Rivista di diritto dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente, 2003/1
Concorrenza sleale e tutela del consumatore
Sommario: 1. Premessa – 2. La tutela indiretta dei consumatori e
la dottrina tradizionale – 3. Gli orientamenti innovativi e i rilievi sui
rapporti tra iniziativa economica e utilità sociale ex art. 41 Cost. – 4. La questione di costituzionalità dell’art.
2601 c.c. e la sua manifesta inammissibilità – 5. Segue: il successivo
dibattito dottrinale – 6. L’opportunità di un intervento legislativo in materia
– 7. Il Decreto Legislativo n. 74 del 1992 sulla pubblicità ingannevole – 8. La
Legge n. 580/1993 di riforma dell’ordinamento delle Camere di Commercio – 9. La
Legge n. 281/1998 e i diritti fondamentali dei consumatori – 10. Sui rapporti
fra tutela del consumatore e la tutela della concorrenza sleale e sulla
sussistenza o meno di una legittimazione ad agire delle associazioni dei
consumatori per la repressione della concorrenza sleale.
1.
Premessa
Il rapporto esistente fra concorrenza
sleale e tutela dei consumatori si è sempre presentato come estremamente
complesso, investendo il tema della individuazione e definizione dei
presupposti e degli obiettivi che con l’una e l’altra disciplina si intendono
perseguire.
Invero, già in passato si era posto il
problema se anche i consumatori potessero considerarsi soggettivamente
legittimati ad intervenire a fronte di illeciti di carattere concorrenziale e
se la disciplina della concorrenza tutelasse anche gli interessi dei
consumatori.
Sia in dottrina che in giurisprudenza
si continuava, tuttavia, ad affermare prevalentemente che l’interesse dei
consumatori costituiva soltanto un metro di valutazione al fine di stabilire se
un atto concorrenziale dovesse ritenersi più o meno sleale. Si sosteneva,
quindi, che ai consumatori veniva offerta solo una tutela indiretta e mediata
dei loro interessi.
E’ noto il crescente e progressivo
interesse, anche sul piano normativo, per i consumatori e la loro importanza
allo scopo di assicurare un grado elevato e qualificato di concorrenza.
Molteplici sono stati, da più di un
decennio circa, gli interventi normativi sui consumatori e sulla tutela dei
loro interessi.
Ed in relazione alle predette recenti
disposizioni legislative, è stato affermato che: “anche sul versante soggettivo (cioè appunto della legittimazione), la repressione
della concorrenza sleale sia indotta a servire non più esclusivamente gli
interessi «dei concorrenti», bensì tuteli questi ultimi in una prospettiva di
necessario rispetto di tutti gli interessi protetti dalla costituzione economica,
e riferibili, come rilevato, vuoi alla “altrui libertà di concorrenza”, vuoi alla
corretta informazione (nel senso più ampio) del pubblico dei consumatori”[1].
Al di là della autorevole affermazione
di principio sopra riportata, si ritiene opportuno prendere specificatamente in
esame il rilievo che possono avere gli interessi dei consumatori nell’ambito
della normativa nazionale sulla tutela della concorrenza. Si tratta di una
prospettiva per la quale occorre procedere con la massima cautela per evitare
di trarre affrettate conclusioni, e ciò anche in considerazione
dell’inevitabile ampliamento dei c.d. interessi in giuoco.
Punto di partenza di tale indagine
saranno, pertanto, gli orientamenti che sul piano dottrinale e
giurisprudenziale negavano od affermavano, specie in passato, la possibilità di
ritenere la repressione della concorrenza sleale come strumento diretto a
tutelare interessi generali e non solo di categoria.
2. La
tutela indiretta dei consumatori e la dottrina tradizionale
Anzitutto, sembra più aderente alla
lettera dell’art. 2598 c.c. affermare che sia l’autore dell’illecito
concorrenziale, sia il soggetto danneggiato devono appartenere alla medesima
categoria di imprenditori concorrenti e che la repressione della concorrenza
sleale è diretta a tutelare gli interessi individuali dei concorrenti.
Del resto la norma sopra indicata
menziona più volte il “concorrente”,
indicando nel n. 3 l’idoneità “a
danneggiare l’altrui azienda” e riferendosi non alla correttezza tout-court, ma alla “correttezza professionale”. Parametro
questo che “presuppone che soggetto
attivo e soggetto passivo appartengano alla stessa categoria professionale”[2].
Dalla parte della soluzione prevalente
in dottrina ed in giurisprudenza, ossia che la concorrenza sleale opera sul
piano dei rapporti interprivatistici tra imprenditori concorrenti, militano,
oltre all’argomentazione di tipo esegetico sopra indicata, anche considerazioni
di carattere storico per essere la disciplina sulla concorrenza sorta con la
finalità di regolamentare i conflitti fra imprenditori[3].
Infine, si rileva che “non si saprebbe davvero ravvisare la
giustificazione di una tutela privilegiata dell’imprenditore nei confronti di
tutti i consociati, mentre una tutela dell’imprenditore nei confronti degli
altri imprenditori perde il carattere di privilegio data la stessa reciprocità
della tutela”[4].
Seguendo tale impostazione, dunque, la
disciplina della concorrenza “attiene ai
rapporti tra imprenditori e concerne atti compiuti nell’esercizio di una impresa
e considerati in funzione del loro contrasto con un’altrui attività imprenditrice;
i limiti posti alla concorrenza nella normativa di determinati contratti o
convenzionalmente vengono a loro volta sanciti a carico o a favore di imprenditori
e hanno come contenuto l’obbligo di non svolgere determinate attività economiche
o di non svolgerle se non con determinate modalità fissate ad esclusione di
altre. Perciò la disciplina della concorrenza si coordina con quella
dell’imprenditore e dell’attività di questo, che anzi mi sembra che, proprio
sul terreno della disciplina della concorrenza (…), la nozione generale
dell’imprenditore (…) trova la sua rilevanza”[5].
Per i consumatori, dunque, non vi
sarebbe spazio. Vengono considerati soltanto “quale strumento per determinare le iniziative preferibili”[6].
I loro interessi verrebbero protetti in modo indiretto e mediato, o, secondo
altra espressione, la tutela loro accordata sarebbe “secondaria e riflessa”[7],
tant’è che la legittimazione ad agire in concorrenza sleale sarebbe stata
riconosciuta ai soli imprenditori concorrenti[8].
Viene così sottolineato “il diverso piano su cui giocano, agli
effetti della disciplina stessa, gli interessi dei concorrenti, oggetto di
considerazione immediata, nella loro tipica relazione di conflitto, da parte del
legislatore e dell’interprete, e quelli collettivi, difesi in via mediata
attraverso la prevalenza assicurata nella valutazione comparativa
dell’interesse diretto del concorrente che meglio assicuri la realizzazione”
[9].
Per meglio comprendere in che cosa
consista tale tutela indiretta e mediata, è stato chiaramente affermato che gli
interessi dei consumatori assumono il ruolo di “parametri di valutazione degli interessi degli imprenditori in
conflitto, nel senso che il giudice dovrà, tra le posizioni in contrasto,
assegnare la prevalenza a quella che riterrà più conforme (o se si preferisce,
meno difforme) dal vantaggio collettivo o dell’utilità sociale. Il giudizio,
quindi, ha ad oggetto un tipico rapporto di strumentalità tra interessi;
conclusione, questa, che conferma l’esattezza secondo cui gli interessi
collettivi non sono tutelati in maniera immediata, ma solo attraverso la
diretta difesa di interessi propri del singolo o di singoli concorrenti”[10].
Quand’anche un atto di concorrenza
sleale pregiudicasse i consumatori, la tutela inibitoria di cui agli artt. 2598
e ss. c.c. non troverebbe applicazione.
L’unico rimedio, sempre che ne
sussistono i presupposti, sarebbe la tutela aquiliana di cui all’art. 2043 c.c.
Sembra perciò che fuori dall’ambito dei
rapporti fra concorrenti “tornano a vigere
i principi generali dell’art. 2043, valevoli per tutti i consociati”[11].
