Rivista di diritto dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente, 2003/1

 

Concorrenza sleale e tutela del consumatore

 

Angelo Cacciatore *

 

Sommario: 1. Premessa – 2. La tutela indiretta dei consumatori e la dottrina tradizionale – 3. Gli orientamenti innovativi e i rilievi sui rapporti tra iniziativa economica e utilità sociale ex art. 41 Cost. – 4. La questione di costituzionalità dell’art. 2601 c.c. e la sua manifesta inammissibi­lità – 5. Segue: il successivo dibattito dottrinale – 6. L’opportunità di un intervento legislativo in materia – 7. Il Decreto Legislativo n. 74 del 1992 sulla pubblicità ingannevole – 8. La Legge n. 580/1993 di riforma dell’ordinamento delle Camere di Commercio – 9. La Legge n. 281/1998 e i diritti fondamentali dei consumatori – 10. Sui rapporti fra tutela del consumatore e la tutela della concorrenza sleale e sulla sussistenza o meno di una legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori per la repressione della concorrenza sleale.

 

 

1. Premessa

Il rapporto esistente fra concorrenza sleale e tutela dei consumatori si è sempre presentato come estremamente complesso, investendo il tema della individuazione e definizione dei presupposti e degli obiettivi che con l’una e l’altra disciplina si intendono perseguire.

Invero, già in passato si era posto il problema se anche i consumatori potessero considerarsi soggettivamente legittimati ad intervenire a fronte di illeciti di carattere concorrenziale e se la disciplina della concorrenza tutelasse anche gli interessi dei consumatori.

Sia in dottrina che in giurisprudenza si continuava, tuttavia, ad affermare prevalentemente che l’interesse dei consumatori costituiva soltanto un metro di valutazione al fine di stabilire se un atto concorrenziale dovesse ritenersi più o meno sleale. Si sosteneva, quindi, che ai consumatori veniva offerta solo una tutela indiretta e mediata dei loro interessi.

E’ noto il crescente e progressivo interesse, anche sul piano normativo, per i consumatori e la loro importanza allo scopo di assicurare un grado elevato e qualificato di concorrenza.

Molteplici sono stati, da più di un decennio circa, gli interventi normativi sui consumatori e sulla tutela dei loro interessi.

Ed in relazione alle predette recenti disposizioni legislative, è stato affermato che: “anche sul versante soggettivo (cioè appunto della legittimazione), la repressione della concorrenza sleale sia indotta a servire non più esclusivamente gli interessi «dei concorrenti», bensì tuteli questi ultimi in una prospettiva di necessario rispetto di tutti gli interessi protetti dalla costituzione economica, e riferibili, come rilevato, vuoi alla “altrui libertà di concorrenza”, vuoi alla corretta informazione (nel senso più ampio) del pubblico dei consumatori[1].

Al di là della autorevole affermazione di principio sopra riportata, si ritiene opportuno prendere specificatamente in esame il rilievo che possono avere gli interessi dei consumatori nell’ambito della normativa nazionale sulla tutela della concorrenza. Si tratta di una prospettiva per la quale occorre procedere con la massima cautela per evitare di trarre affrettate conclusioni, e ciò anche in considerazione dell’inevitabile ampliamento dei c.d. interessi in giuoco.

Punto di partenza di tale indagine saranno, pertanto, gli orientamenti che sul piano dottrinale e giurisprudenziale negavano od affermavano, specie in passato, la possibilità di ritenere la repressione della concorrenza sleale come strumento diretto a tutelare interessi generali e non solo di categoria.

 

2. La tutela indiretta dei consumatori e la dottrina tradizionale

Anzitutto, sembra più aderente alla lettera dell’art. 2598 c.c. affermare che sia l’autore dell’illecito concorrenziale, sia il soggetto danneggiato devono appartenere alla medesima categoria di imprenditori concorrenti e che la repressione della concorrenza sleale è diretta a tutelare gli interessi individuali dei concorrenti.

Del resto la norma sopra indicata menziona più volte il “concorrente”, indicando nel n. 3 l’idoneità “a danneggiare l’altrui azienda” e riferendosi non alla correttezza tout-court, ma alla “correttezza professionale”. Parametro questo che “presuppone che soggetto attivo e soggetto passivo appartengano alla stessa categoria professionale[2].

Dalla parte della soluzione prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, ossia che la concorrenza sleale opera sul piano dei rapporti interprivatistici tra imprenditori concorrenti, militano, oltre all’argomentazione di tipo esegetico sopra indicata, anche considerazioni di carattere storico per essere la disciplina sulla concorrenza sorta con la finalità di regolamentare i conflitti fra imprenditori[3].

Infine, si rileva che “non si saprebbe davvero ravvisare la giustificazione di una tutela privilegiata dell’imprenditore nei confronti di tutti i consociati, mentre una tutela dell’imprenditore nei confronti degli altri imprenditori perde il carattere di privilegio data la stessa reciprocità della tutela[4].

Seguendo tale impostazione, dunque, la disciplina della concorrenza “attiene ai rapporti tra imprenditori e concerne atti compiuti nell’esercizio di una impresa e considerati in funzione del loro contrasto con un’altrui attività imprenditrice; i limiti posti alla concorrenza nella normativa di determinati contratti o convenzionalmente vengono a loro volta sanciti a carico o a favore di imprenditori e hanno come contenuto l’obbligo di non svolgere determinate attività economiche o di non svolgerle se non con determinate modalità fissate ad esclusione di altre. Perciò la disciplina della concorrenza si coordina con quella dell’imprenditore e dell’attività di questo, che anzi mi sembra che, proprio sul terreno della disciplina della concorrenza (…), la nozione generale dell’imprenditore (…) trova la sua rilevanza[5].

Per i consumatori, dunque, non vi sarebbe spazio. Vengono considerati soltanto “quale strumento per determinare le iniziative preferibili[6]. I loro interessi verrebbero protetti in modo indiretto e mediato, o, secondo altra espressione, la tutela loro accordata sarebbe “secondaria e riflessa[7], tant’è che la legittimazione ad agire in concorrenza sleale sarebbe stata riconosciuta ai soli imprenditori concorrenti[8].

Viene così sottolineato “il diverso piano su cui giocano, agli effetti della disciplina stessa, gli interessi dei concorrenti, oggetto di considerazione immediata, nella loro tipica relazione di conflitto, da parte del legislatore e dell’interprete, e quelli collettivi, difesi in via mediata attraverso la prevalenza assicurata nella valutazione comparativa dell’interesse diretto del concorrente che meglio assicuri la realizzazione[9].

Per meglio comprendere in che cosa consista tale tutela indiretta e mediata, è stato chiaramente affermato che gli interessi dei consumatori assumono il ruolo di “parametri di valutazione degli interessi degli imprenditori in conflitto, nel senso che il giudice dovrà, tra le posizioni in contrasto, assegnare la prevalenza a quella che riterrà più conforme (o se si preferisce, meno difforme) dal vantaggio collettivo o dell’utilità sociale. Il giudizio, quindi, ha ad oggetto un tipico rapporto di strumentalità tra interessi; conclusione, questa, che conferma l’esattezza secondo cui gli interessi collettivi non sono tutelati in maniera immediata, ma solo attraverso la diretta difesa di interessi propri del singolo o di singoli concorrenti”[10].

Quand’anche un atto di concorrenza sleale pregiudicasse i consumatori, la tutela inibitoria di cui agli artt. 2598 e ss. c.c. non troverebbe applicazione.

L’unico rimedio, sempre che ne sussistono i presupposti, sarebbe la tutela aquiliana di cui all’art. 2043 c.c.

Sembra perciò che fuori dall’ambito dei rapporti fra concorrenti “tornano a vigere i principi generali dell’art. 2043, valevoli per tutti i consociati[11].

 

 

3. Gli orientamenti innovativi e i rilievi sui rapporti tra iniziativa economica e utilità sociale ex art. 41 Cost.

L’autorevole sostenitore della tesi sopra illustrata ammette, tuttavia, che “un dialogo fondamentale nella disciplina dell’attività imprenditrice mi sembra quello tra la tutela di un interesse che in via generale potremmo dire dell’astratto consumatore (o se si preferisce, della massa dei consumatori) e la tutela di un interesse che potremmo dire privilegiato dell’imprenditore ……[12].

Ed è, forse, nel solco di tale prospettiva, che taluni autori iniziarono a sostenere, sulla base di una lettura in chiave pubblicistica dell’art. 2598 c.c., che gli interessi dei consumatori avrebbero dovuto ritenersi non più interessi strumentali, ma interessi che ricevono tutela immediata e diretta.

Già a partire dalla seconda metà degli anni ’60 si riteneva come “ormai affermata” la “tendenza della legislazione e dell’interpretazione in materia di disciplina della concorrenza sleale, verso un’evoluzione pubblicistica che si manifesta con l’assumere a criterio dell’illiceità dell’atto concorrenziale la violazione degli interessi del consumatore o di quelli dello sviluppo economico generale. Si tratta della tendenza di cui è stato in Italia fra i più autorevoli assertori l’Ascarelli, ma che ormai può ritenersi universalmente accettata, e che sul piano legislativo si manifesta soprattutto attraverso la concessione della legittimazione ad agire per concorrenza sleale ad associazioni di imprenditori e di consumatori E’ chiaro che in questa luce la repressione della concorrenza sleale viene a trascendere il quadro di una mera tutela degli interessi di singoli imprenditori concorrenti, evolvendosi a strumento per la tutela di interessi generali[13].

Quanto sopra riportato lascia perplessi.

Anzitutto, perché l’inversione di tendenza, cui si fa riferimento, era nella seconda metà degli anni ’60, ma anche successivamente, tutt’altro che “universalmente accettata”.

Neanche sul piano normativo era possibile individuare disposizioni che attribuivano alle associazioni dei consumatori la legittimazione ad agire per la repressione della concorrenza sleale.

Era, invece, senz’altro vero che una parte minoritaria della dottrina iniziava ad orientarsi verso una lettura costituzionalmente orientata delle norme codicistiche sulla repressione della concorrenza sleale.

Si faceva leva in particolare sull’art. 41, comma 2, Cost., per il quale l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, norma questa che “esprime una chiarissima indicazione funzionale (……) sotto il profilo della coerenza dell’esercizio dell’iniziativa economica con interessi «sociali» riconosciuti come possibilmente confliggenti con quelli imprenditoriali e, in vista di tale possibilità, ad essa sovraordinati[14] e che ha sostituito un nuovo parametro a quello degli “interessi dell’economia nazionale” di cui all’art. 2595 c.c.[15]

Muovendo dal presupposto che “nell’ambito di una necessaria considerazione sistematica dell’ordinamento giuridico, l’esercizio dell’autonomia e i comportamenti «dei privati» non possono essere valutati in completo scollamento rispetto alle direttive fondamentali tracciate dall’ordinamento in materia di rapporti economici[16], nonché dalla considerazione che il parametro costituzionale della “utilità sociale” sarebbe espressione di interessi non imprenditoriali, si perveniva da parte di taluni ad un indirizzo, certamente innovatore[17], per il quale l’ambito della concorrenza sleale ricomprenderebbe non solo i contrapposti interessi degli imprenditori concorrenti, ma anche quelli dei consumatori.

Gli imprenditori concorrenti non sarebbero l’unico punto di riferimento della tutela concorrenziale; anche ad altri interessi, come quelli dei consumatori e della collettività, occorrerebbe riconoscere altrettanta rilevanza perché contribuirebbero ad uno svolgimento corretto della concorrenza.

Tale nuovo indirizzo iniziava ad affermarsi anche sulla scorta delle tendenze dottrinali e giurisprudenziali tedesche e svizzere che già negli anni ’60 e ’70, riconoscendo alla disciplina della concorrenza una portata sociale e non individualistica, avevano affermato che la tutela della lealtà della concorrenza comprendeva gli interessi di tutti i soggetti del mercato.[18]

Oltre a prendere come punto di riferimento l’art. 41, comma 2, Cost. ed il parametro della utilità sociale, il nuovo orientamento dottrinale poneva, altresì, la sua attenzione sul paragrafo contraddistinto con il n. 3, aggiunto all’art. 10 bis della Convenzione di Unione nella Conferenza di Lisbona del 31 ottobre 1958.

