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Vol. V/2007

RIVISTA DI DIRITTO DELL’ECONOMIA,

DEI TRASPORTI E DELL’AMBIENTE

 

 

 

Limiti alla legittimazione ad impugnare

le deliberazioni assembleari annullabili (artt. 2377-2378 c.c.)

Antonio Zabbia

 

Indice

1. Premessa: principi guida ed obiettivi del riformatore nella nuova disciplina dell’impugnazione delle deliberazioni assembleari di s.pa.

2. La legittimazione del socio assente, dissenziente e astenuto. La titolarità del diritto di voto.

3. L’ulteriore requisito della partecipazione qualificata al capitale sociale. La “conversione” del potere di impugnativa in diritto al risarcimento del danno

 

1. Premessa: principi guida ed obiettivi del riformatore nella nuova disciplina dell’impugnazione delle deliberazioni assembleari di s.pa.

In conformità ai principi fissati nella Legge delega (L. 3 ottobre 2001, n. 366), il Legislatore ha riformulato le disposizioni normative contenute negli articoli 2377-2379 ter c.c., innovando profondamente la disciplina della impugnabilità delle delibere assembleari di società per azioni.

Uno dei principi guida che ispira tale nuovo sistema normativo va ravvisato nel favore accordato alla stabilità degli atti societari, al fine di perseguire una pluralità di obiettivi ritenuti meritevoli di maggiore tutela normativa.

In primo luogo viene in rilievo la riduzione delle incertezze nella conduzione dei traffici commerciali, per garantirne sicurezza e rapidità.

Non possono non rilevarsi a tal proposito le gravi conseguenze che scaturirebbero dalla caducazione degli atti posti in essere dalla società durante la sua esistenza, conseguenze certamente di portata più ampia a quelle che possono derivare dalla invalidazione di altri tipi di atti giuridici, ed in particolare contratti di  scambio. 

Si considerino anche le conseguenze negative per la sicurezza dei traffici che conseguirebbero, con ogni probabilità, se ogni irregolarità  riscontrabile nell’attività decisionale della società fosse rigorosamente assoggettata ad un sistema di tutele invalidatorie, con grave pregiudizio per la stessa società “per l’intralcio subito dai propri affari a causa del clima sospetto e di diffidenza del suo operato che si verrebbe a creare qualora incontrollabili vizi degli interna corporis potessero tradursi in inefficacia dei negozi posti in essere”[1].

Emerge ancora l’obiettivo del Legislatore di agevolare la maggioranza, in più occasioni solo relativa[2], ad esercitare senza ostacoli il potere di governo dell’impresa. Obiettivo, questo, di rilievo centrale nel quadro normativo considerato, ma non esente da critiche, come quelle di chi contrappone le riflessioni in atto in contesti normativi diversi,  tese a rilevare la necessità di introdurre dei “presidi normativi a tutela dei diversi interessi, anche diffusi e quindi eminentemente pubblici, che il fenomeno societario coinvolge”[3], con l’intervento riformatore attuato dal nostro Legislatore, nell’ambito del quale la società per azioni appare come “un affare sostanzialmente privato, nel quale il ruolo del Legislatore è soprattutto quello di agevolare la conduzione dell’impresa da parte di chi detiene il potere di gestirla, mentre la tutela degli interessi che vi si contrappongono è affidata alla dimensione privatistica della contrattazione, così implicitamente consacrando il principio per cui la violazione delle regole lede solo interessi privati, e viene sanzionata nella misura in cui i privati ritengono conveniente (o sono in grado di) sanzionarla”[4].

Costituisce oggetto degli obiettivi perseguiti dal Legislatore anche quello di consentire lo sviluppo del mercato, non solo dei beni e dei servizi prodotti dell’impresa, ma anche - e soprattutto per certa dottrina[5]- degli strumenti finanziari emessi dalla società.

In particolare, relativamente al profilo da ultimo considerato, c’è chi[6], riscontrando nella posizione di socio delineata dalle nuove norme il ruolo di investitore in strumenti finanziari emessi dalla società, guarda all’assemblea “come al momento di riunione, appunto, dei soci investitori, piuttosto di chi, direttamente o indirettamente, gestisce l’impresa o, ancora, di chi concorre alla gestione”[7].

Funzionale al perseguimento di tali obiettivi è tendenza del riformatore ad orientarsi nella direzione di una consistente riduzione dello spazio riconosciuto alle tutele tradizionalmente concepite come reali, o c.d. tutele demolitorie, verso gli atti della società o dei suoi organi, per lasciare spazio, ma non sempre, alle tutele cosiddette risarcitorie (o obbligatorie).

Il Legislatore, infatti, per garantire certezza alle situazioni giuridiche scaturenti dalle deliberazioni assembleari, ponendo anche un freno alle ingiustificate strumentalizzazioni, e più specificamente per dare attuazione ai principi e criteri direttivi fissati all’art. 4 della Legge delega 366/2001, è intervenuto nella materia trattata, apportando al regime dei vizi della deliberazione assembleare, profonde modificazioni, forse tra le più incisive, soprattutto dal profilo dogmatico, tra quelle introdotte dalla riforma, ed ha ridimensionato significativamente, per non dire drasticamente, l’ambito dell’impugnazione delle delibere assembleari, tanto nella sfera dell’annullabilità che in quella della nullità.

Ciò  attraverso la previsione di specifiche regole e particolari meccanismi giuridici incidenti su diversi profili del sistema di invalidazione delle deliberazioni assembleari: dalla riduzione delle cause di invalidità, al declassamento di cause di nullità a cause di annullabilità, dall’ampliamento delle possibilità di rimediare ex post ai vizi delle deliberazioni, in modo differente asseconda del loro oggetto, all’introduzione di ipotesi di preclusioni all’impugnazione, fino alla limitazione della legittimazione ad impugnare.

 

2. La legittimazione del socio assente, dissenziente e astenuto. La titolarità del diritto di voto.

Le nuove disposizioni non modificano l’impostazione della regolamentazione previgente, confermando il principio della tassatività dei soggetti legittimati, non derogabile in alcun modo, ma apportano alcune rilevanti innovazioni nella definizione della sfera dei soggetti legittimati.

Si considerino in primo luogo le disposizioni contenute al comma secondo e terzo dell’art. 2377 c.c. e quelle del successivo art. 2378, c.c., di natura prettamente processuale, con le quali il Legislatore ha profondamente innovato le regole in tema di legittimazione all’impugnativa contro le delibere annullabili.

Relativamente alla legittimazione all’impugnazione degli organi sociali la nuova disposizione la riconosce espressamente “agli amministratori, al consiglio di sorveglianza ed al collegio sindacale”.

Nella disposizione in esame il Legislatore prende posizione sulla antica e dibattuta questione interpretativa relativa alla legittimazione collegiale o individuale all’impugnativa.

