre 1989 n. 416 convertito con legge 28 febbraio 1990 n. 39, che – com’è stato osservato (piantedosi, Libertà fondamentali, misure di polizia e sistema sanzionatorio nella legislazione sull’immigrazione in www. giustizia-amministrativa.it) - dimostra il tentativo di riconsiderare il fenomeno immigratorio come fenomeno di ristrutturazione sociale, piuttosto che come esclusivo problema di pubblica sicurezza secondo l’impostazione del T.U. del 1931. Modificazioni e integrazioni sono state apportate con la legge 30 luglio 2002 n. 189 e con il decreto legge 14 settembre 2004 n. 241 convertito con legge n. 241/2004.

La relativa normativa regolamentare di cui al d.P.R. 31 agosto 1999 n. 394 è stata modificata con d.P.R. 18 ottobre 2004 334.

[3] In materia v. anche Corte cost. ord. n. 146 del 2002.

[4] Sul rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, v. Cons. Stato VI 17 maggio 2006 n. 2868 (“Il diniego di rilascio del permesso di soggiorno, richiesto per asilo politico, non consegue automaticamente al mancato riconoscimento dello status di rifugiato politico. Il questore, infatti, deve verificare se non siano vietati proprio l’espulsione o il respingimento verso lo Stato di appartenenza a causa dei motivi ostativi previsti dalla normativa di cui all’ art. 19, comma 1, d. lgs. n. 286 del 1998 e, quindi, se sia possibile rilasciare il permesso di soggiorno per motivi umanitari: qualora tale verifica non sia stata effettuata si determina l’illegittimità del provvedimento di rigetto della succitata istanza di permesso di soggiorno per asilo politico”); v. anche Cass. n. 8423 del 2004. Aggiungo che l’applicazione del d. lgs. n. 286 del 1998 va ora concretamente armonizzata con il d. lgs. n. 140 del 2005, che attua la direttiva 2003/9 su “norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli stati membri.

[5] V. Scovazzi, La tutela della vita umana in mare, con particolare riferimento agli immigrati clandestini diretti verso l’Italia in Dir. int. 2005, fasc. 1, 106.

[6] camarda, Il soccorso in mare. Profili contrattuali ed extracontrattuali, Milano, 2006, pp. 55-56, 64, 171 e ss., p. 178 e ss. e passim.

[7] Da ultimo mi riferisco ad alcuni interventi nel corso del seminario di Palermo del 5 dicembre 2006 organizzato dall’Agenzia della Nazioni Unite per il rifugiati e dal Consiglio italiano per i rifugiati.

[8] V. risoluzione del MSC 155 (78) del 20 maggio 2004.

[9] V. risoluzione MSC 153 (78) del 20 maggio 2004.

[10] V. sul concetto di place of safety,v. amplius i punti da 6.12 a 6.18 della risoluzione del Maritime safety Committee (MSC) 167 (78) adottata il 20 maggio 2004 (Guidelines on the treatment of persons rescued at sea):

6.12 A place of safety (as referred to in the Annex to the 1979 SAR Convention, paragraph1.3.2) is a location where rescue operations are considered to terminate. It is also a place where the survivors’ safety of life is no longer threatened and where their basic human needs (such as food, shelter and medical needs) can be met. Further, it is a place from which transportation arrangements can be made for the survivors’ next or final destination.

6.13 An assisting ship should not be considered a place of safety based solely on the fact that the survivors are no longer in immediate danger once aboard the ship. An assisting ship may not have appropriate facilities and equipment to sustain additional persons on board without endangering its own safety or to properly care for the survivors. Even if the ship is capable of safely accommodating the survivors and may serve as a temporary place of safety, it should be relieved of this responsibility as soon as alternative arrangements can be made.

6.14 A place of safety may be on land, or it may be aboard a rescue unit or other suitable vessel or facility at sea that can serve as a place of safety until the survivors are disembarked to their next destination.

6.15 The Conventions, as amended, indicate that delivery to a place of safety should take into account the particular circumstances of the case. These circumstances may include factors such as the situation on board the assisting ship, on scene conditions, medical needs, and availability of transportation or other rescue units. Each case is unique, and selection of a place of safety may need to account for a variety of important factors.

6.16 Governments should co-operate with each other with regard to providing suitable places of safety for survivors after considering relevant factors and risks.

6.17 The need to avoid disembarkation in territories where the lives and freedoms of those alleging a well-founded fear of persecution would be threatened is a consideration in the case of asylum-seekers and refugees recovered at sea.