Con tale nuova ipotesi si avrebbe una “consapevole apertura verso una nuova dimensione della disciplina della concorrenza sleale[19], in quanto non implicherebbe, contrariamente alle prime due ipotesi di concorrenza sleale previste dalla stessa norma, “un diretto ed immediato riferimento ad imprenditori concorrenti: risulta per converso in primo piano una situazione conflittuale che si svolge ad un diverso livello e, cioè, tra imprenditore ed il pubblico al quale le merci sono destinate. Va infatti sottolineato che, per integrare la fattispecie dell’illecito, è condizione necessaria e sufficiente l’idoneità delle «indications ou allégations» a trarre in inganno il pubblico: deve dedursene che l’interesse preso direttamente in considerazione agli effetti della «protection effective contre la concurrence déloyale», è esclusivamente quello della collettività, cioè di tutti quei soggetti con i quali, a tutti i livelli, potrebbe instaurarsi un contratto nella fase di offerta delle merci[20].

Si passava, poi, da parte dello stesso Autore ad un raffronto tra gli artt. 2598 c.c. e 10 bis della Convenzione per sottolinearne le differenze e per affermare la piena applicabilità della norma convenzionale e, segnatamente, di quella di cui al n. 3, che sarebbe posta a tutela degli interessi dei consumatori[21].

Le tesi sopra illustrate, secondo cui la disciplina della concorrenza sarebbe stata posta anche a tutela degli interessi dei consumatori, trovavano eco, sia pure in modo piuttosto contenuto, nella giurisprudenza di merito.

Alcune pronunce, infatti, come osservato criticamente dalla dottrina tradizionale, iniziavano ad “inserirsi in quel movimento letterario giurisprudenziale che, rompendo quasi ogni collegamento con le origini della norma di cui all’art. 2598 n. 3 c.c., si era messo a ricercare la giustificazione di tale norma nell’art. 41 della nostra Costituzione[22].

In particolare, tali sentenze enunciavano il principio secondo il quale l’art. 41 Cost. rileverebbe nella interpretazione dell’art. 2958 n. 3 c.c., riempendo di contenuto concreto il dovere di correttezza professionale.

Altra pronuncia[23], successiva a quelle del Tribunale di Milano, enunciava anch’essa il principio che “nell’individuazione dei principi della « correttezza professionale» di cui all’art. 2598 n. 3, la cui violazione rende «sleale» l’atto di concorrenza e nella ricostruzione del significato della clausola generale (di cui sono l’espressione), non è possibile prescindere dall’art. 41, 2° comma della Costituzione il quale dispone che l’iniziativa economica privata non può svolgersi « in contrasto con l’utilità sociale»”.

In ordine alle critiche riguardanti la immediata precettività dell’art. 41 Cost., l’anzidetta decisione osservava che esse “non hanno, a ben vedere, ragion d’essere posto che, dal punto di vista del loro contenuto normativo, nessuna differenza sostanziale sussiste tra le disposizioni costituzionali che enunciano principi generali già in atto e quelle che pongono principi generali puramente programmatici, il cui contenuto è destinato ad essere sviluppato dal legislatore ordinario con l’emanazione di apposite norme. I c.d. principi programmatici hanno pertanto anch’essi piena efficacia e, come tali, ben possono essere utilizzati dall’interprete per chiarire ed integrare il significato delle norme subordinate regolanti la materia cui essi si riferiscono ……[24].

 

 

4. La questione di costituzionalità dell’art. 2601 c.c. e la sua manifesta inammissibilità

Alcuni autori, sostenitori della nuova tendenza diretta ad ampliare l’ambito della concorrenza sleale fino a ricomprendervi gli interessi dei consumatori, tendenza che divenne “ben presto prevalente tra le giovani generazioni di giuristi[25], si posero subito il seguente interrogativo: “ma come si configura allora, sul piano positivo, il problema dell’apertura della legittimazione all’azione di concorrenza sleale ai portatori di interessi (in sintesi) extra-imprenditoriali coinvolti nelle lotte di concorrenza?[26].

La dottrina più attenta, infatti, si accorse agevolmente delle molteplici difficoltà, in relazione allo stato della legislazione esistente, a riconoscere sul piano processuale la legittimazione dei consumatori ad agire in giudizio per rimuovere un atto di concorrenza lesivo dei loro interessi.

Veniva, infatti, acutamente osservato, che la tesi di taluni,[27] che avevano ampliato la legittimazione ad agire per concorrenza sleale in stretta correlazione alla rilevanza diretta ed immediata attribuita agli interessi dei consumatori, “per quanto suggestiva …… manca però in pratica di ogni dimostrazione, giacché il Santagata non può attribuire ad essa altra base normativa che quella rappresentata dall’art. 100 cod. proc. civ. (……). Ma questo richiamo appare non conclusivo, e neppure pertinente. Malgrado non siano pacifici, nella dottrina processualistica, i caratteri distintivi tra interesse e legittimazione ad agire, è peraltro, certo che tale distinzione deve essere tenuta ben ferma, soprattutto ai fini pratici. In altre parole, il criterio dell’art. 100 può incidere su una situazione giuridica in cui un soggetto appaia strettamente legittimato a proporre una determinata azione, che tuttavia gli viene negata perché si rileva la mancanza, in esso, del necessario interesse «concreto», in relazione al provvedimento demandato al giudice; ma non può servire ad attribuire tale legittimazione a chi già non la possiede.[28].

Il mero interesse del consumatore, dunque, non sarebbe sufficiente per attribuire allo stesso la legittimazione ad agire, occorrendo dimostrare preliminarmente che l’ordinamento abbia riconosciuto anche a chi non sia imprenditore tale legittimazione.

Ed è proprio in considerazione della difficoltà di riconoscere ai consumatori la legittimazione ad agire per concorrenza sleale e della ulteriore difficoltà di attribuire a tale legittimazione una base normativa più o meno solida, che il dibattito si sposta sull’art. 2601, la cui norma, sopravvissuta alle soppressione dell’ordinamento corporativo con il quale era nata[29], consente alle associazioni professionali e agli enti che rappresentano la categoria di agire in giudizio per la repressione di quegli atti di concorrenza sleale che siano lesivi degli interessi “di una categoria professionale”.

Seppure, a tutt’oggi, è controverso l’ambito di operatività della norma[30] ed il titolo della legittimazione [31], id est se le associazioni agiscono o meno iure proprio, la ratio sottesa alla norma stessa è quella di riconoscere tutela ad interessi superindividuali[32] in relazione agli atti di concorrenza sleale.

Come precisato dalla giurisprudenza, per la speciale legittimazione ad agire di cui all’art. 2601 c.c. occorre che sussista “un interesse ulteriore differenziato rispetto a quello che legittima a denunciare il fatto concorrenziale l’imprenditore aderente[33].

In considerazione della possibilità che, per il tramite della norma in esame, vengano tutelati, dunque, interessi diversi da quelli dei singoli imprenditori, è stata sostenuta dalla dottrina, sensibile ad attribuire rilevanza agli interessi dei consumatori, la illegittimità costituzionale dell’art. 2601 c.c. per la mancata previsione in favore delle associazioni dei consumatori della loro legittimazione ad agire per concorrenza sleale[34].

La soppressione nell’art. 2601 c.c. del requisito della “professionalità”, che determina un inevitabile collegamento con gli interessi di una “categoria” non extraimprenditoriale, avrebbe consentito, secondo tale orientamento, alle associazioni dei consumatori di agire in giudizio e di ottenere quella legittimazione che era priva di supporto normativo.

Si auspicava, dunque, o un intervento legislativo, ovvero una pronuncia additiva della Consulta, che avrebbe dovuto rilevare la irragionevole disparità di trattamento con quelle associazioni portatrici di interessi superindividuali, costituzionalmente rilevanti ai fini della tutela dei consumatori, essendo anche questa ricompresa nell’ambito della concorrenza sleale[35].

E la questione di legittimità costituzionale venne sollevata dal Tribunale di Milano con l’ordinanza del 7 febbraio 1980[36], che costituisce il portato degli indirizzi innovatori per i quali la disciplina della repressione della concorrenza sleale sarebbe volta anche alla tutela di interessi generali.

Dopo una premessa diretta ad illustrare le ragioni che renderebbero preferibile l’interpretazione sulla legittimazione delle associazioni ad agire iure proprio e non come portatori degli interessi individuali dei singoli che fanno parte della associazione, nonché a sostenere che l’art. 2601 eleverebbe a rango di diritto soggettivo un interesse collettivo e, cioè, “un interesse diffuso di categoria imprenditoriale contro il pregiudizio derivante da atti di gestione non conformi alla correttezza professionale purché tale interesse faccia capo ad un’associazione oppure ad un ente che rappresenti la categoria”, l’ordinanza passa ad esaminare la configurabilità o meno di una questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 3 Cost. “per il fatto che la norma in esame pur avendo reso tutelabile l’interesse collettivo pregiudicato dall’altrui atto di gestione illecito, non ha esteso tale tutela fino a comprendere in essa anche l’interesse collettivo di categorie non qualificabili come professionali, ed in primo luogo della categoria dei consumatori”.

Ebbene la questione veniva ritenuta non manifestamente infondata per contrasto con l’art. 3, comma 1, della Costituzione nella parte in cui l’art. 2601 c.c. “a) circoscrive la tutela giurisdizionale ordinaria ai soli atti di concorrenza sleale che pregiudicano gli interessi di una categoria professionale anziché di una categoria tout court; b) parallellamente conferisce la legittimazione ad agire alle sole associazioni professionali anziché alle associazioni tout court”.

Com’è noto, essa veniva decisa con una pronuncia di manifesta inammissibilità “perché compete al legislatore apprestare adeguati strumenti di salvaguardia per il consumatore[37].

Il Giudice delle leggi riteneva che l’art. 2601 “si colloca nell’ambito della disciplina della concorrenza sleale” per cui “non appare neppur ipotizzabile il confronto con enti ed associazioni che abbiano finalità istituzionali diverse dal potenziamento del commercio di un determinato prodotto e che fanno quindi valere interessi del tutto estranei alla correttezza dei rapporti economici di mercato”.

E’ di tutta evidenza che la Corte Costituzionale ritiene che la normativa sulla concorrenza sleale riguardi i soli imprenditori concorrenti e non comprenda anche gli interessi dei consumatori, tant’è che afferma che gli unici strumenti di tutela di tali interessi sono quelli penali (art. 44 c.p.) e che compete al legislatore prevedere “e le forme e l’ambito di azioni specifiche, sul modello di quelle contemplate dalla legislazione tedesca e svizzera in favore delle associazioni dei consumatori”.

 

 

5. Segue: il successivo dibattito dottrinale

All’indomani della pronuncia del Giudice delle leggi le tendenze ad una maggiore estensione della tutela concorrenziale, in relazione alle esigenze di protezione del consumatore, subivano senz’altro una battuta d’arresto.

Non mancava, tuttavia, chi riteneva la questione di costituzionalità posta “in maniera alquanto sbrigativa e aproblematica”, anche se, nel contempo, qualificava come “troppo lapidaria” e non convincente la conclusione cui i giudici costituzionali erano pervenuti.[38]

Che la questione sarebbe stata mal posta era già stato messo in luce da quella dottrina[39] secondo la quale la via interpretativa seguita dal giudice a quo finiva per riconoscere una “subalternità” dei consumatori e dei loro interessi alle associazioni di categoria degli imprenditori concorrenti, posto che, profilando un intervento di enti esponenziali non giuridicamente riconosciuti per atti che avrebbero dovuto essere pregiudizievoli “in pari tempo e in pari misura, nonché sotto il medesimo profilo di valutazione” di entrambi gli interessi, non sarebbe stata attribuita giusta rilevanza a tutti quei casi nei quali a dover essere salvaguardate sono anzitutto le esigenze dei consumatori e solo in via indiretta quelle della impresa.

L’altro limite veniva individuato nell’aver ritenuto violato il solo art. 3 Cost., senza aver tolto in esame i principi desumibili dall’art. 41 Cost. e, soprattutto, cogliere i collegamenti fra tale norma e gli artt. 2 e 3 Cost.

Oltre alle censure riguardanti la ordinanza di rimessione, i sostenitori della estensibilità agli interessi dei consumatori delle norme sulla concorrenza sleale osservavano che la decisione della Corte Costituzionale e l’affermazione perentoria della insussistenza di una qualsivoglia interferenza fra la tutela della lealtà della concorrenza e la tutela dei consumatori sarebbe poco attenta sia alla dimensione pubblicistica e sociale del fenomeno concorrenziale, privilegiando, dunque, un’ottica di tipo individualistico della iniziativa economica, sia al rilievo che l’azione dei consumatori contribuirebbe a rendere più efficace il meccanismo diretto ad assicurare la repressione degli atti di turbativa e a ripristinare la fair competition [40].