Invero la questione può considerarsi certamente superata solo in relazione alla posizione dell’organo di controllo: il riferimento testuale al collegio sindacale o al consiglio di sorveglianza piuttosto che ai sindaci, come nel vecchio testo, consente con certezza di ritenere che la legittimazione all’impugnativa sia riconosciuta all’organo nel suo complesso e non già ai suoi singoli componenti, salvo il caso di una delibera che leda un loro interesse personale. Soluzione che appare coerente con l’esigenza comune a tutta la disciplina in esame di preservare la deliberazione da azioni, eventualmente di “disturbo” che potrebbero essere perpetrate dal singolo sindaco, eventualmente espressione della minoranza.

Più incerta è la soluzione per gli amministratori, per i quali è da chiedersi se il mancato riferimento nel testo della disposizione al collegio, come per l’organo di controllo, e quindi il mantenimento della formula previgente, che agli amministratori faceva riferimento, debba intendersi come espressivo della scelta del Legislatore di diversificare le regole sulla legittimazione ad impugnare tra i diversi organi sociali e quindi di riconoscere tale competenza come individuale per ciascun amministratore.

Invero emerge tra gli interpreti la tendenza a svalutare la scelta lessicale del Legislatore, la cui giustificazione sarebbe da rintracciare nell’esigenza di comprendere in un'unica formula tutti gli organi amministrativi, qualunque sia la loro struttura – non sempre collegiale - data la “variegata tipologia e denominazione dell’organo amministrativo nell’ambito dei diversi sistemi di gestione (tradizionale, monistico e dualistico)”[8].

D’altra parte, all’argomento letterale per il quale il mancato riferimento al collegio andrebbe inteso come riconoscimento della legittimazione individuale degli amministratori si può contrapporre l’argomento, a contrario, fondato sulla lettera della disposizione di cui all’art. 2479 ter, c.c., che in tema di invalidità delle decisioni dei soci di s.r.l. attribuisce il potere di impugnazione espressamente “a ciascun amministratore”. Se il legislatore avesse voluto riconoscere la legittimazione a ciascun amministratore di s.p.a. lo avrebbe potuto stabilire espressamente.

Anche in relazione alla posizione degli amministratori tende dunque a prevalere la soluzione[9] che riconosce la natura collegiale del potere di impugnativa, in conformità alla tesi già prevalente nella dottrina e giurisprudenza anteriore alla riforma[10]; salvo anche per essi la legittimazione individuale per l’impugnazione delle delibere che incidono direttamente sui loro diritti individuali (ad es. delibera di revoca).

La questione ora esaminata, della natura collegiale o meno del potere di impugnare degli amministratori e sindaci, di frequente è stata in passato posta in relazione – facendone anche dipendere la soluzione - con l’altra complessa questione giuridica relativa all’individuazione del fondamento della legittimazione di tali soggetti ad impugnare le delibere non conformi alla legge o allo statuto, e dunque alla natura dell’interesse tutelato dalla stessa.

Sulla questione, peraltro non ancora sopita, sono state assunte in dottrina le posizioni più disparate, sulle quali non è però possibile in questa sede condurre un approfondito esame[11].

Limitandosi ad enucleare in termini generali quelle più significative, si ponga attenzione in primo luogo alla dottrina per la quale la ratio della norma andava ricercata nell’esigenza di tutelare un interesse degli stessi amministratori e sindaci. In particolare, in conformità a quanto risultava dalla Relazione ministeriale di accompagnamento al codice civile del 1942 (975), il fondamento della norma era da individuare nell’interesse degli stessi soggetti ad “eliminare ogni dubbio sull’obbligo ad essi spettante di darvi ugualmente esecuzione”, ovvero, più precisamente, nell’esigenza di evitare di incorrere in responsabilità personale per l’esecuzione della deliberazione illegale.

Altra dottrina era invece orientata verso l’individuazione di quella ratio nella tutela di un interesse altrui, e più precisamente nell’interesse sociale, che “gli amministratori sarebbero tenuti a perseguire in virtù della funzione esercitata nell’organizzazione sociale”[12], salvo poi diversificare la propria posizione ora individuando tale interesse in quello comune dei soci, ora in quello della società o impresa considerata in sé, ed in particolare “nell’interesse della società ad agire secundum legem[13].

Proseguendo nell’analisi delle regole in tema di legittimazione e prima di porre attenzione alla posizione dei soci, occorre rilevare che in alcuni casi tassativamente previsti, per vizi specificatamente individuati (in presenza di sindacati di voto e di blocco; o in caso di partecipazioni rilevanti) la legge estende il potere di impugnazione delle deliberazioni invalide a soggetti esterni alla società: si pensi alla legittimazione riconosciuta alla Consob, alla Banca d’Italia o all’Isvap. (art. 14, 16,20, 120,121, 122, 157 dlvo. 58/1998; art. 24 dlvo. 385/1993; art. 74 cod. ass. priv.).

Sarebbe stata in tal modo colmata una lacuna della disciplina generale in tema di annullamento, la quale - si è osservato[14]- si rivelerebbe “inadeguata” nel caso in cui l’invalidità della delibera pregiudicasse interessi di natura pubblicistica o comunque estranei all’organismo societario. La legittimazione ad impugnare è espressamente riconosciuta anche al rappresentante comune degli azionisti di risparmio (art. 147, co 3, T.U.F-d.lvo. n.58/1998).

Per quanto concerne la posizione dei soci, è rispetto ad essi che si riscontrano alcune tra le più significative innovazioni apportate dalla riforma alla materia della invalidità delle deliberazioni.

Si consideri la disposizione contenuta al secondo comma dell’art. 2377 c.c.

 Rispetto alla formula previgente, che riconosceva la legittimazione ad agire ai solo soci assenti e dissenzienti, la disposizione riformata amplia il novero dei soggetti legittimati ad impugnare le delibere “non conformi”, riconoscendone la facoltà anche ai soci astenuti, la cui posizione viene equiparata a quella dei soci assenti e dissenzienti.

Sotto tale profilo il Legislatore considera rilevante all’effetto di escludere la legittimazione all’impugnativa solo l’espressione di un voto favorevole alla stessa delibera, non essendo possibile riconoscere a tali soggetti “il diritto di negare alla deliberazione stessa quel carattere (manifestazione della volontà sociale) che le hanno voluto imprimere con il loro voto favorevole”[15].

Diversa è invece la posizione del socio astenuto, neutra rispetto alla delibera viziata, ed in ogni caso non equiparabile a quella di chi ha espresso voto favorevole.

La soluzione adottata dal Legislatore pone così fine al dibattito sulla questione della legittimazione dei soci astenuti, che vari interpreti aveva coinvolto nel quadro normativo previgente, accogliendo l’indirizzo interpretativo maggioritario tanto in dottrina che in giurisprudenza, il quale, al fine della legittimazione ad impugnare del socio, riteneva non solo necessario (come requisito di carattere negativo della legittimazione del socio), ma anche sufficiente che questi non avesse espresso voto favorevole all’approvazione della delibera, così concorrendo alla sua adozione[16].