3. Gli orientamenti innovativi e i rilievi sui rapporti tra iniziativa economica
e utilità sociale ex art. 41 Cost.
L’autorevole sostenitore della tesi
sopra illustrata ammette, tuttavia, che “un
dialogo fondamentale nella disciplina dell’attività imprenditrice mi sembra quello
tra la tutela di un interesse che in via generale potremmo dire dell’astratto
consumatore (o se si preferisce, della massa dei consumatori) e la tutela di un
interesse che potremmo dire privilegiato dell’imprenditore ……” [12].
Ed è, forse, nel solco di tale
prospettiva, che taluni autori iniziarono a sostenere, sulla base di una
lettura in chiave pubblicistica dell’art. 2598 c.c., che gli interessi dei
consumatori avrebbero dovuto ritenersi non più interessi strumentali, ma
interessi che ricevono tutela immediata e diretta.
Già a partire dalla seconda metà degli
anni ’60 si riteneva come “ormai affermata”
la “tendenza della legislazione e
dell’interpretazione in materia di disciplina della concorrenza sleale, verso
un’evoluzione pubblicistica che si manifesta con l’assumere a criterio
dell’illiceità dell’atto concorrenziale la violazione degli interessi del
consumatore o di quelli dello sviluppo economico generale. Si tratta della
tendenza di cui è stato in Italia fra i più autorevoli assertori l’Ascarelli,
ma che ormai può ritenersi universalmente accettata, e che sul piano
legislativo si manifesta soprattutto attraverso la concessione della legittimazione
ad agire per concorrenza sleale ad associazioni di imprenditori e di consumatori
E’ chiaro che in questa luce la repressione della concorrenza sleale viene a
trascendere il quadro di una mera tutela degli interessi di singoli imprenditori
concorrenti, evolvendosi a strumento per la tutela di interessi generali” [13].
Quanto sopra riportato lascia
perplessi.
Anzitutto, perché l’inversione di
tendenza, cui si fa riferimento, era nella seconda metà degli anni ’60, ma
anche successivamente, tutt’altro che “universalmente
accettata”.
Neanche sul piano normativo era
possibile individuare disposizioni che attribuivano alle associazioni dei
consumatori la legittimazione ad agire per la repressione della concorrenza
sleale.
Era, invece, senz’altro vero che una
parte minoritaria della dottrina iniziava ad orientarsi verso una lettura
costituzionalmente orientata delle norme codicistiche sulla repressione della
concorrenza sleale.
Si faceva leva in particolare sull’art.
41, comma 2, Cost., per il quale l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità
sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità
umana”, norma questa che “esprime una
chiarissima indicazione funzionale (……) sotto il profilo della coerenza
dell’esercizio dell’iniziativa economica con interessi «sociali» riconosciuti
come possibilmente confliggenti con quelli imprenditoriali e, in vista di tale
possibilità, ad essa sovraordinati”[14]
e che ha sostituito un nuovo parametro a quello degli “interessi dell’economia nazionale” di cui all’art. 2595 c.c.[15]
Muovendo dal presupposto che “nell’ambito di una necessaria considerazione
sistematica dell’ordinamento giuridico, l’esercizio dell’autonomia e i comportamenti
«dei privati» non possono essere valutati in completo scollamento rispetto alle
direttive fondamentali tracciate dall’ordinamento in materia di rapporti
economici”[16], nonché
dalla considerazione che il parametro costituzionale della “utilità sociale” sarebbe espressione di
interessi non imprenditoriali, si perveniva da parte di taluni ad un indirizzo,
certamente innovatore[17],
per il quale l’ambito della concorrenza sleale ricomprenderebbe non solo i
contrapposti interessi degli imprenditori concorrenti, ma anche quelli dei
consumatori.
Gli imprenditori concorrenti non
sarebbero l’unico punto di riferimento della tutela concorrenziale; anche ad
altri interessi, come quelli dei consumatori e della collettività, occorrerebbe
riconoscere altrettanta rilevanza perché contribuirebbero ad uno svolgimento
corretto della concorrenza.
Tale nuovo indirizzo iniziava ad
affermarsi anche sulla scorta delle tendenze dottrinali e giurisprudenziali
tedesche e svizzere che già negli anni ’60 e ’70, riconoscendo alla disciplina
della concorrenza una portata sociale e non individualistica, avevano affermato
che la tutela della lealtà della concorrenza comprendeva gli interessi di tutti
i soggetti del mercato.[18]
Oltre a prendere come punto di
riferimento l’art. 41, comma 2, Cost. ed il parametro della utilità sociale, il
nuovo orientamento dottrinale poneva, altresì, la sua attenzione sul paragrafo
contraddistinto con il n. 3, aggiunto all’art. 10 bis della Convenzione di Unione nella Conferenza di Lisbona del 31
ottobre 1958.
Con tale nuova ipotesi si avrebbe una “consapevole apertura verso una nuova
dimensione della disciplina della concorrenza sleale”[19],
in quanto non implicherebbe, contrariamente alle prime due ipotesi di
concorrenza sleale previste dalla stessa norma, “un diretto ed immediato riferimento ad imprenditori concorrenti:
risulta per converso in primo piano una situazione conflittuale che si svolge
ad un diverso livello e, cioè, tra imprenditore ed il pubblico al quale le
merci sono destinate. Va infatti sottolineato che, per integrare la fattispecie
dell’illecito, è condizione necessaria e sufficiente l’idoneità delle «indications ou allégations» a trarre in inganno il pubblico: deve
dedursene che l’interesse preso direttamente in considerazione agli effetti
della «protection effective contre la concurrence déloyale», è esclusivamente quello della collettività,
cioè di tutti quei soggetti con i quali, a tutti i livelli, potrebbe
instaurarsi un contratto nella fase di offerta delle merci”[20].
Si passava, poi, da parte dello stesso
Autore ad un raffronto tra gli artt. 2598 c.c. e 10 bis della Convenzione per sottolinearne le differenze e per affermare
la piena applicabilità della norma convenzionale e, segnatamente, di quella di
cui al n. 3, che sarebbe posta a tutela degli interessi dei consumatori[21].
Le tesi sopra illustrate, secondo cui
la disciplina della concorrenza sarebbe stata posta anche a tutela degli
interessi dei consumatori, trovavano eco, sia pure in modo piuttosto contenuto,
nella giurisprudenza di merito.
Alcune pronunce, infatti, come
osservato criticamente dalla dottrina tradizionale, iniziavano ad “inserirsi in quel movimento letterario
giurisprudenziale che, rompendo quasi ogni collegamento con le origini della
norma di cui all’art. 2598 n. 3 c.c., si era messo a ricercare la giustificazione
di tale norma nell’art. 41 della nostra Costituzione”[22].
In particolare, tali sentenze
enunciavano il principio secondo il quale l’art. 41 Cost. rileverebbe nella
interpretazione dell’art. 2958 n. 3 c.c., riempendo di contenuto concreto il
dovere di correttezza professionale.
Altra pronuncia[23],
successiva a quelle del Tribunale di Milano, enunciava anch’essa il principio
che “nell’individuazione dei principi
della « correttezza professionale» di cui all’art. 2598 n. 3, la cui violazione
rende «sleale» l’atto di concorrenza e nella ricostruzione del significato
della clausola generale (di cui sono l’espressione), non è possibile
prescindere dall’art. 41, 2° comma della Costituzione il quale dispone che
l’iniziativa economica privata non può svolgersi « in contrasto con l’utilità
sociale»”.
In ordine alle critiche riguardanti la
immediata precettività dell’art. 41 Cost., l’anzidetta decisione osservava che
esse “non hanno, a ben vedere, ragion
d’essere posto che, dal punto di vista del loro contenuto normativo, nessuna
differenza sostanziale sussiste tra le disposizioni costituzionali che enunciano
principi generali già in atto e quelle che pongono principi generali puramente
programmatici, il cui contenuto è destinato ad essere sviluppato dal legislatore
ordinario con l’emanazione di apposite norme. I c.d. principi programmatici
hanno pertanto anch’essi piena efficacia e, come tali, ben possono essere
utilizzati dall’interprete per chiarire ed integrare il significato delle norme
subordinate regolanti la materia cui essi si riferiscono ……”[24].