Si rafforzava senz’altro l’orientamento tradizionale contrario ad un allargamento dell’ambito di applicazione dell’art. 2598 c.c.

Si rilevava, infatti, che “non si possono distorcere le norme sulla concorrenza sleale, dettate cinquant’anni fa per proteggere reciprocamente gli imprenditori nel loro competere nel mercato, a coprire un problema del tutto diverso, e cioè quello della protezione dei consumatori”.[41]

 

 

 

6. L’opportunità di un intervento legislativo in materia

Un intervento legislativo in materia era più che opportuno e la tendenza alla estensibilità delle disposizioni normative sulla concorrenza sleale agli interessi dei consumatori esprimeva senz’altro uno stato di malessere determinato da una disciplina sulla tutela dei consumatori piuttosto carente.

A prescindere dalla fondatezza o meno degli indirizzi dottrinali che, a partire degli anni ’70, ritenevano che al consumatore doveva essere riconosciuta la legittimazione ad agire a fronte di illeciti concorrenziali, v’era sicuramente un vuoto normativo da colmare o, comunque, la necessità che degli idonei strumenti venissero apprestati per tutelare più efficacemente il consumatore.

La loro tutela non poteva più essere mediata, indiretta o, comunque, subordinata a quella degli imprenditori concorrenti e dei loro interessi.

Una siffatta tutela non poteva ritenersi adeguata ed efficace in quanto diretta a perseguire interessi appartenenti ad una categoria diversa (quella degli imprenditori) e per nulla coincidenti, nella maggior parte dei casi, con quelli dei consumatori.

Non può di certo qualificarsi come un sistema idoneo ed adeguato di difesa quello di tutelare i consumatori solo nelle limitate ipotesi in cui i loro interessi collimano con le finalità perseguite dagli imprenditori concorrenti ed, ancora, far dipendere una siffatta eventualità, già di per sé riduttiva, dalla iniziativa altrui.

A ciò si aggiunga che per tutti gli altri casi, nei quali gli atti sleali posti in essere dai concorrenti abbiano refluenze pregiudizievoli nei confronti dei consumatori, ad essi non rimaneva che la tutela penale e quella prevista dalle norme sulla responsabilità civile.

Sotto un profilo penalistico vengono in rilievo, infatti, gli artt. 516 e 517 c.p. che sanzionano la messa in vendita o in commercio come genuine sostanze alimentari che tali non sono, nonché la messa in vendita o in commercio di “opere dell’ingegno o prodotti industriali con nomi, marchi o segni distintivi nazionali od esteri, atti ad indurre in inganno il compratore sull’origine o provenienza o qualità dell’opera o del prodotto”.

Altre norme del codice penale che possono ledere gli interessi del consumatore sono quelle degli artt. 440, 441 e 442 sulla adulterazione e contraffazione di sostanze alimentari e di altre cose in danno della salute e, ancora, le disposizioni di cui agli artt. 443, 444 e 445 sulla messa in commercio di sostanze alimentari contraffatte o adulterate, di medicinali nocivi e sostanza alimentari anch’esse nocive.

Accanto a tale tutela, che consente di poter inibire una determinata attività e di evitare che il consumatore subisca un pregiudizio, l’altra e l’unica che sul piano privatistico poteva essere, come già detto, utilizzata era quella risarcitoria dell’art. 2043 c.c.

Erano, dunque, configurabili due sole forme di tutela: una che operava sul piano penale che richiedeva che la condotta fosse sussumibile nelle fattispecie di reato previste; l'altra che faceva capo alla applicabilità dei principi e delle norme sull’illecito aquiliano.

E’ di tutta evidenza che ancorare la tutela del consumatore allo schema dell’atto illecito costituisce una prospettiva per nulla soddisfacente.

Anzitutto perché, com’è noto, una protezione sarebbe possibile solo nella ipotesi in cui un danno realmente e concretamente si verifichi, mentre una tutela che voglia ritenersi pienamente adeguata e, soprattutto, effettiva deve anche prevenire il verificarsi del pregiudizio e consentire, quindi, al consumatore di intervenire anticipatamente per inibire che gli atti posti in essere dall’imprenditore producano i loro effetti.

Va, ancora, considerato, nel senso sopra indicato, che v’è una nutrita “serie di interessi che si pone a monte del fenomeno risarcitorio, anche se a questo, in un certo senso, collegata. Infatti l’interesse del consumatore, prima ancora di essere risarcito per il danno subito, è quello che siano predisposte delle misure, delle forme di contratto perché il danno non si verifichi. E’ l’interesse che i prodotti siano genuini e non nocivi e che, se pericolosi, siano accompagnati da adeguate istruzioni per l’uso; è l’interesse che la stessa concorrenza tra produttori si svolga secondo i principi della lealtà e correttezza; è l’interesse quindi che la pubblicità non sia menzognera, che con i marchi labels ecc., non si crei quella confusione tra prodotti che inganni il pubblico; è l’interesse che i prodotti abbiano le qualità e siano effettivamente composti dagli ingredienti indicati dal produttore[42].

La frammentarietà di un siffatto sistema costituisce un rilievo che accomuna i contrapposti orientamenti sopra riportati ed unisce, quindi, sia gli autori a favore della tesi della estensibilità agli interessi dei consumatori delle disposizioni codicistiche sulla concorrenza sleale, sia la dottrina che, negando un possibile ampliamento, era per la netta ripartizione fra l’illecito concorrenziale e l’illecito lesivo degli interessi dei consumatori.

Tutti, ancora, ritenevano non più procastinabile una disciplina unitaria diretta ad offrire al consumatore non una tutela indiretta, ma una tutela piena ed immediata, nonché idonea a superare le lacune esistenti. Per taluni, infatti, occorreva un intervento del legislatore diretto a riconoscere alle associazioni dei consumatori la necessaria legittimazione ad agire[43]; per altri, come già detto, lo stesso risultato poteva essere ottenuto, oltre che per la via normativa, anche con una pronuncia additiva della Corte Costituzionale[44], ovvero con un’interpretazione evolutiva delle norme esistenti[45].

Anche i più autorevoli sostenitori dell’indirizzo tradizionale non si limitavano a censurare i ripieghi sopra indicati, ovvero ad escludere soltanto la possibilità per le norme costituzionali e codicistiche di tutelare direttamente gli interessi dei consumatori.

Invero, sottolineavano che “solo un intervento legislativo potrebbe mutare la conclusione della dottrina tradizionale” ed, ancora, che “il principio costituzionale dell’art. 41, 2° co., non ha trovato attuazione (……). Ed è certo che lo si dovrebbe fare e che attraverso le iniziative comunitarie sopra accennate, lo si farà. Ma con nuove norme, e non leggendo in quelle esistenti quello che non c’è[46].

Del resto, già ancor prima e con una lungimiranza sorprendente, era stato osservato che “la funzione invero di tutela assolta per i consumatori dalla libera concorrenza dovrà bensì, a volte, essere integrata (……), ma non lo può certo essere attraverso misure a favore delle stesse imprese. E’ questo aspetto della tutela del consumatore (con la quale, a mio avviso, poi si coordina anche la tutela del lavoratore, vuoi perché è poi questi che specialmente subisce l’onere della mancata tutela dei consumatori, vuoi perché, come osservato, la posizione privilegiata dell’impresa si tradurrà anche in rafforzamento dell’imprenditore nei confronti dei lavoratori) che è poi anche tutela del progresso tecnico, che a me sembra bensì conciliabile vuoi con libera iniziativa, vuoi con interventi pubblicistici e socializzazioni, potendo tutte queste vie, per quanto diverse, concorrere in questa finalità, ma pericolosamente sottovalutata dagli orientamenti che fanno capo all’impresa, come organismo meritevole, come tale, di peculiare tutela[47].

V’era, dunque, la consapevolezza della inidoneità della tutela solo indiretta del consumatore.

Occorreva, infatti, eliminare “l’incongruenza di una disciplina legislativa, che sanzioni un atto che pregiudica un interesse (quello dell'imprenditore), nel presupposto che sia avvenuta la lesione di un altro interesse (quello del consumatore), che però rimane privo di una tutela pregnante come quella che riceve il primo interesse (dell’imprenditore)[48].

Ma bisognava ancora, con il tanto auspicato nuovo apporto normativo, far fronte a nuove e diverse esigenze nascenti dal progresso tecnologico, dal potenziamento del commercio, da un sistema economico che si era notevolmente evoluto, allontanandosi da quello che il legislatore degli anni ’40 aveva preso come punto di riferimento.

Alla base, dunque, del predetto fermento vi era la considerazione che “l’emergere dei rapporti e contratti sociali di massa, quale fenomeno nuovo e nuovo modo di atteggiarsi della società civile, che è causa ed effetto al tempo stesso della produzione in serie e dei consumi di massa, non è compiutamente censibile sulla base degli istituti, figure ed interpretazioni tradizionali. Emerge la insufficienza di strumenti propri di momenti in cui quei fenomeni erano socialmente meno incidenti, o comunque ispirati ad una logica prodotta dalla cultura giuridica a quei momenti dominante[49].

I tempi erano ormai maturi per una risposta in termini di piena ed adeguata tutela del consumatore a seguito dei cambiamenti delle condizioni di mercato, della sua espansione, dell’attuazione di nuovi metodi di fabbricazione e di vendita, dello sviluppo dei mezzi di comunicazione, dell’aumento della produzione, dell’offerta e della vendita di beni e servizi nuovi e correlati all’ampliamento dei bisogni di una società in crescita.

La rilevata anacronistica incongruenza di tutelare i consumatori solo in via mediata od indiretta costituisce l’effetto di un equilibrio fra imprenditori e consumatori che si era ormai modificato, e ciò per la sopra accennata evoluzione del mercato, la crescita economica e la più veloce circolazione dei beni e dei servizi.

 

 

7. Il Decreto Legislativo n. 74 del 1992 sulla pubblicità ingannevole

Non è un caso che le considerazioni sulla necessità di tutelare il consumatore e di colmare il vuoto normativo esistente muovevano da alcuni casi di illeciti pubblicitari o da esempi riferiti quasi sempre al contenuto menzognero dei messaggi pubblicitari[50].

E’, infatti, con riferimento alla pubblicità ingannevole che diventano più evidenti le incongruenze di una disciplina che non consentiva ai consumatori di poter intervenire, che li rilegava al ruolo di “sudditi[51], lasciando che altri, aventi lo status di “cittadini”, assumessero per loro l’opportuna iniziativa giudiziaria[52].

E’ sufficiente a tal fine riportare uno degli esempi prospettati dalla dottrina per dimostrare che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Consulta con l’ordinanza del 21.01.1988 n. 59, sopra indicata, il consumatore non sarebbe affatto estraneo alla correttezza dei rapporti economici di mercato.

E’ stato così considerato “il caso - tipico - di pubblicità non veritiera intorno a caratteristiche e proprietà di prodotti che non ammettono diversificazioni sul piano della qualità, dove allora nessun imprenditore avrebbe incentivo a reagire contro le false informazioni immesse nel mercato, in quanto anch’egli ne trae vantaggio[53].

Al di là degli esempi e dei casi esposti dalla dottrina, non v’è dubbio che la comunicazione ingannevole incide maggiormente sui consumatori per il forte impatto che ha su di loro e sul processo di scelta che compiono, tant’è che con riferimento agli interessi propri del consumatore ed alla possibilità che essi venissero pregiudicati si faceva menzione, ancor prima dell’introduzione di una specifica ed organica disciplina in materia, alla pubblicità “che tende sempre meno a esaltare o informare sulle qualità del prodotto e sempre più ad indurre all’acquisto, agendo su elementi irrazionali o emotivi[54].

Ebbene, la ormai rilevata improcrastinabile necessità di tutelare il consumatore unitamente alla mancanza di una disciplina organica della materia, essendo stati previsti sia dalla legislazione d’anteguerra, sia da quella successiva, solo divieti specifici, concernenti taluni settori merceologici, ha determinato la emanazione del D.L.vo 25.01.1992 n. 74 sulla pubblicità ingannevole (modificato dal D.L.vo 25.02.2000 n. 67 riguardante le condizioni di liceità della pubblicità comparativa), che ha recepito la Direttiva n. 84/450/CEE.