Mentre la disposizione ora esaminata amplia, col riferimento agli astenuti, la sfera dei soggetti legittimati all’impugnazione, nella direzione inversa, della compressione dello spazio concesso ai soci per invalidare le deliberazioni viziate, operano le previsioni contenute al comma terzo dell’art. 2377c.c.

In primo luogo, estrapolando dalla disposizione la prima delle regole espresse dalla novella, l’attenzione va posta sull’inciso per cui l’impugnazione può essere proposta solo dai soci, che possiedono azioni aventi diritto di voto con riferimento alla deliberazione.

La norma stabilisce una stretta correlazione tra il potere di impugnativa ed il diritto di voto, analogamente a quanto stabilito all’art. 2370 c.c. tra diritto di intervento e diritto di voto, escludendo che soggetti privi del diritto di voto possano esercitare l’impugnativa: la norma innova anche sotto tale profilo la disciplina previgente (art. 2377, co. 2) che riconosceva invece legittimazione all’impugnazione delle delibere dell’assemblea ordinaria anche ai soci con diritto di voto limitato[17].

 

3. L’ulteriore requisito della partecipazione qualificata al capitale sociale. La “conversione” del potere di impugnativa in diritto al risarcimento del danno

Uno spazio maggiore va riservato alla seconda regola posta dalla disposizione di cui al secondo comma dell’art. 2377 c.c.: quella che pone come ulteriore requisito per la proposizione dell’impugnazione da parte del socio il possesso di tante azioni (aventi diritto di voto con riferimento alla deliberazione) che rappresentino, anche congiuntamente, l’uno per mille del capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio ed il cinque per cento nelle altre, salva diversa previsione statutaria che riduca o escluda questo requisito.

La disposizione va coordinata con quella posta dal comma successivo che riconosce ai soci non legittimati a proporre azione di annullamento, o perché non titolari della richiesta partecipazione qualificata al capitale sociale o perché privi del diritto di voto, il diritto al risarcimento del danno loro cagionato dalla non conformità della deliberazione alla legge o allo statuto.

È nella direzione della restrizione dell’ambito di operatività dei meccanismi volti all’attuazione della c.d. tutela reale – cioè quelli diretti ad accertare l’inefficacia o a privare di effetti la deliberazione invalida ed eliminare quelli già prodotti – che va ricercata la ratio delle norme in esame[18], ponendosi essa a fianco di altri strumenti normativi anch’essi tesi a ridimensionare le possibilità di “demolizione” delle deliberazioni  - dalla strutturazione del sistema delle nullità come speciale e tassativo, al (probabile) superamento della categoria di matrice giurisprudenziale dell’inesistenza - forse espressi in modo meno esplicito, ma coinvolgenti certamente i nodi cruciali della (storia della) disciplina delle invalidità delle delibere assembleari.

Per un verso il Legislatore avrebbe avvertito l’esigenza di garantire la massima consolidazione degli effetti delle deliberazioni assembleari che, seppur viziate, siano lesive degli interessi di soci titolari di una partecipazione al capitale sociale di entità contenuta[19] – appunto inferiore alle aliquote previste dalla stessa norma - tale da lasciar presumere che l’illegittimità della delibera non sia idonea a pregiudicare il buon funzionamento della società.

Invero non può trascurarsi che è alquanto comune tra i soci, e soprattutto di quelli di società ad azionariato diffuso, quell’approccio alla partecipazione sociale caratterizzato dal disinteresse per l’esercizio dei diritti amministrativi ed invece dal riconoscimento di un rilevo preminente al contenuto patrimoniale della partecipazione e dunque alla redditività del proprio investimento azionario.

Tanto ciò è vero che proprio per rispondere a queste specifiche esigenze ed incentivare l’investimento azionario il legislatore aveva provveduto con la Legge 216/1974 ad introdurre una particolare categoria di azioni privilegiate: le azioni di risparmio (oggi regolate agli artt. 145-147 del T.u.F.). Il Legislatore prendeva atto della distinzione tra azionisti imprenditori ed azionisti risparmiatori, dandone un riconoscimento formale attraverso l’introduzione per tale categoria di azioni di un particolare regime caratterizzato dalla drastica attenuazione dei diritti amministrativi (esclusione assoluta del diritto di voto) ed un rafforzamento del profilo patrimoniale della partecipazione sociale.

 In altri termini, si è ritenuto che è possibile che si manifesti nei soci un disinteresse ad influire concretamente sulla “gestione” della società -  rectius sul compimento delle generali scelte imprenditoriali - per dare invece rilievo alle conseguenze economiche della partecipazione alla società. E quando la partecipazione è di entità tanto ridotta da doversi ritenere esclusa ogni possibilità di influenzare le scelte imprenditoriali della società è presumibile  - osserva autorevole dottrina[20]- che “l’unico interesse alla base della partecipazione sia quello volto alla salvaguardia economica dell’investimento con essa effettuato”.

Si è ancora osservato, pertanto, che il riconoscimento individuale ai soci detentori di una quota di capitale contenuta o addirittura infinitesimale, del potere di impugnare le deliberazioni assembleari e quindi di incidere, seppur “negativamente”, sull’andamento della società sarebbe stato “eccessivo”[21] rispetto agli interessi di cui essi sono portatori in modo preminente, e potenzialmente dannoso per gli interessi della società.

Sotto tal profilo va tenuto conto per un verso che nella materia considerata la sfera dei soggetti interessati all’invalidazione, ai quali – in assenza della regola in esame - spetterebbe la relativa azione, è ampia ed in alcuni casi ampissima; per altro verso che riconoscere tale potere in modo indiscriminato a ciascun socio, anche titolare di partecipazione piccolissima, esporrebbe al rischio di caducazione “atti sovente di grande importanza e complessità ed idonei ad incidere sulla sfera di una gran numero di soggetti”[22].

La questione, alquanto complessa, investe il problema della ricerca da parte del Legislatore del punto di equilibrio nella distribuzione dei poteri di controllo dei meccanismi organizzativi dell’azione sociale - tra i quali appare corretto collocare anche quello di impugnativa delle deliberazioni assembleari- ed in particolare quello di verifica della legittimità dei meccanismi di selezione dei percorsi di politica finanziaria ed industriale seguiti dalla società.

Più specificatamente, come acutamente osservato, si pone una dicotomia tra l’esigenza a che dei menzionati poteri non si giovino in pochi, determinando un sotto-utilizzo dei meccanismi di controllo, nocivo per l’organizzazione sociale, e l’esigenza contrapposta a che di tali poteri non si giovino in troppi, rischio che sarebbe “in re ipsa nel momento stesso in cui il potere è correlato alla singola azione”[23].