4. La questione di costituzionalità dell’art. 2601 c.c. e la sua manifesta inammissibilità
Alcuni autori, sostenitori della nuova
tendenza diretta ad ampliare l’ambito della concorrenza sleale fino a
ricomprendervi gli interessi dei consumatori, tendenza che divenne “ben presto prevalente tra le giovani
generazioni di giuristi”[25], si posero subito il seguente
interrogativo: “ma come si configura
allora, sul piano positivo, il problema dell’apertura della legittimazione
all’azione di concorrenza sleale ai portatori di interessi (in sintesi)
extra-imprenditoriali coinvolti nelle lotte di concorrenza?” [26].
La dottrina più attenta, infatti, si
accorse agevolmente delle molteplici difficoltà, in relazione allo stato della
legislazione esistente, a riconoscere sul piano processuale la legittimazione
dei consumatori ad agire in giudizio per rimuovere un atto di concorrenza
lesivo dei loro interessi.
Veniva, infatti, acutamente osservato,
che la tesi di taluni,[27]
che avevano ampliato la legittimazione ad agire per concorrenza sleale in
stretta correlazione alla rilevanza diretta ed immediata attribuita agli
interessi dei consumatori, “per quanto
suggestiva …… manca però in pratica di ogni dimostrazione, giacché il Santagata
non può attribuire ad essa altra base normativa che quella rappresentata
dall’art. 100 cod. proc. civ. (……). Ma questo richiamo appare non conclusivo, e
neppure pertinente. Malgrado non siano pacifici, nella dottrina
processualistica, i caratteri distintivi tra interesse e legittimazione ad
agire, è peraltro, certo che tale distinzione deve essere tenuta ben ferma,
soprattutto ai fini pratici. In altre parole, il criterio dell’art. 100 può
incidere su una situazione giuridica in cui un soggetto appaia strettamente
legittimato a proporre una determinata azione, che tuttavia gli viene negata
perché si rileva la mancanza, in esso, del necessario interesse «concreto», in
relazione al provvedimento demandato al giudice; ma non può servire ad
attribuire tale legittimazione a chi già non la possiede.”[28].
Il mero interesse del consumatore,
dunque, non sarebbe sufficiente per attribuire allo stesso la legittimazione ad
agire, occorrendo dimostrare preliminarmente che l’ordinamento abbia
riconosciuto anche a chi non sia imprenditore tale legittimazione.
Ed è proprio in considerazione della
difficoltà di riconoscere ai consumatori la legittimazione ad agire per
concorrenza sleale e della ulteriore difficoltà di attribuire a tale
legittimazione una base normativa più o meno solida, che il dibattito si sposta
sull’art. 2601, la cui norma, sopravvissuta alle soppressione dell’ordinamento
corporativo con il quale era nata[29],
consente alle associazioni professionali e agli enti che rappresentano la
categoria di agire in giudizio per la repressione di quegli atti di concorrenza
sleale che siano lesivi degli interessi “di
una categoria professionale”.
Seppure, a tutt’oggi, è controverso
l’ambito di operatività della norma[30]
ed il titolo della legittimazione [31],
id est se le associazioni agiscono o
meno iure proprio, la ratio sottesa alla norma stessa è quella di riconoscere tutela
ad interessi superindividuali[32]
in relazione agli atti di concorrenza sleale.
Come precisato dalla giurisprudenza,
per la speciale legittimazione ad agire di cui all’art. 2601 c.c. occorre che
sussista “un interesse ulteriore
differenziato rispetto a quello che legittima a denunciare il fatto
concorrenziale l’imprenditore aderente”[33].
In considerazione della possibilità
che, per il tramite della norma in esame, vengano tutelati, dunque, interessi
diversi da quelli dei singoli imprenditori, è stata sostenuta dalla dottrina,
sensibile ad attribuire rilevanza agli interessi dei consumatori, la
illegittimità costituzionale dell’art. 2601 c.c. per la mancata previsione in
favore delle associazioni dei consumatori della loro legittimazione ad agire
per concorrenza sleale[34].
La soppressione nell’art. 2601 c.c. del
requisito della “professionalità”,
che determina un inevitabile collegamento con gli interessi di una “categoria” non extraimprenditoriale,
avrebbe consentito, secondo tale orientamento, alle associazioni dei
consumatori di agire in giudizio e di ottenere quella legittimazione che era
priva di supporto normativo.
Si auspicava, dunque, o un intervento
legislativo, ovvero una pronuncia additiva della Consulta, che avrebbe dovuto
rilevare la irragionevole disparità di trattamento con quelle associazioni
portatrici di interessi superindividuali, costituzionalmente rilevanti ai fini
della tutela dei consumatori, essendo anche questa ricompresa nell’ambito della
concorrenza sleale[35].
E la questione di legittimità
costituzionale venne sollevata dal Tribunale di Milano con l’ordinanza del 7
febbraio 1980[36], che
costituisce il portato degli indirizzi innovatori per i quali la disciplina
della repressione della concorrenza sleale sarebbe volta anche alla tutela di
interessi generali.
Dopo una premessa diretta ad illustrare
le ragioni che renderebbero preferibile l’interpretazione sulla legittimazione
delle associazioni ad agire iure proprio
e non come portatori degli interessi individuali dei singoli che fanno parte
della associazione, nonché a sostenere che l’art. 2601 eleverebbe a rango di
diritto soggettivo un interesse collettivo e, cioè, “un interesse diffuso di categoria imprenditoriale contro il pregiudizio
derivante da atti di gestione non conformi alla correttezza professionale
purché tale interesse faccia capo ad un’associazione oppure ad un ente che
rappresenti la categoria”, l’ordinanza passa ad esaminare la configurabilità
o meno di una questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 3
Cost. “per il fatto che la norma in esame
pur avendo reso tutelabile l’interesse collettivo pregiudicato dall’altrui atto
di gestione illecito, non ha esteso tale tutela fino a comprendere in essa
anche l’interesse collettivo di categorie non qualificabili come professionali,
ed in primo luogo della categoria dei consumatori”.
Ebbene la questione veniva ritenuta non
manifestamente infondata per contrasto con l’art. 3, comma 1, della
Costituzione nella parte in cui l’art. 2601 c.c. “a) circoscrive la tutela giurisdizionale ordinaria ai soli atti di
concorrenza sleale che pregiudicano gli interessi di una categoria
professionale anziché di una categoria tout court; b) parallellamente conferisce la legittimazione ad agire alle sole
associazioni professionali anziché alle associazioni tout court”.
Com’è noto, essa veniva decisa con una
pronuncia di manifesta inammissibilità “perché
compete al legislatore apprestare adeguati strumenti di salvaguardia per il
consumatore”[37].
Il Giudice delle leggi riteneva che
l’art. 2601 “si colloca nell’ambito della
disciplina della concorrenza sleale” per cui “non appare neppur ipotizzabile il confronto con enti ed associazioni
che abbiano finalità istituzionali diverse dal potenziamento del commercio di
un determinato prodotto e che fanno quindi valere interessi del tutto estranei
alla correttezza dei rapporti economici di mercato”.
E’ di tutta evidenza che la Corte
Costituzionale ritiene che la normativa sulla concorrenza sleale riguardi i
soli imprenditori concorrenti e non comprenda anche gli interessi dei
consumatori, tant’è che afferma che gli unici strumenti di tutela di tali
interessi sono quelli penali (art. 44 c.p.) e che compete al legislatore
prevedere “e le forme e l’ambito di
azioni specifiche, sul modello di quelle contemplate dalla legislazione tedesca
e svizzera in favore delle associazioni dei consumatori”.
5. Segue: il successivo dibattito dottrinale
All’indomani della pronuncia del
Giudice delle leggi le tendenze ad una maggiore estensione della tutela
concorrenziale, in relazione alle esigenze di protezione del consumatore,
subivano senz’altro una battuta d’arresto.