Tale decreto, come espressamente enunciato all’art. 1, comma 1, è diretto a tutelare “dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali: i soggetti che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, i consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari”.

Con la norma testè riportata, dunque, i consumatori vengono posti accanto agli imprenditori e si fanno rientrare, con pari dignità, nel novero dei soggetti che l'ordinamento si propone di tutelare. Viene, poi, riconosciuta agli stessi la legittimazione ad agire al fine di ottenere dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato la più efficace delle misure sanzionatorie: inibire gli atti di pubblicità ingannevole o la loro continuazione, nonché ottenere la eliminazione degli effetti.

Il rimedio di carattere risarcitorio, che presuppone la sussistenza e la dimostrazione del danno e del nesso causale con la diffusione del messaggio secondo le norme del codice civile (artt. 2043, 1337 e 1428 c.c.), non è il solo. Alla stessa stregua degli atti di concorrenza sleale, v’è un’anticipazione della soglia di tutela per impedire che l’evento si verifichi e che maturino e si consolidino le intuibili conseguenze lesive.

L’art. 7 del Decreto Legislativo, infatti, concede ai “concorrenti, ai consumatori, alle loro associazioni ed organizzazioni” la legittimazione a ricorrere all’Autorità affinché sia inibita la pubblicità che “in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che possa raggiungere e che, a causa del suo carattere ingannatorio, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente” (art. 2, comma 1, lett. b) del D.L.vo n. 74/1992)[55].

Quel che interessa a questo punto è stabilire se, come è stato recentemente affermato, l’attuazione della Direttiva 84/450/CEE con il D.L.vo n. 74 del 1992 determina un mutamento di prospettiva.

Afferma la dottrina in proposito che con la normativa sulla pubblicità ingannevole si aprirebbe “una profonda breccia, assai suggestiva agli occhi di quanti hanno più volte ricercato, invano, un indispensabile bilanciamento di interessi tra categorie non imprenditoriali all’interno della disciplina della concorrenza sleale”.[56]

Nello stesso senso, si sostiene che “i primi segnali di erosione di questa rigorosa concezione della concorrenza e della sua disciplina ristretta ai rapporti tra imprenditori commerciali, sono venuti dalle direttive comunitarie e, in particolare, dalle leggi che ne hanno perseguito l’attuazione: prima tra esse, il d.lg. 25 gennaio 1997 n. 74 in tema di pubblicità ingannevole (…) che all’art. 7 ha riconosciuto – nella salvezza della competenza giurisdizionale del giudice ordinario in tema di azione ex art. 2598 – al consumatore uti singulus ed all’ente esponenziale un potere di iniziativa e di controllo giurisdizionale (sebbene di pertinenza del giudice amministrativo)”.[57]

Anche se sulla questione si ritornerà più avanti, giova rilevare sin da ora che le affermazioni di principio sopra riportate vanno senz’altro attentamente e rigorosamente verificate dall’interprete.

Già i primi commentatori delle disposizioni normative in esame non erano molto propensi ad accedere a tale nuova e diversa prospettiva.

Anzi, si sottolineava da parte di taluni che “sarebbe un errore considerare la pubblicità ingannevole nell’ambito strutturale e funzionale della concorrenza sleale, come sarebbe erroneo considerarla a protezione del solo consumatore. La disciplina della pubblicità ingannevole ha una sua propria autonomia giuridica, diretta a creare chiarezza e trasparenza nei rapporti commerciali e professionali, senza richiedere la necessaria qualifica imprenditoriale delle due parti, che prima della nuova normativa era indispensabile, nonché gli altri requisiti prescritti dall’art. 2598 cod. civ.[58].

E’ indubbio che sussistano rapporti fra il fenomeno della pubblicità ingannevole e la concorrenza, come, peraltro, enunciato dal secondo “Considerando” della direttiva 84/450/CEE, che così afferma: “la pubblicità ingannevole può condurre ad una distorsione della concorrenza all’interno del mercato comune”. E’ ovvio, infatti, che “Se la pubblicità opera quale mezzo di orientamento della domanda essa è idonea ad influenzare le condizioni generali di mercato[59].

Ma, come costantemente rilevato dalla dottrina, “vi sono atti o attività di per sé non dannosi per i consumatori, che possono risultare tali se riferiti invece ai rapporti concorrenziali tra imprenditori. Vi sono atti o attività dannosi per i consumatori che non risultano tali nella disciplina della concorrenza come accade per la pubblicità superlativa[60].

La pubblicità denigratoria avente ad oggetto affermazioni vere non costituisce un’ipotesi lesiva degli interessi dei consumatori; anzi, è tale da offrire loro quelle informazioni idonee a determinare le proprie scelte di acquisto in modo consapevole e sulla base delle reali caratteristiche dei prodotti.

Allo stesso risultato conduce presumibilmente la pubblicità comparativa.

Alla luce di tali considerazioni sembra possibile affermare che la tutela diretta del consumatore e la legittimazione riconosciuta in capo allo stesso ed alle associazioni dei consumatori non implica necessariamente un ampliamento sul piano soggettivo della disciplina della concorrenza sleale, né conduce a ritenere superata la tradizionale impostazione corporativistica.

Non sempre il consumatore ha interesse a reagire nei confronti di ogni forma di comunicazione pubblicitaria scorretta. Solo per quelle comunicazioni che siano tali da indurlo in errore e da alterare la sua libertà di scelta egli può denunciare i fatti all’Autorità Garante della concorrenza e del mercato.

Vi possono così essere delle situazioni che, per la plurioffensività della condotta posta in essere dell’operatore pubblicitario, consentono a più soggetti, appartenenti a categorie diverse, di agire in giudizio.

Ma una siffatta coincidenza non sembra che possa determinare una commistione di interessi e non giustificherebbe l’affermazione secondo la quale con il decreto in esame la c.d. esclusività corporativa della concorrenza sleale si sia incrinata.

Non va, poi, trascurato che, secondo una certa impostazione, l’interesse dei consumatori a non essere ingannati dalla comunicazione pubblicitaria “altro non è se non un particolare aspetto di ciò che un tempo si definiva la «fiducia commerciale», ricollegabile alla più vasta nozione di «fede pubblica», che già trovava e trova riconoscimento in diverse norme del nostro ordinamento, fra cui quelle dell’art. 18 lett. e) della Legge Marchi e degli artt. 515 e 517 del Codice Penale[61].

La tutela della c.d. fede pubblica riguarderebbe, detto più chiaramente, “quell’interesse generale – in quanto non personalizzato in capo a soggetti determinati o a categorie di soggetti – che secondo la nota definizione rocchiana si indirizza al mantenimento della fiducia del pubblico in determinati oggetti o simboli, sulla cui genuinità o autenticità deve potersi fare assegnamento al fine di rendere certo e sollecito lo svolgimento del traffico economico e/o giuridico[62].

La legittimazione ad agire dei consumatori non avrebbe, dunque, alcuna refluenza sulla disciplina della concorrenza sleale, atteso che gli interessi tutelati sarebbero diversi e solo in via mediata si ripercuoterebbero sul mercato.

Anzi, secondo una parte della dottrina, i soggetti portatori di interessi tutelati dal decreto ed indicati dall’art. 1, comma 1, non potrebbero considerarsi su un piano di parità, poiché “obiettivo primario” sarebbe la tutela del consumatore, mentre “la tutela degli interessi ulteriori rispetto a quello dei consumatori assume sì qualche rilievo autonomo, ma ciò avviene …… solamente sul piano della legittimazione a ricorrere, non su quello dei presupposti della tutela. L’assenza di un profilo di potenziale lesione dei consumatori impedisce di azionare la tutela, dove, al contrario, la sua presenza lo consente, indipendentemente dall’esistenza di un potenziale pregiudizio ad altri interessi. La relazione tra lesione di tali altri interessi e lesione di quello dei consumatori, è, pertanto, eventuale[63].

I concorrenti potrebbero, dunque, agire in giudizio solo nelle ipotesi in cui l’avvenuta lesione degli interessi dei consumatori determini per loro conseguenze sleali.

Un capovolgimento della impostazione tradizionale, che, tuttavia, solo in via eventuale tocca la disciplina della concorrenza sleale e, comunque, non inciderebbe su di essa.

A ciò occorre, anche, aggiungere, come costantemente affermato in dottrina, che, se è vero che il decreto sopra citato ha attribuito uno specifico strumento di protezione alle associazioni dei consumatori, è altrettanto incontestabile che “questa legittimazione è diffusa ed amplissima e l’organo competente non è un giudice ordinario, ma l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, istituita con legge 10 ottobre 1990 n. 287” e che “non sembra modificato in alcun modo l’ambito di applicabilità dell’art. 2601 c.c.[64].

 

 

 

8. La Legge n. 580/1993 di riforma dell’ordinamento delle Camere di Commercio

Secondo altri Autori la prima “robusta incrinatura” all’orientamento tradizionale sulla natura individuale e “professionale” della disciplina concorrenziale si avrebbe, invece, con la L. 29.12.1993, n. 580, di riforma dell’ordinamento delle Camere di Commercio.[65]

Con tale normativa si modificherebbe il loro ruolo di rappresentanti delle categorie professionali e la loro azione potrebbe essere anche volta a “far cessare atti di concorrenza lesivi degli interessi generali di mercato”.[66]

E’ opportuno, anche in tale ipotesi, prendere specificamente in esame le disposizioni della predetta legge che riguardano i consumatori e che consentirebbero di affermare quanto autorevolmente sostenuto dalla dottrina.

L’art. 2 della citata L. n. 580/1993 nel prevedere i compiti svolti dalla Camera di Commercio stabilisce, anzitutto, al comma 1, che queste esercitano funzioni “di supporto e di promozione degli interessi generali delle imprese nonché .……funzioni nelle materie amministrative ed economiche relative al sistema delle imprese”.

Nel successivo comma 4 dello stesso art. 2 vengono previste, in termini di possibilità, la promozione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione di controversie che insorgano anche fra le imprese e i consumatori o utenti, la predisposizione e promozione di “contratti-tipo tra imprese, loro associazioni e associazioni di tutela degli interessi dei consumatori e degli utenti”, nonché la promozione di “forme di controllo sulla presenza di clausole inique inserite nei contratti”.

Infine, il successivo comma 5 del citato art. 2 stabilisce la possibilità per le Camere di Commercio di “promuovere l’azione per la repressione della concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2601 del codice civile”.

Occorre, anzitutto, sottolineare, sulla base delle disposizioni sopra considerate. che la funzione principali delle Camere di Commercio rimane quella legata agli interessi delle imprese con riferimento alle quali esercitano un importante ruolo di supporto e di promozione.

Le altre attribuzioni previste dall’art. 2, commi 4 e 5, e che riguardano i consumatori, sembra che possano essere svolte solo in via eventuale, per cui non sarebbe peregrina l’affermazione che si tratti di una mera facoltà il cui esercizio è rimesso all’apprezzamento delle Camere di Commercio o delle loro associazioni.

In tal senso depone l’uso, nella formulazione della norma in esame, del verbo “possono”, che precede l’elencazione di cui alle lett. a), b) e c) del comma 4.

Sempre in termini di possibilità viene previsto l’esperimento dell’azione di repressione della concorrenza sleale.

Alla luce di tali considerazioni non si ritiene che con la legge in esame la concorrenza sleale assuma contorni più ampi e ricomprenda anche gli interessi dei consumatori.

Sembra, infatti, che il ruolo principale delle Camere di Commercio rimanga quello enunciato dall’art. 2, comma 1, della legge di riforma e, segnatamente, quello di supporto e di promozione degli interessi generali delle imprese. In relazione a tale funzione ben si comprende la possibilità per esse di esercitare l’azione di cui all’art. 2601 c.c., essendo questa volta a tutelare gli interessi superindividuali di una intera categoria imprenditoriale.

Né, dall’altra parte, si potrebbe fare leva sulla composizione delle Camere di Commercio per argomentare che l’azione ex art. 2601 c.c. non sarebbe più riservata alla difesa di interessi imprenditoriali.

L’art. 10, comma 6, della L. n. 580/1993 prevede che del consiglio fanno parte, in rappresentanza delle associazioni di tutela degli interessi dei consumatori, solo due componenti designati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative nell’ambito della circoscrizione territoriale di competenza.

Ebbene la partecipazione a tale organismo delle associazioni dei consumatori è più che minoritaria, certamente non significativa, considerato che la quasi totalità del consiglio è composta dai rappresentanti dei diversi settori nei quali le imprese operano (si ponga mente che, su un numero di 20 consiglieri nel caso in cui le imprese iscritte non superino le 40.000 unità, solo due consiglieri rappresentano i consumatori).