Non viene neppure taciuto il rischio di pregiudizio per la società che sarebbe connesso ad un riconoscimento di quei poteri in modo svincolato dal quantum dell’investimento, sia nel senso che l’eccessiva ampiezza dei sfera dei soggetti controllori potrebbe “insinuare una anti-economica pavidità dei soggetti controllati”, sia in relazione al disvalore della conseguenziale situazione caratterizzata dalla eccessiva distanza tra il “significato complessivo dell’operazione – o, più in generale, dei comportamenti posti in essere dagli organi sociali - ed il significato che essa presenta per l’investitore che dispone del potere di porla nel nulla”[24].

Sotto questo profilo affiora una connessione con la questione delle ragioni sottese all’impugnazione compiuta dal socio titolare di una partecipazione di modesta entità: non è assente nelle valutazioni compiute dal Legislatore la consapevolezza che l’esercizio dell’impugnazione da parte del socio titolare di una partecipazione minima possa essere eventualmente animata solo da motivi ostruzionistici e di contrasto alle scelte imprenditoriali della società.

Non è dunque assente nella scelta compiuta dal Legislatore in materia la volontà di porre un ostacolo ad un esercizio abusivo del diritto di impugnazione e di sottrarre le scelte compiute dalla maggioranza assembleare ad azioni di mero disturbo da parte dei soci di minoranza.

Un riscontro in tal senso potrebbe individuarsi nella stessa Relazione ministeriale che giustifica la richiesta del possesso di una quota qualificata del capitale sociale per esercitare l’azione di annullamento con la necessità di “ovviare all’inconveniente troppe volte manifestatosi nell’esperienza, di impugnative ispirate da intenti meramente ricattatori”.

Sulla base di tali premesse è possibile comprendere la scelta compiuta dal Legislatore di convertire il diritto di impugnativa da diritto individuale del socio, incorporato nella singola partecipazione azionaria, in diritto di una minoranza qualificata[25].

Invero l’opportunità di riconoscere il diritto di ottenere l’annullamento delle delibere non conformi alla legge ed all’atto costitutivo (statuto) al titolare di una partecipazione sociale di certa entità, più o meno elevata, è emersa nel panorama dottrinario e legislativo anche in epoca anteriore a quella in cui si colloca l’ultima riforma.

Riflessioni in tal senso erano state compiute anche in vigenza della disciplina anteriore all’entrata in vigore del codice civile del 1942 (art. 163 del codice di commercio del 1882) essendo già allora avvertita la necessità che fosse impedito all’azione temeraria del piccolo azionista, o comunque animata da intenti ostruzionistici, di intralciare la vita di una società anonima, specie se di grandi dimensioni: in particolare, formulando le proprie riflessioni sulle proposte di riforma delle società anonime di cesare vivante, ferri[26] rilevava la necessità di una disposizione generale che prevedesse una azione di “impugnativa delle deliberazioni sociali viziate da eccesso di potere” che fosse “particolarmente disciplinata” ed “attribuita, per evitare possibili ricatti, ad una minoranza anziché al singolo azionista”.

Anche in epoca più recente, nel vigore del codice civile del 1942, è stata viva la discussione intorno alla possibilità di riconoscere solo ai soci che, individualmente o congiuntamente ad altri, rappresentano una certa frazione di capitale sociale il ricorso a certe forme di tutela tradizionalmente connesse allo status di socio, come appunto quella della impugnativa delle deliberazioni assembleari annullabili.

Essa è stata condotta nel contesto di una più ampia riflessione tesa ad evidenziare l’ascesa, tra i diritti individuali dei soci, di quelli a “contenuto economico-compensativo”[27].

In particolare si è posta in rilievo la tendenza degli ordinamenti a “defunzionalizzare il ruolo del socio come quasi-organo della società, tutore in tale veste dell’interesse collettivo alla legalità del funzionamento dell’ente, in favore di soluzioni che mirano sostanzialmente a proteggere la dimensione economica della sua partecipazione, attribuendogli un droit propre all’indennizzo”[28].

Tendenza, questa, che autorevole dottrina ha qualificato come “arretramento della tutela (degli azionisti esterni) dal piano reale a quello obbligatorio”[29].

Le su richiamate linee di innovazione della disciplina delle società per azioni trovano una chiara manifestazione nello schema di disegno di legge concernente la riforma delle società commerciali elaborato a metà degli anni sessanta dalla commissione De Gregorio[30].

In particolare, l’art. 13 del suddetto schema prevedeva che il potere di impugnativa delle delibere assembleari annullabili fosse riconosciuto solo ai soci che rappresentavano “una parte del capitale sociale non inferiore al ventesimo o a cinquanta milioni di lire”. L’articolo successivo attribuiva al socio assente o dissenziente una azione  individuale di risarcimento del danno subito per effetto “delle deliberazioni contrarie alla legge o all’atto costitutivo, anche se queste non erano state impugnate” (art.14).

Tali previsioni, anticipando dunque le linee generali di riforma seguite dal Legislatore in occasione della recente novella delle società di capitali, per un verso  ancoravano il diritto di impugnativa al possesso di una partecipazione qualificata (o ad un investimento di un certo ammontare), per altro verso introducevano per il socio non legittimato all’impugnativa il correttivo del riconoscimento dell’azione di risarcimento del danno, così da garantire a tale soggetto un beneficio patrimoniale compensativo.

La compressione degli spazi di tutela c.d. demolitoria[31] trova una prima concreta manifestazione sul piano del diritto positivo nella disposizione contenuta all’art. 6 del d.p.r. 136/1975[32], che per le delibere di approvazione del bilancio certificato assunte da società quotate, limitatamente al contenuto dello stesso ed alle relative valutazioni, introduceva la regola della limitazione della legittimazione all’impugnazione solo ai soci detentori di una certa percentuale del capitale sociale, oltre che alla Consob.

La regola è stata poi ripresa nell’art. 157 del T.U.F, che per le società quotate ha statuito che la deliberazione dell’assemblea (o del consiglio di sorveglianza) che approva il bilancio di esercizio può essere impugnata, per mancata conformità del bilancio alle norme che ne disciplinano i criteri di redazione, da tanti soci che rappresentano almeno il cinque per cento del capitale sociale.

Si noti pure che con la riforma del 2003 la regola è stata estesa anche alle società non quotate: l’art. 2434 bis c.c., al comma secondo, nel caso di deliberazione di approvazione del bilancio su cui il revisore non ha formulato rilievi, attribuisce la legittimazione ad agire a tanti soci che rappresentino almeno il cinque per cento del capitale sociale; e diversamente dalla disciplina generale in tema di annullamento (art. 2377, co 3) ciò è stabilito senza prevedere alcuna possibilità di deroga[33].