Non mancava, tuttavia, chi riteneva la
questione di costituzionalità posta “in
maniera alquanto sbrigativa e aproblematica”, anche se, nel contempo,
qualificava come “troppo lapidaria” e
non convincente la conclusione cui i giudici costituzionali erano pervenuti.[38]
Che la questione sarebbe stata mal
posta era già stato messo in luce da quella dottrina[39]
secondo la quale la via interpretativa seguita dal giudice a quo finiva per riconoscere una “subalternità” dei consumatori e dei loro interessi alle associazioni
di categoria degli imprenditori concorrenti, posto che, profilando un
intervento di enti esponenziali non giuridicamente riconosciuti per atti che
avrebbero dovuto essere pregiudizievoli “in
pari tempo e in pari misura, nonché sotto il medesimo profilo di valutazione”
di entrambi gli interessi, non sarebbe stata attribuita giusta rilevanza a
tutti quei casi nei quali a dover essere salvaguardate sono anzitutto le
esigenze dei consumatori e solo in via indiretta quelle della impresa.
L’altro limite veniva individuato
nell’aver ritenuto violato il solo art. 3 Cost., senza aver tolto in esame i
principi desumibili dall’art. 41 Cost. e, soprattutto, cogliere i collegamenti
fra tale norma e gli artt. 2 e 3 Cost.
Oltre alle censure riguardanti la
ordinanza di rimessione, i sostenitori della estensibilità agli interessi dei consumatori
delle norme sulla concorrenza sleale osservavano che la decisione della Corte
Costituzionale e l’affermazione perentoria della insussistenza di una
qualsivoglia interferenza fra la tutela della lealtà della concorrenza e la
tutela dei consumatori sarebbe poco attenta sia alla dimensione pubblicistica e
sociale del fenomeno concorrenziale, privilegiando, dunque, un’ottica di tipo
individualistico della iniziativa economica, sia al rilievo che l’azione dei
consumatori contribuirebbe a rendere più efficace il meccanismo diretto ad
assicurare la repressione degli atti di turbativa e a ripristinare la fair competition [40].
Si rafforzava senz’altro l’orientamento
tradizionale contrario ad un allargamento dell’ambito di applicazione dell’art.
2598 c.c.
Si rilevava, infatti, che “non si possono distorcere le norme sulla
concorrenza sleale, dettate cinquant’anni fa per proteggere reciprocamente gli
imprenditori nel loro competere nel mercato, a coprire un problema del tutto diverso,
e cioè quello della protezione dei consumatori”.[41]
6.
L’opportunità di un intervento legislativo in materia
Un intervento legislativo in materia
era più che opportuno e la tendenza alla estensibilità delle disposizioni
normative sulla concorrenza sleale agli interessi dei consumatori esprimeva
senz’altro uno stato di malessere determinato da una disciplina sulla tutela
dei consumatori piuttosto carente.
A prescindere dalla fondatezza o meno
degli indirizzi dottrinali che, a partire degli anni ’70, ritenevano che al
consumatore doveva essere riconosciuta la legittimazione ad agire a fronte di
illeciti concorrenziali, v’era sicuramente un vuoto normativo da colmare o,
comunque, la necessità che degli idonei strumenti venissero apprestati per
tutelare più efficacemente il consumatore.
La loro tutela non poteva più essere
mediata, indiretta o, comunque, subordinata a quella degli imprenditori
concorrenti e dei loro interessi.
Una siffatta tutela non poteva
ritenersi adeguata ed efficace in quanto diretta a perseguire interessi
appartenenti ad una categoria diversa (quella degli imprenditori) e per nulla
coincidenti, nella maggior parte dei casi, con quelli dei consumatori.
Non può di certo qualificarsi come un
sistema idoneo ed adeguato di difesa quello di tutelare i consumatori solo nelle
limitate ipotesi in cui i loro interessi collimano con le finalità perseguite
dagli imprenditori concorrenti ed, ancora, far dipendere una siffatta
eventualità, già di per sé riduttiva, dalla iniziativa altrui.
A ciò si aggiunga che per tutti gli
altri casi, nei quali gli atti sleali posti in essere dai concorrenti abbiano
refluenze pregiudizievoli nei confronti dei consumatori, ad essi non rimaneva
che la tutela penale e quella prevista dalle norme sulla responsabilità civile.
Sotto un profilo penalistico vengono in
rilievo, infatti, gli artt. 516 e 517 c.p. che sanzionano la messa in vendita o
in commercio come genuine sostanze alimentari che tali non sono, nonché la
messa in vendita o in commercio di “opere
dell’ingegno o prodotti industriali con nomi, marchi o segni distintivi nazionali
od esteri, atti ad indurre in inganno il compratore sull’origine o provenienza
o qualità dell’opera o del prodotto”.
Altre norme del codice penale che
possono ledere gli interessi del consumatore sono quelle degli artt. 440, 441 e
442 sulla adulterazione e contraffazione di sostanze alimentari e di altre cose
in danno della salute e, ancora, le disposizioni di cui agli artt. 443, 444 e
445 sulla messa in commercio di sostanze alimentari contraffatte o adulterate,
di medicinali nocivi e sostanza alimentari anch’esse nocive.
Accanto a tale tutela, che consente di
poter inibire una determinata attività e di evitare che il consumatore subisca
un pregiudizio, l’altra e l’unica che sul piano privatistico poteva essere,
come già detto, utilizzata era quella risarcitoria dell’art. 2043 c.c.
Erano, dunque, configurabili due sole
forme di tutela: una che operava sul piano penale che richiedeva che la
condotta fosse sussumibile nelle fattispecie di reato previste; l'altra che
faceva capo alla applicabilità dei principi e delle norme sull’illecito
aquiliano.
E’ di tutta evidenza che ancorare la
tutela del consumatore allo schema dell’atto illecito costituisce una
prospettiva per nulla soddisfacente.
Anzitutto perché, com’è noto, una protezione
sarebbe possibile solo nella ipotesi in cui un danno realmente e concretamente
si verifichi, mentre una tutela che voglia ritenersi pienamente adeguata e,
soprattutto, effettiva deve anche prevenire il verificarsi del pregiudizio e
consentire, quindi, al consumatore di intervenire anticipatamente per inibire
che gli atti posti in essere dall’imprenditore producano i loro effetti.
Va, ancora, considerato, nel senso
sopra indicato, che v’è una nutrita “serie
di interessi che si pone a monte del fenomeno risarcitorio, anche se a questo,
in un certo senso, collegata. Infatti l’interesse del consumatore, prima ancora
di essere risarcito per il danno subito, è quello che siano predisposte delle misure,
delle forme di contratto perché il danno non si verifichi. E’ l’interesse che i
prodotti siano genuini e non nocivi e che, se pericolosi, siano accompagnati da
adeguate istruzioni per l’uso; è l’interesse che la stessa concorrenza tra produttori
si svolga secondo i principi della lealtà e correttezza; è l’interesse quindi
che la pubblicità non sia menzognera, che con i marchi labels ecc., non si crei quella confusione tra
prodotti che inganni il pubblico; è l’interesse che i prodotti abbiano le
qualità e siano effettivamente composti dagli ingredienti indicati dal
produttore”[42].
La frammentarietà di un siffatto
sistema costituisce un rilievo che accomuna i contrapposti orientamenti sopra
riportati ed unisce, quindi, sia gli autori a favore della tesi della
estensibilità agli interessi dei consumatori delle disposizioni codicistiche
sulla concorrenza sleale, sia la dottrina che, negando un possibile
ampliamento, era per la netta ripartizione fra l’illecito concorrenziale e
l’illecito lesivo degli interessi dei consumatori.
Tutti, ancora, ritenevano non più procastinabile
una disciplina unitaria diretta ad offrire al consumatore non una tutela
indiretta, ma una tutela piena ed immediata, nonché idonea a superare le lacune
esistenti. Per taluni, infatti, occorreva un intervento del legislatore diretto
a riconoscere alle associazioni dei consumatori la necessaria legittimazione ad
agire[43];
per altri, come già detto, lo stesso risultato poteva essere ottenuto, oltre
che per la via normativa, anche con una pronuncia additiva della Corte
Costituzionale[44], ovvero con
un’interpretazione evolutiva delle norme esistenti[45].