Tale esiguo numero di consiglieri non sembra che possa giustificare il superamento della concezione tradizionale della disciplina concorrenziale.

Infine, gli altri compiti, elencati dal citato art. 2, comma 4, e concernenti la predisposizione di contratti–tipo tra le imprese e i consumatori ed il controllo sulla presenza di clausole abusive, non inciderebbero sul fenomeno della concorrenza sleale se non in via mediata o indiretta.

Peraltro, come osservato in dottrina, le Camere di Commercio “difficilmente sembrano potersi atteggiare efficacemente al descritto ruolo di raccordo tra le imprese – alle quali appartengo, nella normalità dei casi, i «professionisti» utilizzatori delle clausole abusive – e i «consumatori» (……), ergendosi, allo stesso tempo, a tutela dei consumatori, ponendosi così, in antitesi alla figura dell’imprenditore professionista”.[67]

Peraltro, fra gli stessi autori che avevano da sempre sostenuto la necessità di ampliare l’ambito degli interessi suscettibili di protezione da parte della disciplina concorrenziale, venivano da subito sollevate perplessità sulla reale portata innovativa della L. n. 580/1983, ponendo il seguente quesito: “……se e come le Camere di Commercio eserciteranno tale potestà e se la eserciteranno per tutelare gli interessi degli antagonisti contro gli abusi imprenditoriali, appare per tutelare gli interessi produttivistici della categoria contro comportamenti concorrenziali dei singoli imprenditori che siano scorretti in quanto devianti rispetto agli obiettivi produttivistici della categoria[68].

Essendo necessario verificare, poi, in una prospettiva di carattere pragmatico, l’impatto del nuovo modello nella realtà giuridica, occorre rilevare che a tutt’oggi nessuna pronuncia v’è stata su azioni promosse dalla Camera di Commercio per la repressione della concorrenza sleale.

Nessun interesse della categoria imprenditoriale è stato protetto esperendo l’azione di cui all’art. 2601 c.c.; quanto precede rende ancor più improbabile che una siffatta azione possa essere utilizzata per la difesa degli interessi dei consumatori.

Una conferma, sia pure successiva, di quanto sin qui esposto potrebbe essere costituita dalla norma di cui all’art. 3 della L. n. 281/1998.

Sulla base di tale norma le Camere di commercio, infatti, assumono un indubbio ruolo di terzietà, che è senz’altro inconciliabile con quello di soggetti che possono esperire l’azione inibitoria a tutela degli interessi dei consumatori nel quadro della concorrenza sleale.

Esse, invero, non rientrano più, ai sensi del citato art. 3 comma 1, della L. n. 281/1998, nel novero dei soggetti legittimati ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori a differenza della previsione contenuta nell’art.1469-sexies c.c., introdotto dalla L. 05.02.1996 n. 52 sulla clausole abusive.

Come osservato in dottrina, “il legislatore della n. 281, in discontinuità con la norma codicistica, coinvolge le Camere di commercio in posizione di terzietà arbitraria, prevedendo che dinanzi alle stesse si svolga la procedura di conciliazione ex art. 3, comma 2, probabilmente più in linea con le funzioni di controllo, promozione e coordinamento nell’interesse generale del sistema delle imprese, che a questi enti vengono attribuite dalle legge n. 580/93 (sul riordinamento camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura). E’ evidente che, a fronte della previsione dell’art. 3, comma 2, sarebbe stato quanto meno contraddittorio, oltre che «spurio» dal punto di vista sistematico, includere le camere di commercio nel novero degli organismi legittimati a promuovere la procedura di conciliazione e l’azione giudiziale. Un ulteriore elemento decisivo ai fini di tale «dietrofront» politico-normativo si ritiene sia stato costituito da quanto inequivocabilmente suggerito proprio dalla prassi applicativa dell’art. 1469-sexies c.c., che ha segnalato la marginalità del ricorso allo strumento inibitorio da parte delle camere di commercio[69].

 

 

9. La Legge n. 281/1998 ed i diritti fondamentali dei consumatori

E’ stato felicemente osservato che “la legge generale sui diritti dei consumatori e degli utenti approvata il 2 luglio 1998 costituisce l’atteso «bill of rights» dei consumatori nell’ordinamento italiano[70], ovvero, secondo altra espressione, “una sorta di tavola costituzionale dei diritti del consumatore, corrispondente a quell’elenco che già nel lontano 1975 la Comunità aveva inserito nella Risoluzione del Consiglio 14 aprile 1975, la quale, in seno al «Programma preliminare della CEE per una politica di protezione ed informazione del consumatore», scolpiva, per la prima volta, alcuni dei c.d. diritti fondamentali del consumatore, quali il diritto alla protezione della salute e della sicurezza, alla tutela degli interessi economici, al risarcimento dei danni, all’informazione e all’educazione, alla rappresentanza[71].

E la matrice comunitaria della normativa interna sui consumatori è senz’altro fondamentale[72]; anzi, si può ben affermare che la promozione della tutela dei consumatori all’interno del nostro Paese è quasi esclusivamente il frutto di una politica comunitaria che alla effettività di quella tutela ha attribuito una importanza prioritaria, di un recepimento, sia pure non tempestivo, di trattati e direttive che ha dato ormai luogo ad un impianto normativo assai imponente e complesso.

In relazione a tale complessità è stata avvertita l’esigenza di creare un testo unico sulla tutela del consumatore, esigenza questa che ha interferito sul lungo ed accidentato iter legislativo di approvazione del testo della legge in esame.[73]

Non può che essere, dunque, nel giusto chi afferma che “fu l’Europa il traino decisivo, ed anzi primario, per l’introduzione, anche da noi, di moderne normative in materia di qualità, sicurezza, pubblicità, responsabilità dell’impresa”.[74]

La legge n. 281 del 1998 si compone di appena otto articoli ed articola la tutela del consumatore su diversi livelli: “il livello definitorio della nozione di consumatore e di associazioni di consumatori, il livello codificatorio dei diritti fondamentali dei consumatori, il livello istituzionale riguardante il ruolo delle associazioni in giudizio e nell’attività istituzionale, il livello rappresentativo degli interessi dei consumatori ottenuto sia attraverso la registrazione e la legittimazione ad agire delle associazioni, sia attraverso la rappresentanza di secondo grado mediante la previsione di agevolazioni e finanziamenti alle organizzazioni dei consumatori”.[75]

In relazione alle finalità del presente lavoro è interessante soffermarsi sull’art. 1 della citata L. n. 281/1998, che riconosce ai consumatori alcuni diritti, definiti come “fondamentali”,[76] e, segnatamente, il diritto “alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi”, il diritto “ad un’adeguata informazione e ad una corretta pubblicità”, il diritto “alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi” e il diritto “all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità ed efficienza”.

I diritti sopra enunciati sono quelli che sembrano meglio prestarsi ad un esame volto a verificare se esista un rapporto tra la tutela dei consumatori predisposta dalla legge in esame e la disciplina della concorrenza sleale ed, ancora, se tale legge possa ritenersi rivolta alla protezione degli interessi dei consumatori nell’ambito del diritto della concorrenza.

A tale quesito alcuni autori hanno risposto affermativamente, ritenendo che la legittimazione delle associazione dei consumatori, prevista dall’art. 3 della legge in esame, ad agire in giudizio per la tutela dei diritti enunciati dall’art. 1 costituirebbe “la seconda, ancor più profonda ed anzi «simbolica» incrinatura[77] alla visione tradizionale della disciplina della concorrenza sleale.

E’ stato, in particolare, rilevato che la L. n. 281/1998 “attribuisce a qualificate associazioni di consumatori il potere di adire la giustizia per la repressione di atti contrari agli interessi di consumatori e utenti (art. 3). Ora, è lapalissiano, molti atti di concorrenza sleale sono lesivi anche (……) degli interessi dei consumatori: ricordo, per tutti, i comportamenti confusori e ingannatori. E’ dunque oggi anche positivamente corretto affermare che la originaria preclusione all’allargamento della legittimazione ad agire alle associazioni dei consumatori – confermata dalla Corte Costituzionale nel 1982 sulla base di una lettura (ultra) tradizionale (e asistematica: proprio rispetto ai principi della costituzione economica) – della disciplina repressiva della concorrenza sleale, possa oggi considerarsi superata alla luce appunto della legge 281/998. E che pertanto, anche sul versante soggettivo (cioè appunto della legittimazione), la repressione della concorrenza sleale sia indotta a servire non più esclusivamente gli interessi «dei concorrenti», bensì tuteli questi ultimi in una prospettiva di necessario rispetto di tutti gli interessi protetti dalla costituzione economica e riferibili, come rilevato, vuoi alla “altrui libertà di concorrenza”, vuoi alla corretta informazione (nel senso più ampio) del pubblico dei consumatori[78].

Si ritiene, dunque, che la legge n. 281 del 1998 costituisca quell’auspicato intervento diretto a far entrare dalla porta del legislatore ciò che la dottrina e una parte minoritaria della giurisprudenza avevano tentato di far entrare dalla finestra con una sentenza additiva della Corte Costituzionale.

A tale questione si tenterà di dare una risposta, verificando se può ritenersi aderente al dato normativo esistente la tendenza diretta ad ampliare l’ambito della repressione della concorrenza sleale e a superare i limiti soggettivi tradizionalmente stabiliti.

 

 

10. Sui rapporti fra la tutela del consumatore e la tutela della concorrenza sleale e sulla sussistenza di una legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori per la repressione della concorrenza sleale

E’ certamente innegabile che il consumatore ha un ruolo rilevante nel mercato.

Come rilevato dalla dottrina, “la tutela dei consumatori non è (solo) politica sociale. E’, anche, un preminente strumento di governo della concorrenza e di sollecitazione della competitività. Irrobustendo le tutele dei diritti dei consumatori e delle sue associazioni, l’operatore economico più efficiente riesce a marginalizzare quello meno scrupoloso, destinato altrimenti a sopraffarlo”.[79]

Il consumatore, quindi, rappresenta un punto di riferimento del mercato dal quale ormai non è possibile discostarsi o prescindere.

Ma un siffatta rilevanza è divenuta tale in relazione agli interventi normativi sopra ricordati che hanno creato uno status di consumatore ed hanno attribuito al consumatore stesso diritti e prerogative nei confronti dell’imprenditore.

Tale nuova prospettiva ben si coglie prendendo in esame gli artt. 1 e 3 della L. n. 281 del 1998.

Rimane, però, il dubbio se tale tutela si spinga fino al punto di investire il consumatore singolo o le associazioni dei consumatori della legittimazione giuridica a dolersi dei comportamenti concorrenziali sleali e di far ritenere che la normativa sulla concorrenza sleale tuteli oggi in via diretta ed immediata anche i consumatori.

E’ indubbia la mancanza nel citato comma 2 dell’art. 1 della L. n. 281/1998 di un esplicito riferimento al diritto del consumatore ad una concorrenza corretta e leale.

Tuttavia, tra i diritti riconosciuti ai consumatori, è annoverato il diritto ad una corretta pubblicità che è correlato, strettamente, al diritto ad un adeguata informazione. Ed ancora sono riconosciuti i diritti alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali, nonché alla erogazione di servizi secondo criteri che assicurino standard di qualità ed efficienza.

Si potrebbe argomentare che tali diritti sono diretti a sanzionare comportamenti confusori o ingannatori e che, quindi, si rivolgono a favore del consumatore collegandosi in qualche misura con gli atti ed i comportamenti previsti dall’art. 2598 c.c.

Siffatta conclusione, tuttavia, non sembra corretta e, comunque, potrebbe essere considerata come semplicistica e non idonea a dimostrare l’avvenuto superamento della concezione tradizionale della natura professionale della disciplina della concorrenza sleale. Il fatto in sé di censurare nell’interesse dei consumatori determinati atti non può condurre in via immediata ad affermare che la portata dell’art. 2598 c.c. è stata ormai modificata ed ampliata, atteso che, in questo modo, si rischia di accostare fattispecie diverse per il solo fatto che i comportamenti, ad esse riconducibili, hanno più o meno le stesse caratteristiche e, nello specifico, sono ingannatori e confusori.