La scelta di riduzione degli spazi della tutela demolitoria in favore di quella risarcitoria ha, anteriormente alla riforma, il suo più prossimo antecedente nella regola introdotta col d.lvo. 22/1991, che all’art. 2504 quater stabiliva che una volta eseguite le iscrizioni dell’atto di fusione (art. 2504, co. 2) l’invalidità dell’atto non potesse essere pronunciata, riconoscendosi ai soci o ai terzi danneggiati dalla stessa solo il diritto al risarcimento del danno[34] [35].

Al  modello regolamentare di cui all’art. 2504 quater si fa espresso richiamo nella Relazione ministeriale, laddove si precisa in ordine al riferimento all’adozione di strumenti di tutela diversi dalla invalidità, contenuto nella parte finale dell’art. 4, co 7, lett. b, della Legge-delega (n. 366/2001).

Tale richiamo non deve però trarre in inganno l’interprete ed indurre a ritenere equivalenti gli strumenti di tutela regolati dalla disposizione in parola e da quella di cui all’art. 2377, co. 3 e 4.

Vero è che le due disposizioni si riconducono alla stessa linea di tendenza, ma ben diverse sono le caratteristiche delle regole da esse poste[36].

Alla luce delle osservazioni svolte non è difficile ammettere che le regole introdotte dalle disposizioni di cui all’art 2377, co. 3 e 4 c.c. costituiscono l’ulteriore e più recente sviluppo di una tendenza normativa consolidata ed espressione di quella linea di evoluzione della disciplina delle società di capitali caratterizzata - ed in tal senso si è espressa ampia dottrina[37]- dalla compressione degli spazi per una tutela reale degli interessi lesi dalla illegittimità delle deliberazioni assembleari, per essere le stesse state adottate non in conformità delle disposizioni di legge e statutarie. In altri termini, sarebbe compresso quel meccanismo giuridico per il quale posta la “regola di validità, per la tutela di certi interessi, generali o particolari, se questa regola è violata, ai titolari degli interessi lesi è accordata azione giudiziale per far accertare che l’atto è privo di efficacia, o, rispettivamente, per eliminare gli effetti dell’atto”[38].

 La tutela degli interessi dei soci titolari di partecipazioni sociali inferiori alle soglie previste sarebbe stata invece relegata sul piano meramente patrimoniale ed affidata a meccanismi – c.d. di tutela obbligatoria o risarcitoria - che non implicano l’eliminazione della deliberazione invalida, ma forniscono solo il ristoro del pregiudizio economico che al socio può derivare dagli effetti prodotti da quella deliberazione.

La tecnica normativa adottata dal Legislatore si presta ad apprezzamenti soprattutto se valutata in termini generali e rapportata alla logica assunta dal Legislatore della riforma, volta a privilegiare i profili di crescita ed efficienza delle imprese, ed intesa in termini strumentali all’attuazione di  quei fondamentali obiettivi – richiamati al principio di questa trattazione - che lo stesso si è assegnato: dalla ricerca della stabilità degli atti societari, alla agevolazione della maggioranza, in più occasioni solo relativa, ad esercitare senza ostacoli il potere di governo dell’impresa, ed alla riduzione di incertezze nella conduzione dei traffici commerciali, per garantirne sicurezza e rapidità; istanza questa che risponde sì in via primaria ad un interesse della maggioranza, ma contribuisce anche alla soddisfazione di quello comune dell’intera compagine sociale.

Sotto questo profilo, si tenga presente ancora una volta la direttiva impartita dalla Legge-delega per la riforma della materia, che espressamente invita il Legislatore delegato a “disciplinare i vizi delle deliberazioni assembleari in modo da contemperare le esigenze di tutela dei soci e quelle di funzionalità e certezza dell’azione sociale” (art. 4, co. 7, lett. b, della legge-delega, n. 366/2001).

 Tali considerazioni trovano conforto nelle riflessioni di autorevole dottrina che, ragionando appunto in termini generali, ha evidenziato i vantaggi di quei meccanismi di tutela che si fondano non sul “divieto assoluto”, ma su un “divieto relativo”, incidente solo sul licere, che con maggiore elasticità “consente al suo destinatario la scelta tra l’uniformarvisi o invece il trasgredirlo, assoggettandosi allora agli oneri derivanti dalla necessità di ristorare il danno prodotto”[39].



[1] floriano d’alessandro, “La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinata” Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, in Rivista delle società, 1/2003, 43, per il quale vanno considerate nel senso della tutela dell’istanza di stabilità l’affermazione - prima per gli sforzi degli interpreti e poi del Legislatore - del regime di stabilità dell’atto costitutivo, e poi - per impulso comunitario - l’introduzione di un regime di stabilità degli atti di fusione e di scissione. Ed ancora, il radicamento nel nostro ordinamento di principi come quello della inopponibilità ai terzi che abbiano stipulato contratti con la società dell’invalidità delle deliberazioni in esecuzione delle quali quei contratti furono posti in essere.

[2] Sul rapporto di potere tra maggioranza e minoranza - con particolare riferimento alle società per azioni ad azionariato diffuso - cfr. giorgio oppo, “Maggioranze e minoranze nella riforma delle società quotate”, in Riv. Dir. Civ., 1999, II, 231. Di particolare interesse sono le riflessioni sviluppate da cerrai -mazzoni ( La tutela del socio e delle minoranze, in Rivista delle Società, Monografie e Raccolte di studi, 1993, 397 ) sulla forza e rilevanza che il diritto azionario moderno attribuisce al fenomeno delle minoranze organizzate, rintracciandone l’espressione tanto nelle norme che richiedono “maggioranze capitalisticamente qualificate” per l’approvazione delle delibere assembleari, quanto in quelle che subordinano l’esercizio di certi diritti o poteri al soddisfacimento di un requisito di rappresentatività capitalistica. L’A. precisa ancora che “è pacifico che del potere di “minoranze di blocco” e/o dei diritti c.d. di minoranza qualificata, ben può avvalersi anche un azionista che, da solo, detenga il quoziente capitalistico sufficiente. Ne deriva che, tra diritti in senso stretto individuali e diritti o poteri “qualificati”, la distinzione di più sicura rilevanza giuridica si coglie, a ben vedere, sul piano della legittimazione -semplice o dipendente dalla mera Mitgliedscaft, nel primo caso, qualificata capitalisticamente, nel secondo - anziché sul piano della struttura (individuale o collettiva) del soggetto”.

[3] g. rossi - a. stablini, Virtù del mercato e scetticismo delle regole: appunti a margine della riforma del diritto societario”, in Rivista delle società, 1/2003, 23.