Anche i più autorevoli sostenitori
dell’indirizzo tradizionale non si limitavano a censurare i ripieghi sopra
indicati, ovvero ad escludere soltanto la possibilità per le norme
costituzionali e codicistiche di tutelare direttamente gli interessi dei
consumatori.
Invero, sottolineavano che “solo un intervento legislativo potrebbe
mutare la conclusione della dottrina tradizionale” ed, ancora, che “il principio costituzionale dell’art. 41, 2°
co., non ha trovato attuazione (……). Ed è certo che lo si dovrebbe fare e che
attraverso le iniziative comunitarie sopra accennate, lo si farà. Ma con nuove
norme, e non leggendo in quelle esistenti quello che non c’è”[46].
Del resto, già ancor prima e con una
lungimiranza sorprendente, era stato osservato che “la funzione invero di tutela assolta per i consumatori dalla libera
concorrenza dovrà bensì, a volte, essere integrata (……), ma non lo può certo
essere attraverso misure a favore delle stesse imprese. E’ questo aspetto della
tutela del consumatore (con la quale, a mio avviso, poi si coordina anche la tutela
del lavoratore, vuoi perché è poi questi che specialmente subisce l’onere della
mancata tutela dei consumatori, vuoi perché, come osservato, la posizione
privilegiata dell’impresa si tradurrà anche in rafforzamento dell’imprenditore
nei confronti dei lavoratori) che è poi anche tutela del progresso tecnico, che
a me sembra bensì conciliabile vuoi con libera iniziativa, vuoi con interventi
pubblicistici e socializzazioni, potendo tutte queste vie, per quanto diverse,
concorrere in questa finalità, ma pericolosamente sottovalutata dagli
orientamenti che fanno capo all’impresa, come organismo meritevole, come tale,
di peculiare tutela”[47].
V’era, dunque, la consapevolezza della
inidoneità della tutela solo indiretta del consumatore.
Occorreva, infatti, eliminare “l’incongruenza di una disciplina
legislativa, che sanzioni un atto che pregiudica un interesse (quello
dell'imprenditore), nel presupposto che sia avvenuta la lesione di un altro
interesse (quello del consumatore), che però rimane privo di una tutela
pregnante come quella che riceve il primo interesse (dell’imprenditore)[48].
Ma bisognava ancora, con il tanto
auspicato nuovo apporto normativo, far fronte a nuove e diverse esigenze
nascenti dal progresso tecnologico, dal potenziamento del commercio, da un
sistema economico che si era notevolmente evoluto, allontanandosi da quello che
il legislatore degli anni ’40 aveva preso come punto di riferimento.
Alla base, dunque, del predetto
fermento vi era la considerazione che “l’emergere
dei rapporti e contratti sociali di massa, quale fenomeno nuovo e nuovo modo di
atteggiarsi della società civile, che è causa ed effetto al tempo stesso della
produzione in serie e dei consumi di massa, non è compiutamente censibile sulla
base degli istituti, figure ed interpretazioni tradizionali. Emerge la
insufficienza di strumenti propri di momenti in cui quei fenomeni erano socialmente
meno incidenti, o comunque ispirati ad una logica prodotta dalla cultura
giuridica a quei momenti dominante”[49].
I tempi erano ormai maturi per una
risposta in termini di piena ed adeguata tutela del consumatore a seguito dei
cambiamenti delle condizioni di mercato, della sua espansione, dell’attuazione
di nuovi metodi di fabbricazione e di vendita, dello sviluppo dei mezzi di
comunicazione, dell’aumento della produzione, dell’offerta e della vendita di
beni e servizi nuovi e correlati all’ampliamento dei bisogni di una società in
crescita.
La rilevata anacronistica incongruenza
di tutelare i consumatori solo in via mediata od indiretta costituisce
l’effetto di un equilibrio fra imprenditori e consumatori che si era ormai
modificato, e ciò per la sopra accennata evoluzione del mercato, la crescita
economica e la più veloce circolazione dei beni e dei servizi.
7. Il
Decreto Legislativo n. 74 del 1992 sulla pubblicità ingannevole
Non è un caso che le considerazioni
sulla necessità di tutelare il consumatore e di colmare il vuoto normativo
esistente muovevano da alcuni casi di illeciti pubblicitari o da esempi
riferiti quasi sempre al contenuto menzognero dei messaggi pubblicitari[50].
E’, infatti, con riferimento alla
pubblicità ingannevole che diventano più evidenti le incongruenze di una
disciplina che non consentiva ai consumatori di poter intervenire, che li
rilegava al ruolo di “sudditi”[51],
lasciando che altri, aventi lo status
di “cittadini”, assumessero per loro
l’opportuna iniziativa giudiziaria[52].
E’ sufficiente a tal fine riportare uno
degli esempi prospettati dalla dottrina per dimostrare che, contrariamente a
quanto ritenuto dalla Consulta con l’ordinanza del 21.01.1988 n. 59, sopra
indicata, il consumatore non sarebbe affatto estraneo alla correttezza dei
rapporti economici di mercato.
E’ stato così considerato “il caso - tipico - di pubblicità non
veritiera intorno a caratteristiche e proprietà di prodotti che non ammettono
diversificazioni sul piano della qualità, dove allora nessun imprenditore
avrebbe incentivo a reagire contro le false informazioni immesse nel mercato,
in quanto anch’egli ne trae vantaggio”[53].
Al di là degli esempi e dei casi
esposti dalla dottrina, non v’è dubbio che la comunicazione ingannevole incide
maggiormente sui consumatori per il forte impatto che ha su di loro e sul
processo di scelta che compiono, tant’è che con riferimento agli interessi
propri del consumatore ed alla possibilità che essi venissero pregiudicati si
faceva menzione, ancor prima dell’introduzione di una specifica ed organica
disciplina in materia, alla pubblicità “che
tende sempre meno a esaltare o informare sulle qualità del prodotto e sempre
più ad indurre all’acquisto, agendo su elementi irrazionali o emotivi”[54].
Ebbene, la ormai rilevata
improcrastinabile necessità di tutelare il consumatore unitamente alla mancanza
di una disciplina organica della materia, essendo stati previsti sia dalla
legislazione d’anteguerra, sia da quella successiva, solo divieti specifici,
concernenti taluni settori merceologici, ha determinato la emanazione del
D.L.vo 25.01.1992 n. 74 sulla pubblicità ingannevole (modificato dal D.L.vo
25.02.2000 n. 67 riguardante le condizioni di liceità della pubblicità
comparativa), che ha recepito la Direttiva n. 84/450/CEE.
Tale decreto, come espressamente
enunciato all’art. 1, comma 1, è diretto a tutelare “dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali: i soggetti
che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale,
i consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di
messaggi pubblicitari”.
Con la norma testè riportata, dunque, i
consumatori vengono posti accanto agli imprenditori e si fanno rientrare, con
pari dignità, nel novero dei soggetti che l'ordinamento si propone di tutelare.
Viene, poi, riconosciuta agli stessi la legittimazione ad agire al fine di
ottenere dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato la più efficace
delle misure sanzionatorie: inibire gli atti di pubblicità ingannevole o la
loro continuazione, nonché ottenere la eliminazione degli effetti.
Il rimedio di carattere risarcitorio,
che presuppone la sussistenza e la dimostrazione del danno e del nesso causale
con la diffusione del messaggio secondo le norme del codice civile (artt. 2043,
1337 e 1428 c.c.), non è il solo. Alla stessa stregua degli atti di concorrenza
sleale, v’è un’anticipazione della soglia di tutela per impedire che l’evento
si verifichi e che maturino e si consolidino le intuibili conseguenze lesive.
L’art. 7 del Decreto Legislativo,
infatti, concede ai “concorrenti, ai consumatori,
alle loro associazioni ed organizzazioni” la legittimazione a ricorrere
all’Autorità affinché sia inibita la pubblicità che “in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o
possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o
che possa raggiungere e che, a causa del suo carattere ingannatorio, possa
pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo,
leda o possa ledere un concorrente” (art. 2, comma 1, lett. b) del D.L.vo n. 74/1992)[55].