Anche l’affermazione secondo la quale molti atti di concorrenza sleale sono lesivi anche degli interessi dei consumatori si limita a cogliere sul piano empirico un aspetto, quello della plurioffensività di taluni comportamenti. Nulla, invece, dimostra in ordine all’avvenuto ampliamento sul piano soggettivo della normativa codicistica sulla repressione della concorrenza sleale. E ciò perché, come già autorevolmente affermato in passato proprio con riferimento ai rapporti fra la tutela del consumatore e la tutela dell’interesse dell’imprenditore, “lo studio strutturale del diritto che potremmo dire genericamente dell’economia (……) deve integrarsi con uno studio che direi funzionale, volto appunto ad esaminare le finalità, eventualmente diverse, perseguite da una normativa, che pur può presentare strutturalmente gli stessi caratteri. Pianificazione o intervento da un lato, libertà d’iniziativa dall’altro, possono in realtà perseguire, nonostante la loro diversità, la stessa finalità, ma possono anche perseguirsi, nelle varie ipotesi, nonostante la ricorrenza ad istituti strutturalmente identici, finalità tra loro apposte…… .[80]

Già tale fenomeno è stato esaminato con riferimento alla pubblicità ingannevole ed alla relativa specifica normativa introdotta con il D.Lgs. 25.01.1992 n. 74.

Dalla pubblicità, infatti, cui, peraltro, l’art. 1, comma 2, lett. c) della L. n. 281/1998, fa esplicito riferimento, possono sorgere interessi disgiunti che in taluni casi possono coincidere, ma che non necessariamente si sovrappongono.

La lesione dell’interesse del consumatore non necessariamente deve avere refluenze che investono il profilo della slealtà, essendo questo solo eventuale.

L’azione, dunque, del consumatore singolo e della associazione dei consumatori non può che essere volta a censurare la sola ingannevolezza del messaggio e non anche le sue conseguenze sleali.

Non può, ancora, essere trascurata la possibile natura ricognitiva dei diritti enunciati dalla L. n. 281 del 1998 ed il loro collegamento con quelli tutelati dall’art. 2 Cost., di cui i primi costituirebbero l’espressione e la concretizzazione.

Il riconoscimento dei diritti dei consumatori potrebbe cogliersi e spiegarsi con la esigenza di tutelare la persona umana anche all’interno del mercato e di garantire “la libertà positiva dell’individuo di farsi persona e, specularmente, di considerare i diritti fondamentali del consumatore come diritti sociali, ossia come le strutture normative destinate a realizzare condizioni di legalità pure necessarie ad assicurare il primato della dignità umana[81], nonché di attribuire il giusto risalto agli interessi collettivi nella disciplina dell’attività economica.

Aver creato uno status[82], una categoria dei consumatori e aver riconosciuto prerogative e diritti per tutelare la sua dignità non sembra, dunque, che possa condurre tout-court ad affermare che la concorrenza sleale e le sue regole siano dirette a tutelare interessi diversi da quelli dei concorrenti.

Tuttavia, non può neanche essere trascurato che il complesso delle norme che tutelano i consumatori vanno inevitabilmente ad incidere sui comportamenti degli imprenditori concorrenti. Si tratterebbe, però, di un intervento che proviene dall’esterno e non dall’interno, di un’azione posta in essere da parte di soggetti estranei a quelli considerati in via immediata e diretta dalle norme codicistiche sull’illecito concorrenziale, di un intervento che ha finalità diverse anche se in parte eventualmente coincidenti con quelle dell’imprenditore concorrente leso da atti di concorrenza sleale.



*  Dipartimento di Diritto dell’Economia e dell’Ambiente, Università degli studi di Palermo.

[1] Ghidini, Profili evolutivi del diritto industriale, Proprietà intellettuale e concorrenza, Milano, 2001, 188.

[2] Auteri, La concorrenza sleale, in Tratt. dir. priv. dir. da Rescigno, XVIII, Torino, 1983, 347; Ascarelli, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1954, 927.

[3] Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano 1960, 26 s., 201 s.; v., pure, Jaeger, I soggetti della concorrenza sleale, in Riv. dir. ind., I, 1971, 186, che prende in esame, sia pure in modo critico, gli argomenti invocati a sostegno della tesi che richiede in via necessaria la qualifica di imprenditore nei soggetti degli atti di concorrenza sleale e perviene alla conclusione che, invece, si debba fare riferimento agli “operatori economici”; Auteri, op. loc. cit.

[4] Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, cit., 197; nello stesso senso, Casanova, Le imprese commerciali, Torino, 1955, 599. Secondo l’A. gli imprenditori non possono esigere “presidi maggiori o diversi da quelli offerti a tutti i cittadini dalle regole di diritto comune”. Tale considerazione è, poi, ripresa da Auteri, op. loc. cit., il quale attribuisce alla stessa un “grandissimo peso”.

 

[5] Così Ascarelli, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, cit., 933 ss.

[6] L’espressione è di Ascarelli, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, cit., 932.

[7] Ravà, Diritto industriale, Torino, 1973, 147; Vanzetti, La repressione della pubblicità menzognera, in Riv. dir. civ. 1964, I, 584 ss., 593, nota 20; Sena, La repressione penale della concorrenza sleale. Premesse di diritto industriale, in Riv. dir. ind., 1965, I, 173 ss.; Guglielminetti, Violazione di norme di diritto industriale e concorrenza sleale, in Riv. dir. comm., 1965, I, 274.

[8] Auteri, La concorrenza sleale, cit., 348.

[9] Jaeger, I soggetti della concorrenza sleale, cit., 171, 101 ss.

[10] Jaeger, Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, in Riv. dir. ind. 1970, I, 101 ss.

[11] Ascarelli, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, cit., 927. Per una ricostruzione dell’orientamento tradizionale: Ghidini, La concorrenza sleale, in Giur. sist. dir. civ. e comm. fondata da Bigiavi, Torino 1982, 3 ss.

[12] Ascarelli, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, cit., 935 e la nota 129.

[13] Così Schlesinger-Vanzetti, Aspetti privatistici delle cosiddette «vendite a premio», in Riv. dir. ind., I, 1966, 175.

[14] Ghidini, Monopolio e concorrenza, in Enc. Dir., XXVI, Milano, 1976, 803; più ampiamente, dello stesso A., Lealtà della concorrenza e costituzione economica, Padova, 1974, 79 ss.

[15] In tal senso Minervini, Concorrenza e consorzi, Milano 1965, 8; Auletta-Mangini, Della disciplina della concorrenza e dei consorzi, in Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Libro V, Del Lavoro (artt.2584-2601), Bologna-Roma, 1973, sub art. 2595, 123.

[16] Ghidini, Monopolio e concorrenza, cit., 809.

[17] Santagata, Le nuove prospettive della disciplina della concorrenza sleale, in Riv. dir. comm., 1971, 141 ss.; Id, Concorrenza sleale e interessi protetti, Napoli, 1974; Ghidini, Monopolio e concorrenza, cit., 786 ss.; Id., Slealtà della concorrenza e costituzione economica, Padova, 1978, 79-130; Libertini, Azioni e sanzioni sulla disciplina della concorrenza, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia dir. da Galgano, IV, Padova 1981, 237-270; Auletta, Delle invenzioni industriali, dei modelli di utilità e dei disegni ornamentali, della concorrenza, in Commentario al Codice civile a cura di Scialoja e Branca, Libro V, Del Lavoro (artt. 2584-2601), Bologna, 1973, 137-187; Jaeger, Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, cit., 145 ss., seppure nell’articolo successivo, I soggetti della concorrenza sleale, cit., precisa che “le conclusioni raggiunte nel precedente saggio, in merito alla riconosciuta rilevanza nella disciplina di interessi collettivi facenti capo ai «consumatori» ed alla «universalità» dei consociati, non possono essere utilizzate apriosticamente per sostenere l’esistenza di una legittimazione ad esercitare le azioni di concorrenza sleale in capo a soggetti appartenenti a queste categorie, ed estranei al rapporto concorrenziale”, prendendo così le distanze da quanto sostenuto dal Santagata con riferimento alla attribuzione ai singoli consumatori della legittimazione ad agire per concorrenza sleale.

[18] Ricorda tale matrice tedesca e svizzera, Jaeger, Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, cit., 46 ss. e le note 96, 97, 98, 107, nelle quali riporta gli autori e la giurisprudenza, nonché i riferimenti legislativi riguardanti il coinvolgimento diretto dei consumatori nell’ambito della disciplina della concorrenza.

[19] Santagata, Le nuove prospettive della disciplina della concorrenza sleale, cit., 142.

[20] Santagata, op. ult. cit., 146 ss.

[21] Santagata, op. ult. cit., 209-210, che così osserva: “la norma dell’art. 2598 cod. civ. non corrisponde a quella dell’art. 10 bis della Convenzione che ha indubbiamente una portata più vasta e comprensiva …….”.

[22] R. Franceschelli, Sulla legittimazione ad agire in concorrenza sleale delle associazioni professionali e dei consorzi e sulla pretesa giustificazione dei principi della correttezza professionale con l’art. 41 della Costituzione e la protezione dei consumatori, in Riv. dir. ind. 1983, II, 29 ss. Si tratta, come anche ricordato dall’illustre A., di Trib. Milano, 22.03.1976, in Foro it., Rep. 1978, voce Concorrenza (disciplina), n. 167; Trib. Milano 22.03.1976, id., Rep. 1978, voce cit., n. 169; Trib. Milano, 29.04.1974, in Giur. dir. ind., 1974, 643; Trib. Milano, 26.11.1973, in Foro it., Rep. 1975, voce cit., n. 53.

[23] Trib. Roma, 18.01.1982, in Riv. dir. ind. 1983, II, 29 ss.

[24] In motivazione, Trib. Roma, 18.01.982, cit., 37-38

[25] Così R. Franceschelli, Concorrenza, II) Concorrenza sleale, in Enc. giur. Treccani, VII, Roma, 1988, 21 ss.

[26] Ghidini, Della concorrenza sleale – artt. 2598-2601, in Commentario al codice civile diretto da Schlesinger, Milano, 1991, 464 s., che osservava come “il sistema della legittimazione ad agire per concorrenza sleale è tutt’ora improntato al principio della «esclusività» (professionale). Tutte le evoluzioni registratesi negli orientamenti giurisprudenziali si sono collocate all’interno, per così dire, dell’esclusivo riferimento a un’area di interessi latu sensu imprenditoriali”. Già prima e nello stesso senso, Id., Introduzione allo studio della pubblicità commerciale, Milano, 1968, nel quale riteneva che, in mancanza di una modifica normativa inerente al sistema della legittimazione ad agire, sarebbe stato “platonico” il vantaggio che era possibile ottenere con l’affermarsi dell’orientamento più sensibile alla tutela degli interessi generali.

[27] Si tratta della tesi del Santagata, Le nuove prospettive della disciplina della concorrenza sleale, cit., 141 ss.

[28] Jaeger, I soggetti della concorrenza sleale, cit., 171-174, che alle nota 8 riporta il seguente esempio pratico sul rapporto tra le due nozioni di legittimazione ed interesse: “si pensi all’impossibilità per i creditori della società di impugnare una deliberazione assembleare annullabile che li danneggi, dato che la legittimazione attiva è riservata ai «soci assenti e dissenzienti», agli amministratori ed ai sindaci (art. 2377, secondo comma cod. civ.)”. Secondo l’A. solo de iure condendo le prospettive per riconoscere la legittimazione ad agire dei consumatori sarebbero diverse e conclude che “chiunque non sottovaluti la rilevanza latu sensu pubblicistica della problematica della concorrenza, non può accontentarsi di una disciplina che condizioni la tutela di interessi generali dei consumatori e della collettività dei consociati alla (eventuale) iniziativa di un imprenditore concorrente del soggetto agente dei comportamenti concorrenziali illeciti e dannosi”.