[4] Ivi. Nell’intento di fornire una prima valutazione della riforma societaria attuata dal legislatore nazionale, l’a. pone criticamente a raffronto i tratti qualificanti delle Decreto lvo. n. 6/2003 con le linee guida dei processi di evoluzione internazionali del diritto delle società, con particolare attenzione a quelli in atto negli ultimi mesi negli Stati Uniti e nell’Unione Europea. Negli Stati Uniti “si è assistito ad un processo di ripensamento delle regole di governo delle società, la cui fondamentale linea direttrice sembra essere l’intensificazione delle responsabilità degli organi amministrativi e gestionali, nonché dei controlli, interni ed esterni, sull’amministrazione”. Diversamente da quella statunitense, l‘azione riformatrice dell’Unione Europea (e della Commissione n particolare) si caratterizza per essere diretta non tanto ad un intervento su specifici istituti, quanto ad attuare un complessivo processo di riforma del diritto delle società, ponendo quali profili centrali dell’intervento riformatore quelli della completa trasparenza delle strutture di governo delle società; il rafforzamento dei poteri di controllo degli azionisti sull’operato degli amministratori; nonché, il rafforzamento del ruolo e delle responsabilità degli amministratori. L’a. osserva, allora, criticamente che nessuna delle priorità d’intervento emerse in tale quadro normativo internazionale sembra essere stata considerata dal legislatore della riforma, teso invece ad accentuare l’autonomia statutaria, a rafforzare i poteri dei gestori e della maggioranza che li esprime ed a svalutare del ruolo partecipativo del socio all’interno della società.

[5] Andrea pisani massamormile, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti, in Rivista del Diritto Commerciale, 2004, I, 58.

[6] Fabrizio di girolamo, Regole di validità e regole di condotta: la valorizzazione di principi di buona fede e correttezza”, in Giur. Comm., supplemento al n. 3/2004, I, 563. L’A. osserva, in particolare (nt. 19), che “la rivisitazione dell’azione come strumento d’investimento in una società, anziché come strumento partecipativo alla gestione di essa, da una parte, e la visione del conferimento in s.p.a. come investimento, anziché come trasferimento di beni, dall’altra, comporta un’innovata riflessione circa il ruolo dell’assemblea nella s.p.a.: essa deve essere considerata come riunione di investitori legittimati a scegliere, giudicare, confermare, o revocare i gestori del loro investimento e non quale sede di riunione tra partecipi alla gestione sociale. L’assemblea per questa via diverrebbe l’occasione nella quale far circolare informazioni (col limite del segreto aziendale) e nella quale si sviluppa il dibattito sulle informazioni”.

[7] Sul rapporto tra modello normativo societario (s.p.a. in particolare) ed il tema del finanziamento delle imprese cfr. anche g. ferri jr, Fattispecie societaria e strumenti finanziari, in Rivista di Diritto Commerciale, I, 2003, 806-807, il quale afferma che “la nuova disciplina delle società per azioni si segnala rispetto a quella precedente per una considerazione di fondo, attinente alla stessa configurazione concettuale delle società, la quale non si presta più ad essere ricostruita in termini di (disciplina del)  soggetto dell’impresa, e dunque di imprenditore, quanto piuttosto in quella di disciplina oggettiva dell’impresa, e, in particolare, di disciplina del suo finanziamento, prima ancora che del suo svolgimento”; ed ancora u. tombari, La nuova struttura finanziaria delle società per azioni (corporate governance e categorie rappresentative del fenomeno societario), in Rivista delle Società, n. 5/2004, 1084, il quale osserva che a fronte della futura entrata in vigore del c.d. “Accordo Basilea 2”, la nuova struttura finanziaria dell’impresa societaria, intesa come canale alternativo e/o aggiuntivo rispetto al finanziamento bancario, costituirà una via che le imprese dovranno tenere in adeguata considerazione. Le imprese italiane dovranno dunque “dedicare maggiore attenzione al proprio stato economico-finanziario ed al proprio assetto organizzativo in vista di ottenere un rating tale da garantire una accesso al credito bancario a costi sostenibili, ma anche - e per quanto qui più interessa- in vista di ottenere finanziamenti attraverso canali alternativi c.d. di diritto societario (azioni, obbligazioni, strumenti finanziari partecipativi e non partecipativi).

[8] d. spagnuolo, (Commento all’art. 2377 c.c.”, in La Riforma delle società, a cura di Sandulli-Santoro Torino, 2003, 354; r. lener, in Commentario sulle società di capitali ( a cura di g. niccolini  ed a. stagno d’alcontres), Jovene, 2004, 553; v. salfia, “L’invalidità delle deliberazioni assembleari nella riforma societaria”, in Le Società, n. 9/2003, 1177.

[9] Favorevole a questa soluzione v. salfia, cit., 1177, che nel caso di società amministrata da un consiglio di amministrazione, ritiene “ingiustificata” l’applicazione all’organo amministrativo di una diversa regola diversa da quella chiaramente operante per l’organo di controllo; spagnuolo, cit., 354; lener, cit., 553, conforme alla posizione assunta dall’autore in relazione alla disposizione anteriore alla riforma (cfr. r. lener, in Le società di capitali- L’assemblea nelle società di capitali”, (Lener raffaele e tucci andrea), in Trattato di diritto privato (diretto da Mario Bessone), Torino, Giappichelli, 2000, 236). Contra cfr. c. bavetta, Commento all’art. 2377c.c., in Codice Civile Comentato, a cura di G. Alpa e V. Mariconda, Ipsoa, 1141.

[10] Nel senso della collegialità della decisione di impugnare la delibera assembleare Cass., 28 agosto 1995, n. 9048; Cass., civ., 2 agosto 1977, n. 3422, in Foro It, 1978, I, 703.; Cass. civ., 1 marzo 1973, n. 562; Trib. Palermo 18 maggio 2001;. In dottrina cfr. campobasso, cit., 2002, 334; zanarone, cit., 270. Per la legittimazione individuale Trib. Roma 18 marzo 1982; in Giur. Comm., 1983, II, 592.

[11] Per una ampia ricostruzione del dibattito sulla materia e dei relativi riferimenti bibliografici cfr. g. zanarone, “L’invalidità delle deliberazioni assembleari”, in Trattato delle società per azioni, (diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale), UTET, 1993, 260-270.

[12] Così r. lener, Le società di capitali, cit., 2000, 236; ed anche  g. zanarone, cit., 264;

[13] r. lener, Le società di capitali, cit., 2000, 236; lener, commento, cit.,2004, 553.

[14] Cfr. r. lener, Le società di capitali, cit., 2000 232.

[15] ferri,“Manuale di diritto commerciale”, XII ediz., 2006, Utet, 334.

[16] Tra i tanti cfr. g.b. campobasso, Diritto commerciale. 2. diritto delle società, Utet, 2002, 334, che espressamente equipara alla posizione dei soci assenti quella dei soci astenuti “in quanto non partecipanti alla votazione con riferimento a quella determinata delibera”; r. lener, Le società di capitali, cit., 2000, 234, per il quale sebbene la lettera della legge indurrebbe a ritenere insufficiente la mera astensione, richiedendo un espresso dissenso, “è preferibile tuttavia leggere la norma nel senso che anche i soci che si sono astenuti siano legittimati ad impugnare, poiché il legislatore ha inteso escludere la legittimazione ad impugnare per i soli soggetti che hanno concorso all’invalidità della delibera”; in senso contrario e per una ampia ricostruzione delle diverse posizioni espresse dalla dottrina cfr. g. zanarone, cit., 288 e seg. In senso conforme, cfr. Cass., civ., 21-11-1996, n. 10279; Cass., civ., 20-6-1997, n. 5542, in Giuis. civ., 1997, I, 2741.