Quel che interessa a questo punto è
stabilire se, come è stato recentemente affermato, l’attuazione della Direttiva
84/450/CEE con il D.L.vo n. 74 del 1992 determina un mutamento di prospettiva.
Afferma la dottrina in proposito che
con la normativa sulla pubblicità ingannevole si aprirebbe “una profonda breccia, assai suggestiva agli
occhi di quanti hanno più volte ricercato, invano, un indispensabile
bilanciamento di interessi tra categorie non imprenditoriali all’interno della
disciplina della concorrenza sleale”.[56]
Nello stesso senso, si sostiene che “i primi segnali di erosione di questa rigorosa
concezione della concorrenza e della sua disciplina ristretta ai rapporti tra
imprenditori commerciali, sono venuti dalle direttive comunitarie e, in particolare,
dalle leggi che ne hanno perseguito l’attuazione: prima tra esse, il d.lg. 25
gennaio 1997 n. 74 in tema di pubblicità ingannevole (…) che all’art. 7 ha
riconosciuto – nella salvezza della competenza giurisdizionale del giudice ordinario
in tema di azione ex art. 2598 – al consumatore uti singulus ed all’ente esponenziale un potere di
iniziativa e di controllo giurisdizionale (sebbene di pertinenza del giudice
amministrativo)”.[57]
Anche se sulla questione si ritornerà
più avanti, giova rilevare sin da ora che le affermazioni di principio sopra
riportate vanno senz’altro attentamente e rigorosamente verificate
dall’interprete.
Già i primi commentatori delle
disposizioni normative in esame non erano molto propensi ad accedere a tale
nuova e diversa prospettiva.
Anzi, si sottolineava da parte di
taluni che “sarebbe un errore considerare
la pubblicità ingannevole nell’ambito strutturale e funzionale della
concorrenza sleale, come sarebbe erroneo considerarla a protezione del solo
consumatore. La disciplina della pubblicità ingannevole ha una sua propria
autonomia giuridica, diretta a creare chiarezza e trasparenza nei rapporti
commerciali e professionali, senza richiedere la necessaria qualifica
imprenditoriale delle due parti, che prima della nuova normativa era
indispensabile, nonché gli altri requisiti prescritti dall’art. 2598 cod. civ.”[58].
E’ indubbio che sussistano rapporti fra
il fenomeno della pubblicità ingannevole e la concorrenza, come, peraltro,
enunciato dal secondo “Considerando” della direttiva 84/450/CEE, che così
afferma: “la pubblicità ingannevole può
condurre ad una distorsione della concorrenza all’interno del mercato comune”.
E’ ovvio, infatti, che “Se la pubblicità
opera quale mezzo di orientamento della domanda essa è idonea ad influenzare le
condizioni generali di mercato”[59].
Ma, come costantemente rilevato dalla
dottrina, “vi sono atti o attività di per
sé non dannosi per i consumatori, che possono risultare tali se riferiti invece
ai rapporti concorrenziali tra imprenditori. Vi sono atti o attività dannosi
per i consumatori che non risultano tali nella disciplina della concorrenza
come accade per la pubblicità superlativa”[60].
La pubblicità denigratoria avente ad
oggetto affermazioni vere non costituisce un’ipotesi lesiva degli interessi dei
consumatori; anzi, è tale da offrire loro quelle informazioni idonee a
determinare le proprie scelte di acquisto in modo consapevole e sulla base
delle reali caratteristiche dei prodotti.
Allo stesso risultato conduce
presumibilmente la pubblicità comparativa.
Alla luce di tali considerazioni sembra
possibile affermare che la tutela diretta del consumatore e la legittimazione
riconosciuta in capo allo stesso ed alle associazioni dei consumatori non
implica necessariamente un ampliamento sul piano soggettivo della disciplina
della concorrenza sleale, né conduce a ritenere superata la tradizionale
impostazione corporativistica.
Non sempre il consumatore ha interesse
a reagire nei confronti di ogni forma di comunicazione pubblicitaria scorretta.
Solo per quelle comunicazioni che siano tali da indurlo in errore e da alterare
la sua libertà di scelta egli può denunciare i fatti all’Autorità Garante della
concorrenza e del mercato.
Vi possono così essere delle situazioni
che, per la plurioffensività della condotta posta in essere dell’operatore
pubblicitario, consentono a più soggetti, appartenenti a categorie diverse, di
agire in giudizio.
Ma una siffatta coincidenza non sembra
che possa determinare una commistione di interessi e non giustificherebbe
l’affermazione secondo la quale con il decreto in esame la c.d. esclusività
corporativa della concorrenza sleale si sia incrinata.
Non va, poi, trascurato che, secondo
una certa impostazione, l’interesse dei consumatori a non essere ingannati
dalla comunicazione pubblicitaria “altro
non è se non un particolare aspetto di ciò che un tempo si definiva la «fiducia
commerciale», ricollegabile alla più vasta nozione di «fede pubblica», che già
trovava e trova riconoscimento in diverse norme del nostro ordinamento, fra cui
quelle dell’art. 18 lett. e) della Legge Marchi e degli artt. 515 e 517 del Codice
Penale”[61].
La tutela della c.d. fede pubblica
riguarderebbe, detto più chiaramente, “quell’interesse
generale – in quanto non personalizzato in capo a soggetti determinati o a
categorie di soggetti – che secondo la nota definizione rocchiana si indirizza
al mantenimento della fiducia del pubblico in determinati oggetti o simboli,
sulla cui genuinità o autenticità deve potersi fare assegnamento al fine di
rendere certo e sollecito lo svolgimento del traffico economico e/o giuridico”[62].
La legittimazione ad agire dei
consumatori non avrebbe, dunque, alcuna refluenza sulla disciplina della
concorrenza sleale, atteso che gli interessi tutelati sarebbero diversi e solo
in via mediata si ripercuoterebbero sul mercato.
Anzi, secondo una parte della dottrina,
i soggetti portatori di interessi tutelati dal decreto ed indicati dall’art. 1,
comma 1, non potrebbero considerarsi su un piano di parità, poiché “obiettivo primario” sarebbe la tutela
del consumatore, mentre “la tutela degli
interessi ulteriori rispetto a quello dei consumatori assume sì qualche rilievo
autonomo, ma ciò avviene …… solamente sul piano della legittimazione a
ricorrere, non su quello dei presupposti della tutela. L’assenza di un profilo di
potenziale lesione dei consumatori impedisce di azionare la tutela, dove, al
contrario, la sua presenza lo consente, indipendentemente dall’esistenza di un
potenziale pregiudizio ad altri interessi. La relazione tra lesione di tali
altri interessi e lesione di quello dei consumatori, è, pertanto, eventuale”[63].
I concorrenti potrebbero, dunque, agire
in giudizio solo nelle ipotesi in cui l’avvenuta lesione degli interessi dei
consumatori determini per loro conseguenze sleali.
Un capovolgimento della impostazione
tradizionale, che, tuttavia, solo in via eventuale tocca la disciplina della
concorrenza sleale e, comunque, non inciderebbe su di essa.
A ciò occorre, anche, aggiungere, come
costantemente affermato in dottrina, che, se è vero che il decreto sopra citato
ha attribuito uno specifico strumento di protezione alle associazioni dei
consumatori, è altrettanto incontestabile che “questa legittimazione è diffusa ed amplissima e l’organo competente non
è un giudice ordinario, ma l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato,
istituita con legge 10 ottobre 1990 n. 287” e che “non sembra modificato in alcun modo l’ambito di applicabilità
dell’art. 2601 c.c.”[64].
8. La
Legge n. 580/1993 di riforma dell’ordinamento delle Camere di Commercio
Secondo altri Autori la prima “robusta incrinatura” all’orientamento
tradizionale sulla natura individuale e “professionale”
della disciplina concorrenziale si avrebbe, invece, con la L. 29.12.1993, n.
580, di riforma dell’ordinamento delle Camere di Commercio.[65]
Con tale normativa si modificherebbe il
loro ruolo di rappresentanti delle categorie professionali e la loro azione
potrebbe essere anche volta a “far cessare
atti di concorrenza lesivi degli interessi generali di mercato”.[66]
E’ opportuno, anche in tale ipotesi,
prendere specificamente in esame le disposizioni della predetta legge che
riguardano i consumatori e che consentirebbero di affermare quanto
autorevolmente sostenuto dalla dottrina.