6.18 Often the assisting ship or another ship may be able to transport the survivors to a place of However, if performing this function would be a hardship for the ship, RCCs should attempt to arrange use of other reasonable alternatives for this purpose.

[11] Trevisanut, Le Cap Anamur: profils de droit international et de droit de la mer (2004) in Annuaire du droit de la mer, Vol. 9, pp. 49-64, la quale, inoltre, confida nel ruolo dell’Agenzia europea per la sicurezza marittima istituita con reg.com CE 1406/200, 2 in relazione ad un’interpretazione più uniforme delle convenzioni internazionali in materia.

[12] Va da sé che le singole fattispecie concrete hanno particolari connotazioni che, di volta in volta, possono condurre a conclusioni diverse. In tema di favoreggiamento di immigrazione clandestina si veda ad esempio Cass. Pen. 28 ottobre 2003 n. 5583 in Riv. Pen. 2004, 1144 nella cui massima si legge che “Agli effetti della legge penale non può considerarsi commesso, neanche in parte, nel territorio dello Stato il reato di favoreggiamento dell’immigrazione illegale di cittadini extracomunitari previsto dall’art. 12, primo e terzo comma, del d. lgs. 286 del 1998, così come modificalo dall’art. 11 della l. 189 del 2002 allorché, essendosi la condotta concretata nel trasporto clandestino degli stranieri a mezzo di un autocarro traghettato su nave non battente bandiera italiana, la scoperta del “carico umano” sia avvenuta in acque internazionali, in quanto in tale eventualità le persone trasportate, dal momento della scoperta, cessano di trovarsi nella disponibilità di fatto del trasportatore. (Nella specie, la Corte ha ritenuto che l’occultamento degli stranieri operato dal trasportatore sotto copertura di un apparente carico di merce era stato commesso per intero all’estero e che il risultato finale voluto, e cioè quello dell’introduzione dei clandestini in territorio italiano, non era ricollegabile allo stratagemma a tal fine escogitato dall’autore del fatto, bensì all’autonoma decisione del comandante della nave di adottare, in relazione al luogo e al momento dell’accertamento, le misure impostegli dal dovere di condurla a destinazione per apprestare efficace soccorso a persone che, per le disumane condizioni di trasporto, versavano in concreto pericolo di danni all’integrità fisica)”.

In linea generale, però, “la commissione di un reato quale il concorso in favoreggiamento all’ingresso di stranieri nel territorio dello Stato, può abilitare al respingimento dallo Stato dello straniero e, in base all’art. 5, comma 5 del d. lgs. n. 286/1998, alla revoca del permesso di soggiorno” (Cons. Stato, sez. VI 21 settembre 2006 n. 5544).

[13] Il richiamo ai principi che ogni legge ordinaria deve osservare potrebbe continuare ponendo in evidenza, ad esempio, il contenuto dell’art. 6 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo in tema di processo equo e la correlata normativa costituzionale in materia. Si veda anche il Patto internazionale sui diritti civili e politici ed in particolare l’art. 14 ove, tra l’altro, si riconosce il diritto dell’interessato ad essere presente al processo. Il Patto è stato adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione n. 2200 A (XXI) del 16 dicembre 1966 ed è entrato in vigore il 23 marzo 1976. La firma dell’Italia risale al 18 gennaio 1967 e la ratifica ed entrata in vigore al 15 settembre 1978.

[14] Sul caso di cui al testo, v. ampiamente Fornari, Soccorso di profughi in mare e diritto d’asilo: questioni di diritto internazionale sollevate dalla vicenda della nave Tampa in La Comunità internazionale, 2002, 61.

[15] V. ad esempio quanto afferma la Corte di giustizia 27 aprile 2006 nel procedimento n. 441/02 in tema di non automatismo dell’espulsione di cittadino di Stato membro perché contrario al principio della libera circolazione; v. della stessa Corte, anche la sentenza del 29 aprile 2004 pronunciata nei procedimenti C- 482/01 C 493/01. In tema di respingimento di cittadini comunitari alla frontiera v. Trib. Reg. giust. Amm., Bolzano, 23 marzo 2006 n. 118, che annulla il provvedimento impugnato, avuto riguardo al contenuto dell’atto (motivazione e dispositivo) e fatta applicazione del d.P.R. 18 gennaio 2002 n. 54, in relazione al principio generale della libera circolazione dei cittadini comunitari all’interno dell’Unione Europea ed alla Convenzione di Schengen.