[17] Cfr. a. graziani, “Diritto delle società”, 1962, Morano Editore, 358, che argomentando in base a tale previsione, con riguardo al quadro normativo previgente aveva esteso, in termini generali, la legittimazione all’impugnativa “al socio, sia pure intervenuto in assemblea, non avente diritto di voto”. Nello stesso senso anche lener, cit., 2000, che dalla riconosciuta legittimazione dei soci con voto limitato deduce l’indipendenza del diritto di impugnazione dal diritto di voto, riconoscendola pertanto anche agli azionisti di risparmio ed ai possessori di azioni di godimento. Conclusioni diverse lo stesso autore ha espresso rispetto al disposizione nella sua nuova formulazione (lener, cit., 2004, 551), escludendo “senz’altro” dal novero dei soggetti legittimati gli azionisti a voto limitato, limitatamente alle deliberazioni dell’assemblea ordinaria, gli azionisti di risparmio ed i titolari di azioni di godimento e più in generale i titolati di azioni che siano istituzionalmente prive del diritto di voto.

[18] cfr. sul punto alessandro nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, in Riv. delle Soc., n.4/2004, 883, che qualifica la disposizione relativa alla legittimazione dei soci all’azione di annullamento come uno dei pilastri del sistema proteso a limitare le possibilità di attacco alle deliberazioni assembleari viziate.

[19] Non pare appropriato qualificare come “modesta” la quota di partecipazione al capitale sociale richiesta dalla norma, come pure è stato fatto da qualche commentatore. Si tratta piuttosto di quote consistenti del capitale sociale, per società con un ampia base sociale, soprattutto per società per le società c.d. aperte, “tali da riferirsi sostanzialmente agli investitori istituzionali o comunque a minoranze organizzate” (andrea pisani massamormile, “Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti”, in Rivista del Diritto Commerciale, 2004, I, 58).

[20] giuseppe ferri, “Manuale di diritto commerciale”, XII ediz., 2006, Utet, 334.

[21] g. ferri, cit., 334; in senso critico verso questa linea interpretativa alessandro nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, cit., 886, che ritiene sia un “equivoco” pensare per un verso che non sia meritevole di tutela l’interesse del socio alla mera legalità delle deliberazioni e da altro che “meriti protezione piena l’interesse del socio solo quando tale interesse abbia una certa consistenza economica data dall’entità della partecipazione”.

[22] f. d’alessandro, “La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinata”. Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, in Riv. delle società, 2003, 44.

[23] carlo emanuele pupo, “Invalidità del procedimento deliberativo e dinamiche dell’investimento azionario”, in Giurisprudenza commerciale, supplemento al n. 3/2004, I, 588.

[24] Ivi.

[25] r. lener., cit., 2004, 81; d. spagniuolo, cit., 348; cfr. anche luca enriques e andrea zorzi, Spunti in tema di rimedi risarcitori contro l’invalidità delle deliberazioni assembleari, in Riv. dir. Comm., n.1 /2006, 3, per il quale “il chiaro intento di politica legislativa è quello di evitare che l’azione sociale sia intralciata da soci di minoranza titolari di partecipazioni inferiori ad una soglia ritenuta critica”, ritenendosi più consona alla tutela di tali soggetti quella, appunto, risarcitoria.

[26] ferri giuseppe, Osservazioni sulle proposte di Cesare Vivante per la riforma delle società anonime, in Foro It., 1936, IV, 66-85, in particolare c.82.

[27] alessandro cerrai - alberto mazzoni, La tutela del socio e delle minoranze, in collana di “Rivista delle società”, vol.“ Il diritto delle società per azioni: problemi, esperienze, proposte”, 1993, 426.

[28] Ivi. L’autore insiste sulla valenza di forme di tutela alternative – risarcitorie o indennitarie -  rispetto alla invalidità delle deliberazioni assembleari, auspicando anche una innovazione della stessa disciplina dell’invalidità, nel senso di una maggiore flessibilità, cosi da realizzare “sia la protezione più efficace degli interessi più meritevoli, che la tempestività del provvedimento e la minore incertezza delle situazioni giuridiche coinvolte” ( Idem, 434-435).

[29] Così floriano d’alessandro, Il diritto delle società dai “battelli del Reno” alle “navi vichinghe”, in Foro.It, 1988, v, 51. L’autore conduce una attenta riflessione su quello che egli stesso considera come il problema dei gruppi, cioè quello del conflitto di interessi della società controllante: tale evento  per i gruppi “è elemento per così dire istituzionale, sistematico  […] che può permeare di se l’intera attività”, rispetto al quale gli strumenti del codice civile sono sembrati inadeguati. Se è vero che la formazione dei gruppi risponde ad esigenze di razionalizzazione organizzativa dei grandi apparati produttivi, come viene sostenuto,  perché queste finalità possano essere perseguite è necessario che le politiche gestionali di gruppo possano essere attuate. Ciò non potrebbe avvenire in forza della disciplina tradizionale del conflitto di interessi, operante sul piano civilistico, attraverso la tecnica dell’invalidità, che mira invece a sbarrare la strada a quelle politiche. Tale disciplina dovrebbe dunque trovare una deroga. Mentre certi interpreti – osserva ancora l’autore-  in modo più radicale, non ritengono che la proposta immunità dei gruppi da quella disciplina non debba essere bilanciata da alcuna misura correttiva o compensativa, invece altri sono orientati verso soluzioni capaci di contemperare l’interesse al libero perseguimento delle finalità del gruppo con quello, facente capo agli azionisti minoritari o esterni, al corretto svolgimento dell’attività sociale. Precisa dunque l’autore che tali soluzioni consistono in un arretramento della tutela dal piano reale a quello obbligatorio, per cui il perseguimento di finalità extra sociali da parte del soggetto di controllo è reso possibile, ma è bilanciato dall’obbligo di ristorare il sacrificio inflitto agli azionisti esterni accordando loro un qualche tipo di beneficio patrimoniale compensativo.

[30] Il testo è in “La riforma delle società di capitali in Italia. Studi e dibattiti (atti del convegno internazionale di studio sulla riforma delle società per azioni, Venezia 6,7,8,ottobre 1966), Giuffrè, Milano, 1968, III, 1577 ss.