L’art. 2 della citata L. n. 580/1993
nel prevedere i compiti svolti dalla Camera di Commercio stabilisce, anzitutto,
al comma 1, che queste esercitano funzioni “di
supporto e di promozione degli interessi generali delle imprese nonché
.……funzioni nelle materie amministrative ed economiche relative al sistema
delle imprese”.
Nel successivo comma 4 dello stesso
art. 2 vengono previste, in termini di possibilità, la promozione di
commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione di controversie che
insorgano anche fra le imprese e i consumatori o utenti, la predisposizione e
promozione di “contratti-tipo tra
imprese, loro associazioni e associazioni di tutela degli interessi dei
consumatori e degli utenti”, nonché la promozione di “forme di controllo sulla presenza di clausole inique inserite nei
contratti”.
Infine, il successivo comma 5 del
citato art. 2 stabilisce la possibilità per le Camere di Commercio di “promuovere l’azione per la repressione della
concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2601 del codice civile”.
Occorre, anzitutto, sottolineare, sulla
base delle disposizioni sopra considerate. che la funzione principali delle
Camere di Commercio rimane quella legata agli interessi delle imprese con
riferimento alle quali esercitano un importante ruolo di supporto e di
promozione.
Le altre attribuzioni previste
dall’art. 2, commi 4 e 5, e che riguardano i consumatori, sembra che possano
essere svolte solo in via eventuale, per cui non sarebbe peregrina
l’affermazione che si tratti di una mera facoltà il cui esercizio è rimesso
all’apprezzamento delle Camere di Commercio o delle loro associazioni.
In tal senso depone l’uso, nella
formulazione della norma in esame, del verbo “possono”, che precede l’elencazione di cui alle lett. a), b) e c) del comma 4.
Sempre in termini di possibilità viene
previsto l’esperimento dell’azione di repressione della concorrenza sleale.
Alla luce di tali considerazioni non si
ritiene che con la legge in esame la concorrenza sleale assuma contorni più
ampi e ricomprenda anche gli interessi dei consumatori.
Sembra, infatti, che il ruolo
principale delle Camere di Commercio rimanga quello enunciato dall’art. 2,
comma 1, della legge di riforma e, segnatamente, quello di supporto e di
promozione degli interessi generali delle imprese. In relazione a tale funzione
ben si comprende la possibilità per esse di esercitare l’azione di cui all’art.
2601 c.c., essendo questa volta a tutelare gli interessi superindividuali di
una intera categoria imprenditoriale.
Né, dall’altra parte, si potrebbe fare
leva sulla composizione delle Camere di Commercio per argomentare che l’azione
ex art. 2601 c.c. non sarebbe più riservata alla difesa di interessi
imprenditoriali.
L’art. 10, comma 6, della L. n.
580/1993 prevede che del consiglio fanno parte, in rappresentanza delle
associazioni di tutela degli interessi dei consumatori, solo due componenti
designati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative nell’ambito della
circoscrizione territoriale di competenza.
Ebbene la partecipazione a tale
organismo delle associazioni dei consumatori è più che minoritaria, certamente
non significativa, considerato che la quasi totalità del consiglio è composta
dai rappresentanti dei diversi settori nei quali le imprese operano (si ponga
mente che, su un numero di 20 consiglieri nel caso in cui le imprese iscritte
non superino le 40.000 unità, solo due consiglieri rappresentano i
consumatori).
Tale esiguo numero di consiglieri non
sembra che possa giustificare il superamento della concezione tradizionale
della disciplina concorrenziale.
Infine, gli altri compiti, elencati dal
citato art. 2, comma 4, e concernenti la predisposizione di contratti–tipo tra
le imprese e i consumatori ed il controllo sulla presenza di clausole abusive,
non inciderebbero sul fenomeno della concorrenza sleale se non in via mediata o
indiretta.
Peraltro, come osservato in dottrina,
le Camere di Commercio “difficilmente
sembrano potersi atteggiare efficacemente al descritto ruolo di raccordo tra le
imprese – alle quali appartengo, nella normalità dei casi, i «professionisti»
utilizzatori delle clausole abusive – e i «consumatori» (……), ergendosi, allo
stesso tempo, a tutela dei consumatori, ponendosi così, in antitesi alla figura
dell’imprenditore professionista”.[67]
Peraltro, fra gli stessi autori che
avevano da sempre sostenuto la necessità di ampliare l’ambito degli interessi
suscettibili di protezione da parte della disciplina concorrenziale, venivano
da subito sollevate perplessità sulla reale portata innovativa della L. n.
580/1983, ponendo il seguente quesito: “……se
e come le Camere di Commercio eserciteranno tale potestà e se la eserciteranno
per tutelare gli interessi degli antagonisti contro gli abusi imprenditoriali,
appare per tutelare gli interessi produttivistici della categoria contro
comportamenti concorrenziali dei singoli imprenditori che siano scorretti in
quanto devianti rispetto agli obiettivi produttivistici della categoria”[68].
Essendo necessario verificare, poi, in
una prospettiva di carattere pragmatico, l’impatto del nuovo modello nella
realtà giuridica, occorre rilevare che a tutt’oggi nessuna pronuncia v’è stata
su azioni promosse dalla Camera di Commercio per la repressione della
concorrenza sleale.
Nessun interesse della categoria
imprenditoriale è stato protetto esperendo l’azione di cui all’art. 2601 c.c.;
quanto precede rende ancor più improbabile che una siffatta azione possa essere
utilizzata per la difesa degli interessi dei consumatori.
Una conferma, sia pure successiva, di
quanto sin qui esposto potrebbe essere costituita dalla norma di cui all’art. 3
della L. n. 281/1998.
Sulla base di tale norma le Camere di
commercio, infatti, assumono un indubbio ruolo di terzietà, che è senz’altro
inconciliabile con quello di soggetti che possono esperire l’azione inibitoria
a tutela degli interessi dei consumatori nel quadro della concorrenza sleale.
Esse, invero, non rientrano più, ai
sensi del citato art. 3 comma 1, della L. n. 281/1998, nel novero dei soggetti
legittimati ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori a
differenza della previsione contenuta nell’art.1469-sexies c.c., introdotto dalla L. 05.02.1996 n. 52 sulla clausole
abusive.
Come osservato in dottrina, “il legislatore della n. 281, in
discontinuità con la norma codicistica, coinvolge le Camere di commercio in
posizione di terzietà arbitraria, prevedendo che dinanzi alle stesse si svolga
la procedura di conciliazione ex art. 3, comma 2, probabilmente più in linea
con le funzioni di controllo, promozione e coordinamento nell’interesse
generale del sistema delle imprese, che a questi enti vengono attribuite dalle
legge n. 580/93 (sul riordinamento camere di commercio, industria, artigianato
e agricoltura). E’ evidente che, a fronte della previsione dell’art. 3, comma
2, sarebbe stato quanto meno contraddittorio, oltre che «spurio» dal punto di
vista sistematico, includere le camere di commercio nel novero degli organismi
legittimati a promuovere la procedura di conciliazione e l’azione giudiziale.
Un ulteriore elemento decisivo ai fini di tale «dietrofront» politico-normativo
si ritiene sia stato costituito da quanto inequivocabilmente suggerito proprio
dalla prassi applicativa dell’art. 1469-sexies c.c., che ha segnalato la marginalità del ricorso allo strumento inibitorio
da parte delle camere di commercio”[69].
9. La
Legge n. 281/1998 ed i diritti fondamentali dei consumatori
E’ stato felicemente osservato che “la legge generale sui diritti dei consumatori
e degli utenti approvata il 2 luglio 1998 costituisce l’atteso «bill of
rights» dei consumatori nell’ordinamento
italiano”[70], ovvero,
secondo altra espressione, “una sorta di
tavola costituzionale dei diritti del consumatore, corrispondente a
quell’elenco che già nel lontano 1975 la Comunità aveva inserito nella Risoluzione
del Consiglio 14 aprile 1975, la quale, in seno al «Programma preliminare della
CEE per una politica di protezione ed informazione del consumatore», scolpiva,
per la prima volta, alcuni dei c.d. diritti fondamentali del consumatore, quali
il diritto alla protezione della salute e della sicurezza, alla tutela degli
interessi economici, al risarcimento dei danni, all’informazione e
all’educazione, alla rappresentanza”[71].