[16] In sede regionale si ricollegano alla Convenzione dell’ONU, non soltanto la Convenzione europea sui diritti dell’uomo ulteriormente richiamata in questo scritto, ma anche la Convenzione adottata dall’Unione Africana (OUA) nel 1969 (“disciplina di determinati aspetti del problema dei rifugiati in Africa”) e la Dichiarazione di Cartagena de Indias sui rifugiati, adottata il 22 novembre 1984 dal Colloquio internazionale sui rifugiati in America centrale, Messico e Panama:problemi giuridici e umanitari svoltosi.

[17] Il protocollo venne ratificato dall’Italia a seguito della legge n. 95 del 1970.

[18] Nella direttiva stessa si precisa che essa non si applica quando si applicano le disposizioni della direttiva 2001/55/CE del Consiglio del 20 luglio 2001 sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’ equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi.

[19] Sulle modalità d’applicazione v. anche reg. com. n. 1560 del 2 settembre 2003. Di particolare rilevanza sono le norme di attuazione della clausola umanitaria (ricongiungimento familiare etc.).

[20] Nel quadro di cui al testo va richiamata, anche se di data non recente (doc. COM 2001, 672 del) la proposta contenuta in una comunicazione della Commissione sull’istituzione di una Guardia di frontiera comune. Hanno costituito già una realtà le operazioni di pattugliamenti misti in mare compiuti, nell’ambito del progetto “Nettuno”, nel Mediterraneo centrale e orientale durante il biennio 2003 e 2004; il progetto era stato approvato in sede comunitaria durante il semestre di presidenza italiana.

[21] Sulla irrilevanza del consenso della vittima in numerose e frequenti circostanze (alternativamente:offerta di pagamento, uso di inganno o frode; abuso d’autorità influenza o pressione; uso di coercizione violenza o minacce) ai fini dell’individuazione della fattispecie di reato, si sofferma anche la decisione quadro 2002/629/GAI del Consiglio dei Ministri GAI in data 19 luglio 2002.

In connessione con il fenomeno che costituisce argomento di questo scritto e con le specifiche sanzioni penali va richiamata anche la legge 11 agosto 2003 n. 228 che punisce la “tratta di persone”. Infatti, lo stato di soggezione continuativa o l’esercizio su una persona di poteri corrispondenti a quelli di diritto di proprietà possono costituire talora l’evoluzione perversa dell’immigrazione clandestina.

[22] Trib. Crotone 27 settembre 2001 in Dir. mar. 2003, 906.

[23] schiano di pepe, Diritto internazionale e traffico di migranti per mare:alcune brevi note, nota a Trib. Crotone cit. in Dir. mar. 2003, 907.

[24] giuliano scovazzi treves, Diritto internazionale, vol.II, Milano, 1983, 280.

[25] Nella fattispecie di cui al testo, non vi sono invece elementi sufficienti per l’applicazione della nota teoria della presenza costruttiva, che, in conformità a pronunce giurisprudenziali, ritiene attuato in territorio italiano un comportamento criminoso concorrente se la nave che lo compie (rectius l’equipaggio), pur stando fuori dalle acque territoriali, contribuisce attivamente (di solito a mezzo di altra nave presente nelle acque territoriali) alla commissione di un reato, che si perfeziona negli spazi giurisdizionali dello Stato.

[26] Sulla liceità dell’inizio dell’inseguimento nella zona contigua, v. già App. Palermo 20 marzo 1958 in Dir. int. 1960, 395.

[27] Trib. Locri 14 agosto 1996 in Dir. mar. 1998, 703 con nota di Angeloni- Senise, Il diritto d’inseguimento e la cattura della Sea Wave.

[28] Si veda anche il d.M. 14 luglio 2003 (disposizioni in materia di contrasto all’immigrazione clandestina in G.U. n. 220 del 2003) ed in particolare l’art. 6 che trascrivo integralmente: “1. Ferme restando le competenze dei prefetti dei capoluoghi di regione ai sensi dell’art. 11, comma 3, del testo unico in materia di coordinata vigilanza, nelle acque territoriali e interne italiane le unità navali delle Forze di polizia svolgono attività di sorveglianza e di controllo ai fini della prevenzione e del contrasto del traffico illecito di migranti. Le unità navali della Marina militare e delle Capitanerie di porto concorrono a tale attività attraverso la tempestiva comunicazione dell’avvistamento dei natanti in arrivo o mediante tracciamento e riporto dei natanti stessi, in attesa dell’intervento delle Forze di polizia. Quando in relazione agli elementi meteomarini ed alla situazione del mezzo navale sussistano gravi condizioni ai fini della salvaguardia della vita umana in mare, le unità di Stato presenti, informata la Direzione centrale e sotto il coordinamento dell’organizzazione di soccorso in mare di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 settembre 1994, n. 662, provvedono alla pronta adozione degli interventi di soccorso curando nel contempo i riscontri di polizia giudiziaria./2. Al fine di rendere più efficace l’intervento delle Forze di polizia nelle acque territoriali è stabilita una fascia di coordinamento che si estende fino al limite dell’area di mare internazionalmente definita come «zona contigua» nelle cui acque il coordinamento delle attività navali connesse al contrasto dell’immigrazione clandestina, in presenza di mezzi appartenenti a diverse amministrazioni, e’ affidato al Corpo della guardia di finanza”.