[31] La locuzione è adottata con riferimento alla disciplina riformata delle invalidità delle delibere assembleari da diversi autori; tra questi alessandro nigro, Tutela demolitoria e tutela risarcitoria nel nuovo diritto societario, in Riv. delle Soc., n.4/2004,881; floriano d’alessandro, La tutela delle minoranze tra strumenti ripristinatori e strumenti risarcitori, in Riv. dir. civ., n.6/2003, 707-715; cfr., anche c. e. pupo, “Invalidità del procedimento deliberativo e dinamiche dell’investimento azionario”, in Giurisprudenza commerciale, supplemento al n. 3/2004, I, 587-619, che utilizza la locuzione equivalente di tutela reale e tutela obbligatoria.

[32] D.P.R 31 marzo 1975, n.136. Attuazione della delega di cui all’art. 2 lett. a), della legge 7 giugno 1974, n. 216, concernente il controllo contabile e la certificazione dei bilanci di società per azioni quotate in borsa. L’art. 6, al comma primo, stabiliva testualmente: “in deroga agli artt. 2377, secondo comma, e 2379 del codice civile, la deliberazione dell’assemblea che approva il bilancio certificato dalla società di revisione può essere impugnata, per quanto riguarda il contenuto del bilancio e le relative valutazioni, da tanti soci che rappresentino almeno il ventesimo del capitale sociale, o cento milioni di lire di valore nominale se il capitale sociale è superiore a due miliardi di lire”; al comma secondo era stabilito che “l’impugnazione può essere proposta dalla Commissione nazionale per le società e la borsa, nel termine di sei mesi dall’iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese”.

[33] La disciplina dell’invalidità delle delibere di approvazione del bilancio comprende anche altra fondamentale regola espressa al comma primo dello stesso articolo 2434 bis, ossia quella della improponibilità delle azioni di cui agli art. 2377 e 2379 c.c. avverso le stesse deliberazioni dopo l’approvazione del bilancio dell’esercizio successivo. Sulla logica sottesa alla disposizione in parola cfr. c.e. pupo, “Invalidità del procedimento deliberativo e dinamiche dell’investimento azionario”, cit., 598-599. L’autore, in primo luogo pone l’accento sulla valenza delle deliberazioni assembleari a veicolare un valore c.d. organizzativo, nel senso che il significato dell’assunzione della delibera può essere di regola rintracciato nell’imposizione, suo tramite, di un ben determinato condizionamento sulla futura attività sociale. Di conseguenza sarebbe possibile individuare il significato da correlare all’impugnazione delle deliberazioni assembleari nella volontà di eliminare quel condizionamento. Su tali premesse l’autore individua la ratio della disposizione in esame, osservando, in particolare, che nel momento in cui è stato approvato il bilancio dell’esercizio successivo, i valori organizzativi riconducibili al nuovo bilancio sociale vanno a succedere a quelli riconducibili al precedente (rectius, alla delibera che lo ha approvato). In altri termini si verifica una “vicenda in conseguenza della quale perde immediatamente di senso ogni tentativo di evitare, tramite la via giudiziaria, che il bilancio più risalente possa ancora incidere sul prosieguo dell’attività sociale”. Viene meno dunque l’interesse ad agire dell’impugnante, la cui sanzione non può che essere il rigetto della domanda di tutela per mancanza di un essenziale condizione processuale.

[34] In forza del richiamo contenuto all’art. 2504 novies la regola è stata estesa anche alla scissione. La riforma del 2003, che ha lasciato immutata tale disciplina, l’ha invece estesa alla trasformazione (art. 2501 bis).

[35] Per una analisi approfondita della disciplina in tema di fusione e scissione cfr. paola lucarelli, La nuova disciplina delle fusioni e scissioni: una modernizzazione incompiuta, in Riv. delle società, 6/224, 1343-1390; in particolare sull’art. 2504 quater cfr. pierdanilo beltrami, La legittimazione attiva dei creditori all’azione risarcitoria ex art. 2504-quater, in Riv. delle Società, 5/2002; luca parella, “L’art. 2504-quater c.c., dieci anni di giurisprudenza”, in Giur., Comm., 2003, I, 363-388.

[36] Mentre la regola stabilita in materia di invalidità  delle deliberazioni assembleari preclude in modo assoluto solo a taluni soggetti – i soci che non posseggono una certa aliquota di capitale sociale - la possibilità di attivare i meccanismi di tutela demolitoria, diversamente, la regola posta in materia di fusione (e scissione) non introduce preclusioni assolute all’impugnazione ma pone solo dei limiti temporali, operanti nei confronti di qualunque socio o terzo, forse accostandosi più propriamente alla regola posta dall’art. 2379 ter in materia di nullità di talune particolari delibere; ed ancora la prima regola (2377) è rimessa alla disponibilità dell’autonomia statutaria che può escludere o ridurre il limite all’impugnativa, la seconda è inderogabile. Una ulteriore differenza è evidenziata da d’alessandro, La tutela delle minoranze, cit.,712, il quale, anche sulla base della diversa lettera della norma, osserva che nell’ipotesi di cui all’art. 2504 quater il diritto al risarcimento del danno trova altrove la sua fonte, che è indipendente dalla disposizione in parola e va eventualmente riconosciuto in base ad altre norme o ai principi del sistema, diversamente, la clausola inserita nell’art. 2377, co. 4, per cui i soci hanno diritto al risarcimento del danno […] indurrebbe a ritenere che la “clausola stessa sia la fonte del diritto al risarcimento, che perciò dovrebbe considerarsi direttamente costituito dalla legge medesima che sopprime la tutela invalidatoria, come vero e proprio bilanciamento di siffatta soppressione”.

[37] In questo senso francesco Galgano, “Il nuovo diritto societario”, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, CEDAM, 2003, 220; d. spagnuolo, cit., 352; c. e. pupo, cit., 590, il quale afferma testualmente che “le modifiche apportate dall’articolo in questione rappresentano, cioè il prosieguo di un percorso di riforma del sistema delle società di capitali caratterizzato da un evidente volontà di arretrare l’investitore danneggiato da una posizione in cui gli è concesso di pretendere una tutela di carattere reale ad una posizione in cui gli è possibile usufruire, a protezione dei propri interessi, solo di una tutela di carattere obbligatorio”; floriano d’alessandro, “La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinata”. Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, in Riv. delle società, 2003, 44.

[38] f. d’alessandro, La tutela delle minoranze, cit., 709.

[39] f. d’alessandro, “La provincia del diritto societario inderogabile (ri)determinata”. Ovvero: esiste ancora il diritto societario?, cit., 44, osserva ancora che ove l’utilità fornita dall’atto illecito al destinatario del divieto fosse superiore al costo derivante dagli obblighi risarcitori, sarebbe preferibile per tale soggetto percorrere questa strada, con beneficio generale in termini di efficienza: mentre la posizione di tale soggetto avrebbe un miglioramento, quella del soggetto nel cui interesse è posto il divieto resterebbe neutra, in quanto il danno subito verrebbe comunque riparato.

 

Data di pubblicazione: 23 aprile 2007.