[29] E’ stato a seguito della caduta del regime fascista e della soppressione, ad opera del D.L. 23.11.1944 n. 369, del sistema corporativo che si pone in dottrina e in giurisprudenza il problema se l’art. 2601 c.c. fosse rimasto o meno in vigore. La dottrina e la giurisprudenza prevalente hanno dato risposta affermativa. In tal senso si veda Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, cit., 263 – 264; Ghiron, La concorrenza e i consorzi, in Trattato di diritto civile italiano diretto da Vassalli, Torino, 1954, 67 ss.; Jaeger, Sulla legittimazione delle «associazioni professionali» ad agire per concorrenza sleale (art. 2601 c.c.), in Problemi attuali di diritto industriali, Milano 1977; R. Franceschelli, Sulla legittimazione ad agire in concorrenza sleale della associazioni professionali e dei consorzi e sulla pretesa giustificazione dei principi della correttezza professionale con l’art. 41 della Costituzione e la protezione dei consumatori, in Riv. dir. ind., 1983, II, 29; Floridia, Legittimazione ad agire delle associazioni professionali di categoria e qualificazione di illiceità dell’atto di concorrenza ex art. 2601 c.c., in Mon. trib., 1970, 712 ss.; Libertini, Azioni e sanzioni nella disciplina della concorrenza sleale, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia dir. da Galgano, IV, Padova, 1981, 267; Sanzo, La concorrenza sleale, Padova, 1998, 433-434. Contra Giannantonio Guglielminetti, La concorrenza e i consorzi, Torino, 1970, 211 ss.; Id., Sulla legittimazione ad agire in materia di concorrenza sleale dei consorzi di produttori, in Riv. dir. ind. 1961, II, 321 ss.; Santini, I diritti della personalità nel diritto industriale, Padova, 1959, 117. In giurisprudenza, fra le tante che ritengono che la norma sia ancora in vigore, Cass. 29.08.1995, n. 9073, in Riv. dir. ind. 1997, II, 43 ss., con nota di Brock, Sulla legittimazione ad agire ex art. 2601 c.c. Secondo tale pronuncia la norma di cui all’art. 2601 c.c. “è sopravvissuta all’ordinamento corporativo che ne costituisce il presupposto storico, ben potendosi configurare sul piano del diritto positivo un interesse rilevante al fine della tutela da atti di concorrenza sleale. Purché tuttavia si tratti di associazioni rappresentative di un interesse generale, perciò stesso di categoria, quale sia in concreto il grado di rappresentatività raggiunto dalla singola associazione”. Contra, App. Milano, 29.03.1974, in Giur. ann. dir. ind., 1974, 577; Cass. 10.01.1990, n. 1719, in Dir. giur., 1990, 484.

[30] V. Brock, Sulla legittimazione ad agire ex art. 2601 c.c., cit., 47 ss.

[31] Per una sintesi dei diversi orientamenti esistenti su quest’altro aspetto, Toni, La legittimazione ad agire delle associazioni di categoria per la repressione della concorrenza sleale, in Riv. dir. ind., 1997, II, 387 ss.; Ghidini, Della concorrenza sleale – Art. 2598-2601, cit., 459 ss.

[32] La tutela dell’interesse superindividuale è stata a partire dalla metà degli anni ’70 una delle questioni più dibattute e controverse. In ordine a tale interesse, occorre, però, fare alcune precisazioni, considerato che non è possibile accostare, neanche sul piano terminologico, l’interesse collettivo e l’interesse diffuso o utilizzare, come sembrano fare taluni, indifferentemente tali due espressioni. Come anche recentemente puntualizzato da Punzi, La tutela giudiziale degli interessi diffusi e degli interessi collettivi, in Riv. dir. proc., 2002, 64 ss., “esistono nella realtà sociale interessi che, in un primo stadio della loro vita sarebbero «adespoti», cioè privi ed anzi alla ricerca di un qualche portatore e tali interessi potrebbero dirsi «diffusi» sino a quando non l’abbiano trovato. Solo allorquando riescono a trovare un loro portatore, tali interessi entrano nel secondo stadio e possono assurgere al rango di «interessi collettivi». Ma tali interessi trovano un portatore in quanto costui è espressione di un gruppo. Solo l’interesse diffuso è, quindi, «adespota» e non è qualificato necessariamente sulla base di requisiti di appartenenza ad un gruppo, anche se solo nel gruppo si può individuare. L’interesse collettivo, invece riguarda sempre gruppi organizzati, ai quali normalmente il legislatore annette rilevanza: ad esempio un’associazione, un sindacato, un partito o un ordine professionale. Ma anche l’interesse diffuso, pur se non si individualizza con l’appartenenza ad un gruppo e se alla ricerca di un portatore, per la sua stessa connotazione di diffuso, compete ad una pluralità di soggetti”. Alla luce delle considerazioni sopra riportate, l’interesse di cui all’art. 2601 c.c., in quanto relativo ad organizzazioni cui la stessa norma attribuisce rilevanza, non dovrebbe qualificarsi come “diffuso”, ma “collettivo”.

L’interesse dei consumatori, che l’indirizzo dottrinale minoritario, favorevole ad un ampliamento dell’ambito di tutela dell’art. 2598 c.c., riteneva rilevante, in quanto non si riconnetteva, sul piano del diritto positivo allora esistente, ad un gruppo cui il legislatore attribuiva rilevanza, doveva, invece, qualificarsi come interesse diffuso. In ordine alla distinzione fra interesse diffuso ed interesse collettivo e nel senso indicato da Punzi, cfr. Vocino, Sui cosiddetti interessi diffusi, in Studi in memoria di Salvatore Satta, II, Padova, 1982, 1879 ss., M.S. Giannini, Diritto amministrativo, I, Milano, 1990; Alpa, Interessi diffusi, in Digesto delle discipline privatistiche, IX, Torino, 1993, 610. Sugli interessi collettivi e diffusi, con specifico riferimento ai consumatori, v. Ruffolo, Interessi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, I, Milano 1985, 10 e ss., con ampie note di richiami.

[33] Così Cass. 20.12.1996, n. 11404, in Giust. civ., 1997, I, 1851.

[34] Fra i sostenitori della illegittimità costituzionale dell’art. 2601 c.c., Ghidini, Slealtà della concorrenza e costituzione economica, Padova, 1978, 200-201; Floridia, Correttezza e responsabilità dell’impresa, Milano, 1982, 298 s.

[35] Ghidini, La concorrenza e i consorzi, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia dir. da Galgano, Padova, 1981, IV, 146.

[36] in Giur. ann. dir. ind., 1980, 204, e in Giur. cost. 1982, II, 74, con nota di Spolidoro, Costituzione e limitazioni soggettive della legittimazione ad agire per concorrenza sleale.

[37] Corte Cost., Ordinanza, 21.01.1988, n. 59, in Foro it., I, 1988, c. 2158 ss., con nota di Cosentino, L’art. 2601 c.c. e la tutela dei consumatori al vaglio della Corte Costituzionale.

[38] Cosentino, op. cit., c. 2160 ss.

[39] Ruffolo, Interessi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, cit., 99, sub nota 41.

[40] Cfr. Cosentino, op. cit.,, c. 2161, che così osserva: “I benefici che derivano da un mercato concorrenziale (…) riguardano l’intero sistema economico, prima ancora ed oltre che i consumatori. La concorrenza – che in teoria, anche se attuata in forme leali, rappresenta comunque un danno per i singoli imprenditori – è voluta e protetta dall’ordinamento non solo a garanzia dell’iniziativa economica individuale, ma per il bene dell'intero gruppo sociale (...). L’atto di concorrenza sleale, oltre a turbare un delicato sistema economico, basato principalmente sui rapporti di mercato, si risolve in effetti in una perdita di risorse ……. Anche se la legittimazione degli enti di categoria e delle associazioni favorisce l’attività di repressione della concorrenza sleale da parte degli imprenditori, permettendo l’aggregazione delle domande (…) con riduzione e divisione tra tutti gli aderenti all’organizzazione dei «costi amministrativi» dell’azione giudiziale (…) il meccanismo potrebbe non funzionare …”. Rinvia espressamente a tali considerazioni, Ghidini, Della concorrenza sleale artt. 2598-2601, cit., 469, il quale, peraltro, osserva come la Corte non si sarebbe preoccupata di collegare il principio di parità di trattamento di cui all’art. 3 Cost. con quello dell’art. 41, comma 2, Cost. al fine di verificare la legittimità della norma sospettata di incostituzionalità.

[41] Così R. Franceschelli, Concorrenza II) Concorrenza sleale, cit., 24-25, il quale ritiene che la questione della tutela degli interessi dei consumatori e della loro legittimazione ad intervenire nelle vicende concorrenziali esprime una visione politica del problema. Secondo l’A. non è possibile neanche utilizzare l’art. 41, comma 2, Cost. atteso che tale norma mancherebbe di diretta precettività e che prima della sua applicazione occorrerebbe colmare le riserve di legge in essa contenute.

[42] G.B. Ferri, In tema di tutela del consumatore, in Tecniche giuridiche e sviluppo della persona a cura di N. Lipari, Torino, 1974, 288 ss., che, dopo una disamina delle possibili forme di tutela esistenti, così conclude: “Certamente la ricostruzione di questa prospettiva di tutela apparirà lacunosa e frammentaria (noi stessi del resto non ci nascondiamo le perplessità che proviamo nel proporla) perché non nasce dall’esame critico di una normativa unitaria che, in qualche modo, affronti omogeneamente il problema”.

[43] Jaeger, Pubblicità e « principio di verità», in Riv. dir. ind., 1971, I, 359; Auteri, La concorrenza sleale, cit., 348.

[44] Ghidini, Della concorrenza sleale, cit., 465–466, che si dichiara contrario ad una interpretazione evolutiva della normativa esistente.

[45] SAntagata, Le nuove prospettive della concorrenza sleale, cit., 141; nello stesso senso, Ruffolo, Interessi collettivi o diffusi e tutela del consumatore, cit., 37, il quale così osserva: “Il tema degli interessi diffusi, e quello degli interessi collettivi, vedono in Italia carente la normativa specifica, ma assai aperto il sistema (soprattutto quello costituzionale) e quindi il sentiero della interpretazione sistematica evolutiva. Tale opera appare d’essenziale importanza in un contesto dominato da quel ruolo « di supplenza» del giudice che il vuoto normativo ha finora imposto”; Libertini, Lezioni di diritto industriale, II, Concorrenza sleale, Catania, 1979, 64.

[46] R. Franceschelli, Concorrenza II) Concorrenza sleale, cit., 23 – 24.

[47] Così Ascarelli, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, cit., 935 – 936, sub nota 129.

[48] Così Gambino, La tutela del consumatore nel diritto della concorrenza: evoluzioni ed involuzioni legislative, anche alla luce del d.lgs. 25 gennaio 1992 in materia di pubblicità ingannevole, in Contratto e Impresa, 1992, 421.

[49] Ruffolo, op. cit., 106.

[50] Già, in tal senso, Schlesinger-Vanzetti, op. cit., 175 – 176, i quali ritengono che alla nuova tendenza verso un’evoluzione pubblicistica della concorrenza sleale ed all’assunzione in essa, come criterio di illiceità dell’atto di concorrenza, degli interessi dei consumatori “si riferisce una delle più interessanti discussioni che si conducono in materia, e precisamente quella relativa agli illeciti pubblicitari”.

[51] L’espressione è di Galgano, La democrazia dei consumatori, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1981, 39.

[52] Osserva il Mangini, in AA.VV., Diritto commerciale, Bologna, 1999, 79-80, che tutelare il consumatore “contro le insidie della pubblicità commerciale anche mediante l’impiego delle norme sulla concorrenza sleale poteva considerarsi come dato acquisito, ma non certo del tutto appagante, dal momento che, come s’è visto, al consumatore vittima del mendacio pubblicitario non è consentito, né individualmente né in quanto appartenente ad un’associazione esponenziale, di agire in giudizio”.

[53] Così Cosentino, L’art. 2601 c.c. e la tutela dei consumatori al vaglio della Corte Costituzionale, cit., c. 2159.

[54] Ferri, In tema di tutela del consumatore, cit., 266.

[55] Per una trattazione approfondita dell’impianto sanzionatorio apprestato dal D.L.v. n. 74/1992 ed, in particolare, sulla inibitoria e sull’ordine di pubblicazione si veda Meli, I rimedi per la violazione del divieto di pubblicità ingannevole, in Riv. dir. ind., 2000, I, 5 ss.

[56] Gambino, op. cit., 432 ss.

[57] Bonajuto, in Nuova Rassegna di giurisprudenza sul codice civile, 1998 – 2000 a cura di Ruperto e Sgroi, Milano 2001, sub. art. 2601, 1059 s.

[58] Queste le parole dell’allora Presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Francesco Saja, La Direttiva n. 84/450 del 10 settembre 1984, relativa al ravvicinamento delle discipline in materia di pubblicità ingannevole e il D.lg. di attuazione, 25 Gennaio 1992 n. 74: le funzioni dell’Autorità Garante istituita ex art. 10 della Legge 287/1990, in Quaderni per l’Arbitrato e per i contratti internazionali, Milano, 1992, 121.