[29] Per l’Italia, v. legge di autorizzazione alla ratifica n. 146 del 16 marzo 2006.

[30] La comunicazione della Commissione del 19 luglio 2006 dal titolo “Le priorità politiche nella lotta contro l’immigrazione clandestina di cittadini di Paesi terzi” può costituire una solida base per le successive fasi della normativa comunitaria sull’argomento. Già nella comunicazione sul medesimo argomento pubblicata nel 2001, la Commissione manifesta l’intenzione di “affrontare la questione dell’immigrazione clandestina adottando un’impostazione di ampio respiro”. Il documento del 2006 enumera le iniziative comunitarie del quinquennio precedente. Segue la parte dedicata alla necessità di elaborazione di un’efficace intesa comune per la gestione integrata delle frontiere esterne con il richiamo al regolamento ( n. 2007/2004) che istituisce l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne (FRONTEX). Ampio spazio è dedicato alla lotta contro la tratta degli esseri umani. Infine la Comunicazione si occupa della responsabilità dei vettori. Sul punto si legge: “Per quanto riguarda gli obblighi dei vettori di prevenire l’immigrazione clandestina, particolarmente pertinenti sono l’articolo 26 della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, la direttiva 2001/51/CE in materia di responsabilità dei vettori e la direttiva 2004/82/CE, riguardante l’obbligo dei vettori di comunicare le informazioni sui passeggeri. Si intraprenderà una valutazione degli effetti di tali provvedimenti, allo scopo di ovviare alle carenze o lacune. Il forum istituito nel 2001, comprendente rappresentanti degli Stati membri, del settore dei trasporti e delle organizzazioni umanitarie dovrebbe vagliare nel corso del 2007 le possibilità di cooperazione tra le autorità nel settore della migrazione ed i vettori ed individuare le pratiche migliori”.

Sull’argomento v., tra gli altri, l’efficace quadro d’insieme di pisillo mazzeschi, Strumenti comunitari di prevenzione e di contrasto all’immigrazione clandestina in il Diritto dell’unione europea, 2004, fasc. 4, 723.

[31] Il Consiglio dei Ministri il 12 ottobre 2006 ha approvato un disegno di legge che oltre a modificare il primo comma dell’art. 12 ( Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona), così modifica il terzo comma di cui al testo:. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona nel caso in cui: a) il fatto riguarda l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o più persone; b) la persona trasportata è stata esposta a pericolo per la sua vita o la sua incolumità per procurare l’ingresso o la permanenza illegale; c) la persona trasportata è stata sottoposta a trattamento inumano o degradante per procurare l’ingresso o la permanenza illegale; d) il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti; e) gli autori del fatto hanno la disponibilità di armi o materie esplodenti. Il nuovo testo, accanto all’espressione generica (“atti diretti a…”) introduce quattro modalità specifiche che contribuiscono ad eliminare dubbi interpretativi (“promuovere, dirigere, organizzare o finanziare il trasporto di stranieri”). Permane comunque la natura di reato di pericolo, com’è stato osservato in sede di primo sintetico commento (Zaina, Immigrazione clandestina: prime considerazioni sulle nuove disposizioni in Altalex n. 1586 del 16 .11.2006: www. altalex.com, ove si richiama Cass. pen. 20 gennaio 2004 in Riv. dir. pen. 2004, 12666).

[32] Parlamento europeo, Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni, 9 novembre 2004. In riferimento a quella parte degli accordi concernenti la riammissione, va da sè che caso per caso l’Autorità competente dovrà comunque accertare che non vi ostino motivi indicati dall’art. 19 del d. lgs. n. 286/1998. Vi sono inoltre difficoltà ad inserire nei testi degli accordi le clausole relative alla riammissione di cittadini di Paesi terzi.

[33] V. il Libro verde sull’approccio dell’Unione europea alla gestione della migrazione economica del gennaio 2005. Come posto in evidenza dal comunicato ufficiale, il Libro ha lo scopo di avviare un dibattito approfondito, anche con la società civile, sulla forma più appropriata da dare alla normativa comunitaria relativa alle condizioni di ammissione e di residenza dei cittadini di paesi terzi che emigrano per motivi economici e sul valore aggiunto rappresentato dall’adozione di tale quadro comune. Prescindendo dalle normative più recenti già richiamate in questo scritto, cito, ancora in relazione a quest’ultimo periodo, l’istituzione di una rete di informazione e coordinamento sicura sul web per i servizi di gestione dell’immigrazione degli Stati membri (marzo 2005), la Comunicazione della Commissione che invita ad istituire meccanismi di solidarietà finanziaria con la creazione di quattro fondi: il Fondo europeo per i rifugiati, il Fondo per le frontiere esterne, il Fondo europeo per l’integrazione dei cittadini dei paesi terzi e il Fondo europeo per i rimpatri dei cittadini di paesi terzi. Altre iniziative riguardano gli orientamenti per l’attuazione di programmi di protezione regionale, destinati a rafforzare la capacità delle zone dell’Unione europea contigue alle regioni di provenienza, la bozza di un’agenda comune per l’integrazione, la redazione di una serie di orientamenti per migliorare l’impatto delle migrazioni sullo sviluppo dei paesi d’origine (ad esempio facilitando le rimesse dei migranti verso tali paesi o incoraggiando il ritorno temporaneo dei migranti nei paesi d’origine, in modo che possano trasferire le competenze acquisite ai loro compatrioti); un piano d’azione sull’immigrazione legale per il periodo 2006-2009.

Sul piano del diritto internazionale, richiamo anche nel contesto delle interpretazioni sistematiche, il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. Il Patto, adottato dall’Assemblea Generale il 16 dicembre 1966, entrato internazionalmente in vigore il 3 gennaio 1976, è stato ratificato dall’Italia il 15.09.1978 (l’ordine d’esecuzione è stato dato con legge 25.10.1977 n. 881). Noto, invece, lo scarso interesse o comunque la scarsa sollecitudine dei Paesi europei in genere, nella ratifica della Convenzione ONU sulla protezione dei diritti dei lavoratori emigranti, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 18 dicembre 1990 e comunque entrata internazionalmente in vigore nel 2003, per avere raggiunto il minimo degli strumenti di ratifica, pur non essendo intervenute le adesioni del gruppo di Paesi cui ho fatto cenno. Quanto alle intese sui pattugliamenti misti in mare, ne va segnalata, in linea generale, la particolare efficacia (cito ad esempio l’esperienza del progetto “Nettuno”) relativamente al pattugliamento congiunto nel Mediterraneo centrale e orientale nel 2003 e 2004, il progetto era stato approvato in sede comunitaria durante il semestre di presidenza italiana.

[34] Sul legame di cui al testo, v. amplius ed in generale, pucci di benischi, Sicurezza internazionale, sviluppo sostenibile e diritti umani: l’agenda delle Nazioni Unite ed il ruolo dell’Italia in La Comunità internazionale, 2006, fasc. 2, pp. 225-233. Su nuove prospettive e approcci sistematici, v. anche Quadri S., Prospettive di evoluzione dei migranti nel diritto internazionale, comunitario e interno in La Comunità internazionale, 2005, fasc. 2, 309. Con particolare riferimento al profilo della difesa dei diritti umanitari, v. vassallo paleologo, Monitoraggio della discriminazione e della xenofobia contro i migranti, assistenza legale e interventi sociali: quali prospettive dopo la conferenza di Durban? (Relazione presentata al seminario di esperti dei Paesi occidentali intitolato “Messa in opera del Programma di azione di Durban: uno scambio di idee su come andare avanti”, organizzato dall’Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, Bruxelles, 10-12 dicembre 2003) in Diritto,immigrazione e cittadinanza, 2004, fasc. 3 pag. 59 – 70.

 

Data di pubblicazione: 12 gennaio 2007.

 

N.d.r. per un commento dell’articolo si segnalano gli scritti di G. Cangelosi e di G. Mancuso, vedi nelle recensioni della rubrica “Osservatorio Euromediterraneo”

http://www.giureta.unipa.it/VolumeV2007/index.html