[59] Cfr., Meli, La repressione della pubblicità ingannevole, Torino, 1994, 9 ss.; per un esame ricognitivo della legislazione italiana anteriore all’attuazione della direttiva 84/450/CEE, il volume di Alpa, Diritto privato dei consumi, Bologna, 1986; per una sintesi, Alpa–Rossello, L’attuazione della direttiva comunitaria in materia di pubblicità ingannevole (D.lg. 25 gennaio 1992, n. 74), in Quaderni per l’arbitrato e per i contratti internazionali, Milano, 1992, 105 ss.; Fusi-Testa-Cottafavi, La pubblicità ingannevole, Milano, 1993, 33 ss.

[60] Alpa – Rossello, op. cit., 107 ss., che nel primo caso di atti non pregiudizievoli per i consumatori annoverano la pubblicità comparativa che, per la giurisprudenza formatosi prima del D.L.vo n. 67/2000, “non assume rilievo al di fuori dell’effetto del discredito commerciale a danno dei prodotti o servizi sfavoriti dal confronto, e quindi come fattispecie di concorrenza sleale per denigrazione”.

[61] Così Fusi – Testa – Cottafavi, La pubblicità ingannevole, cit., 82, i quali ritengono che l’interesse dei consumatori che viene in rilievo è quello proprio dei soggetti utilizzatori dei beni e dei servizi offerti dalle imprese, per cui escludono “che quelli facenti capo ai consumatori possano considerarsi alla stregua di «interessi di categoria». In tal senso si era già pronunciato Alpa, Considerazioni generali sull’elaborazione di un progetto di legge per la difesa del consumatore anche con riferimento alla tutela degli interessi diffusi, in La pubblicità nell’era informazione, Pavia, s.d., 13 ss.

[62] Meli, op. cit., 11-12, il quale ritiene che sia difficile sostenere che “tale ulteriore profilo sia stato autonomamente preso in considerazione, ed in che termini, dalla disciplina”, e ciò in relazione alla considerazione che gli interessi perseguiti nella definizione degli obiettivi non verrebbero esplicitati.

[63] Meli, op. cit., 13 ss.

[64] Punzi, op. cit., 661 e sub nota 44.

[65] Ghidini, Profili evolutivi del diritto industriale, cit., Milano, 2001, 187. Sulla riforma delle Camere di commercio, sui principi ispiratori della L. n. 580/1993, nonché sui successivi interventi normativi v. Morana, Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura, in Enc. dir., Aggiornamento, VI, Milano, 2002, 211 ss.

[66] Ghidini, op. loc. cit.

[67] Calvi, in Clausole vessatorie e contratto del consumatore a cura di Cesarò, I, Padova, 1998, 684.

[68] Floridia, Concorrenza sleale e Camere di commercio: un ritorno al futuro, in Dir. ind., 1994, 856-857.

[69] Camero-Della Valle, La nuova disciplina dei diritti del consumatore, Milano, 1999, 148 – 149.

[70] Alpa, in I diritti dei consumatori e degli utenti – Un commento alle Leggi 30.07.1998 n. 281 e 24.11.2000 n. 340 e al Decreto Legislativo 23.04.2001 n. 224 a cura di Alpa e Levi, Milano, 2001 sub art. 1, 4.

[71] Camero-Della Valle, La nuova disciplina dei diritti del consumatore, cit, , 56 s.

[72] I numerosi interventi delle istituzioni comunitarie a tutela del consumatore sono ampiamente trattati da Chinè, Il consumatore, in Trattato di diritto privato europeo a cura di Lipari, I, Padova, 2003, 435 ss.

[73] Osserva Alpa, op. ult. cit., 4, che “Il percorso di questo provvedimento è stato accidentato, sia per le forti opposizioni ad esso manifestate dalle categorie economiche, sia per le divisioni interne che hanno contrapposto le associazioni più estese o comunque più forti, alle aggregazioni occasionali o più recenti, sia per il nodo costituito dalla inclusione o meno tra le associazioni dei consumatori delle cooperative di consumo. L’approvazione del testo ha subito quindi rallentamenti, revisioni, ripensamenti che non hanno giovato né alla sua formulazione definitiva, né alla determinazione dei confini dell’intervento. Con questa vicenda – a complicarne il percorso – ha interferito pure la vicenda della redazione di un testo unico sulla tutela del consumatore, di cui la legge generale avrebbe potuto costituire il provvedimento di apertura ……”.

Sul quadro normativo di riferimento concernente i diritti dei consumatori e sulla “svolta” rappresentata dal trattato di Amsterdam sottoscritto nel 1997 e ratificato con L. 16.06.1998, n. 209, cfr. Alpa, La nuova disciplina dei diritti dei consumatori, in Studium iuris, 1998, 1310; v., altresì, Camero – Della Valle, op. cit., 1 ss., che prendono in esame le disposizioni comunitarie in materia che vanno dal Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea, firmato a Roma il 25 marzo 1957 (art. 39) e da quello di Maastricht sull’Unione Europera (artt. 3, lett. s) e 129 A) alle direttive di respiro settoriale.

[74] Ghidini-Cesarini, Consumatore (tutela del), in Enc. dir., Aggiornamento, V, 2001, 265, i quali evidenziano come in Italia “il processo di costruzione normativa fu contrassegnato da un’adesione ai fermenti comunitari assai più lenta rispetto alle generalità degli altri Stati membri” e che “fu solo grazie alla pressione comunitaria che, in seguito, la situazione riuscì ad evolversi”. Gli autori provvedono ad una interessante reductio ad unitatem delle direttive comunitarie e della disciplina di tipo settoriale con esse dettata, utilizzando, con riferimento alla normativa sostanziale, cioè a quelle norme “che conferiscono diritti ai consumatori e/o propongono obblighi e divieti in capo agli imprenditori il criterio delle tre “fasi fondamentali del ciclo persuazione-negoziazione-fruizione (“visto” dal lato del consumatore)”. Nella fase della persuasione all’acquisto vengono indicate, quali normative fondamentali, il D.L.vo 25.01.1992, n. 74 in tema di pubblicità ingannevole, modificato dal D.L.vo 28.02.2000, n. 67 sulla pubblicità comparativa e vengono inserite anche le “varie disposizioni, generali e specifiche, volte ad imporre obblighi di informazione all’etichettatura (labeling) dei prodotti”. Nella fase negoziale, la L. 06.02.1996 n. 52 sulle clausole abusive, il D.L.vo 15.01.1992, n. 50, sui contratti negoziati fuori dai locali commerciali, il D.L.vo 22.05.1999 n. 185 sui contratti a distanza, il D.L.vo 17.03.1995, n. 111, sui contratti relativi ai viaggi, vacanze e circuiti “tutto compreso”, nonché il D.L.vo 01.09.1993, n. 385, in materia bancaria e creditizia con riferimento al credito al consumo. In ordine, infine, alla fase della fruizione dei prodotti, vengono indicati il D.L.vo 17.03.1995 n. 115 sulla sicurezza generale dei prodotti e gli altri testi normativi concernenti la sicurezza in specifici settori, nonché il D.P.R. n. 224 del 1988 in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, modificato dal D.L.vo 02.02.2001, n. 49. Si tratta di una ricostruzione della normativa in materia senz’altro apprezzabile, poiché consente di superare l’elevato grado di frammentarietà e di settorialità che la caratterizza.

[75] Così Alpa, in I diritti dei consumatori e degli utenti, cit., 4.

[76] In ordine alla natura dei diritti previsti dal comma 2 dell’art. 1 della L. n. 281/1998 la dottrina ha evidenziato sin da subito come la qualificazione di “diritti fondamentali” non deve intendersi in senso proprio, cioè come diritti irrinunciabili, inviolabili, come diritti da intendersi alla stregua di quelli costituzionalmente garantiti. In tal senso, Alpa, La nuova disciplina dei diritti dei consumatori, cit., 1315 e 1316 il quale ritiene che l’espressione “diritti fondamentali” deve intendersi “come «diritti essenziali», diritti che non possono essere violati senza adeguata sanzione. Il loro riconoscimento esplicito e compiuto implica che tali disposizioni non possono essere considerate meramente programmatiche”. Certamente taluni diritti rientrano in quelli inviolabili costituzionalmente garantiti, come il diritto alla salute previsto dall’art. 32 Cost. o il diritto all’associazionismo tra consumatori ed utenti previsto dall’art. 18 Cost. Un interessante distinzione è quella operata da Bianco, Brevi considerazioni sui diritti fondamentali dei consumatori e degli utenti, in La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, a cura di Barba, Napoli, 2000, 199 ss., che, sulla base della distinzione fra diritti fondamentali originari e diritti fondamentali derivati, afferma che il catalogo dei diritti previsto dalla legge n. 281/1998 contiene “sia diritti strettamente inviolabili ed immediatamente riferibili alla persona umana; sia diritti fondamentali «di settore»”, diritti, cioè, che sembrano assicurare particolari status o posizioni giuridiche.

[77] Ghidini, Profili evolutivi del diritto industriale – Proprietà intellettuale e concorrenza, cit., 187-188.

[78] Ghidini, op. ult. cit., 188, nello stesso senso e più recentemente, Id, Note sull’evoluzione della disciplina italiana della concorrenza sleale alla luce dei principi antitrust, in Riv. dir. ind., 2002, 426 ss., che così osserva: “….pur faticosamente, e con gravi ritardi e tenaci resistenze (peraltro più sul versante dottrinario che su quello, ben più significativo per cittadini e imprese, della giurisprudenza), si avviò una estesa opera di riqualificazione di fattispecie tipiche (o tipizzate dagli interpreti), espressiva del passaggio da un paradigma di mercato di ispirazione corporativa – originariamente imperniato su una funzione integrativa delle norme a tutela di marchi e brevetti, a difesa ulteriore dell’avviamento commerciale – ad un diverso paradigma, appunto ispirato ad un modello di mercato concorrenziale e «socialmente compatibile». Un’opera che in tempi più recenti è stata ulteriormente accelerata sia dalla emanazione e poi dall’attuazione in ambito nazionale delle Direttive comunitarie sulla pubblicità ingannevole e su quella comparativa, sia dalla nuova legislazione (l. n. 281 del 1998) in tema di tutela consumatori e di legittimazione ad agire delle loro associazioni per inibire atti, anche di concorrenza, contrari agli interessi rappresentati: spezzando così quel pilastro del modello corporativo rappresentato dalla legittimazione «riservata» ai concorrenti e alle associazioni di imprese. Si è così incisivamente modificato il quadro dei principi e dei criteri che guidano l’interpretazione e l’applicazione della disciplina, «scacciando», dalla nozione normativa di «correttezza professionale» - paradigma generale della qualificazione – molti dei precedenti indirizzi protezionistici e corporativi, per far posto ad altri, espressivi de su ricordati nuovi principi-guida della nuova costituzione economica: e da qui mutando profondamente, direi rivoluzionando, la fisionomia, anzi: la stessa morfologia delle fattispecie, lecite ed illecite, nelle quali la disciplina si atteggia”.

[79] Così Gentili, Sull’accesso alla giustizia dei consumatori, in Contratto e impresa, 2000, 691; in tal senso si veda, anche, Jannarelli, La disciplina dell’atto e dell’attività: i contratti tra imprese e tra i consumatori, in Lipari, (a cura di), Diritto privato europeo, II, Padova, 1997, 521 ss.

 

[80] Ascarelli, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, cit., 935 -936

[81] Barba, Consumo e sviluppo della persona, in La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti a cura di Barba, cit., 428 ss.

[82] Sulla nozione di status di consumatore v. Chinè, Il consumatore, cit., 467 ss., il quale precisa che si tratta di status in funzione sociale e protettiva e, quindi, diverso dagli status tradizionali c.d. legittimanti o privilegianti. Secondo l’A. “lo status ha perduto il tradizionale rilievo di condizione privilegiata (…) per riassumere la condizione del singolo rispetto ad un filone normativo avente natura promozionale e tuzioristica, il cui scopo ultimo sia quello di operare una netta distinzione di trattamento giuridico nel panorama generale dei rapporti interprivati. Ma ciò non per creare un’area di privilegio, bensì (da qui la connotazione positiva della nozione) per rafforzare una posizione di debolezza sostanziale foriera di conseguenze negative sia per la sfera giuridico-patrimoniale dell’individuo, sia per l’intero sistema economico”.

 

 

 

data di pubblicazione: 21 ottobre 2003