E la matrice comunitaria della
normativa interna sui consumatori è senz’altro fondamentale[72];
anzi, si può ben affermare che la promozione della tutela dei consumatori
all’interno del nostro Paese è quasi esclusivamente il frutto di una politica
comunitaria che alla effettività di quella tutela ha attribuito una importanza
prioritaria, di un recepimento, sia pure non tempestivo, di trattati e
direttive che ha dato ormai luogo ad un impianto normativo assai imponente e
complesso.
In relazione a tale complessità è stata
avvertita l’esigenza di creare un testo unico sulla tutela del consumatore,
esigenza questa che ha interferito sul lungo ed accidentato iter legislativo di approvazione del
testo della legge in esame.[73]
Non può che essere, dunque, nel giusto
chi afferma che “fu l’Europa il traino
decisivo, ed anzi primario, per l’introduzione, anche da noi, di moderne normative
in materia di qualità, sicurezza, pubblicità, responsabilità dell’impresa”.[74]
La legge n. 281 del 1998 si compone di
appena otto articoli ed articola la tutela del consumatore su diversi livelli:
“il livello definitorio della nozione di
consumatore e di associazioni di consumatori, il livello codificatorio dei
diritti fondamentali dei consumatori, il livello istituzionale riguardante il
ruolo delle associazioni in giudizio e nell’attività istituzionale, il livello
rappresentativo degli interessi dei consumatori ottenuto sia attraverso la
registrazione e la legittimazione ad agire delle associazioni, sia attraverso
la rappresentanza di secondo grado mediante la previsione di agevolazioni e
finanziamenti alle organizzazioni dei consumatori”.[75]
In relazione alle finalità del presente
lavoro è interessante soffermarsi sull’art. 1 della citata L. n. 281/1998, che
riconosce ai consumatori alcuni diritti, definiti come “fondamentali”,[76]
e, segnatamente, il diritto “alla
sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi”, il diritto “ad un’adeguata informazione e ad una corretta
pubblicità”, il diritto “alla
correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e
servizi” e il diritto “all’erogazione
di servizi pubblici secondo standard di qualità ed efficienza”.
I diritti sopra enunciati sono quelli
che sembrano meglio prestarsi ad un esame volto a verificare se esista un
rapporto tra la tutela dei consumatori predisposta dalla legge in esame e la
disciplina della concorrenza sleale ed, ancora, se tale legge possa ritenersi
rivolta alla protezione degli interessi dei consumatori nell’ambito del diritto
della concorrenza.
A tale quesito alcuni autori hanno
risposto affermativamente, ritenendo che la legittimazione delle associazione
dei consumatori, prevista dall’art. 3 della legge in esame, ad agire in
giudizio per la tutela dei diritti enunciati dall’art. 1 costituirebbe “la seconda, ancor più profonda ed anzi
«simbolica» incrinatura”[77]
alla visione tradizionale della disciplina della concorrenza sleale.
E’ stato, in particolare, rilevato che
la L. n. 281/1998 “attribuisce a qualificate
associazioni di consumatori il potere di adire la giustizia per la repressione
di atti contrari agli interessi di consumatori e utenti (art. 3). Ora, è
lapalissiano, molti atti di concorrenza sleale sono lesivi anche (……) degli
interessi dei consumatori: ricordo, per tutti, i comportamenti confusori e
ingannatori. E’ dunque oggi anche positivamente corretto affermare che la
originaria preclusione all’allargamento della legittimazione ad agire alle
associazioni dei consumatori – confermata dalla Corte Costituzionale nel 1982
sulla base di una lettura (ultra) tradizionale (e asistematica: proprio
rispetto ai principi della costituzione economica) – della disciplina
repressiva della concorrenza sleale, possa oggi considerarsi superata alla luce
appunto della legge 281/998. E che pertanto, anche sul versante soggettivo
(cioè appunto della legittimazione), la repressione della concorrenza sleale
sia indotta a servire non più esclusivamente gli interessi «dei concorrenti»,
bensì tuteli questi ultimi in una prospettiva di necessario rispetto di tutti
gli interessi protetti dalla costituzione economica e riferibili, come
rilevato, vuoi alla “altrui libertà di concorrenza”, vuoi alla corretta informazione
(nel senso più ampio) del pubblico dei consumatori”[78].
Si ritiene, dunque, che la legge n. 281
del 1998 costituisca quell’auspicato intervento diretto a far entrare dalla
porta del legislatore ciò che la dottrina e una parte minoritaria della
giurisprudenza avevano tentato di far entrare dalla finestra con una sentenza
additiva della Corte Costituzionale.
A tale questione si tenterà di dare una
risposta, verificando se può ritenersi aderente al dato normativo esistente la
tendenza diretta ad ampliare l’ambito della repressione della concorrenza
sleale e a superare i limiti soggettivi tradizionalmente stabiliti.
10. Sui
rapporti fra la tutela del consumatore e la tutela della concorrenza sleale e
sulla sussistenza di una legittimazione ad agire delle associazioni dei
consumatori per la repressione della concorrenza sleale
E’ certamente innegabile che il
consumatore ha un ruolo rilevante nel mercato.
Come rilevato dalla dottrina, “la tutela dei consumatori non è (solo)
politica sociale. E’, anche, un preminente strumento di governo della
concorrenza e di sollecitazione della competitività. Irrobustendo le tutele dei
diritti dei consumatori e delle sue associazioni, l’operatore economico più
efficiente riesce a marginalizzare quello meno scrupoloso, destinato altrimenti
a sopraffarlo”.[79]
Il consumatore, quindi, rappresenta un
punto di riferimento del mercato dal quale ormai non è possibile discostarsi o
prescindere.
Ma un siffatta rilevanza è divenuta
tale in relazione agli interventi normativi sopra ricordati che hanno creato
uno status di consumatore ed hanno
attribuito al consumatore stesso diritti e prerogative nei confronti
dell’imprenditore.
Tale nuova prospettiva ben si coglie
prendendo in esame gli artt. 1 e 3 della L. n. 281 del 1998.
Rimane, però, il dubbio se tale tutela
si spinga fino al punto di investire il consumatore singolo o le associazioni
dei consumatori della legittimazione giuridica a dolersi dei comportamenti
concorrenziali sleali e di far ritenere che la normativa sulla concorrenza
sleale tuteli oggi in via diretta ed immediata anche i consumatori.
E’ indubbia la mancanza nel citato
comma 2 dell’art. 1 della L. n. 281/1998 di un esplicito riferimento al diritto
del consumatore ad una concorrenza corretta e leale.
Tuttavia, tra i diritti riconosciuti ai
consumatori, è annoverato il diritto ad una corretta pubblicità che è
correlato, strettamente, al diritto ad un adeguata informazione. Ed ancora sono
riconosciuti i diritti alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti
contrattuali, nonché alla erogazione di servizi secondo criteri che assicurino standard di qualità ed efficienza.
Si potrebbe argomentare che tali
diritti sono diretti a sanzionare comportamenti confusori o ingannatori e che,
quindi, si rivolgono a favore del consumatore collegandosi in qualche misura
con gli atti ed i comportamenti previsti dall’art. 2598 c.c.
Siffatta conclusione, tuttavia, non
sembra corretta e, comunque, potrebbe essere considerata come semplicistica e
non idonea a dimostrare l’avvenuto superamento della concezione tradizionale
della natura professionale della disciplina della concorrenza sleale. Il fatto
in sé di censurare nell’interesse dei consumatori determinati atti non può
condurre in via immediata ad affermare che la portata dell’art. 2598 c.c. è
stata ormai modificata ed ampliata, atteso che, in questo modo, si rischia di
accostare fattispecie diverse per il solo fatto che i comportamenti, ad esse
riconducibili, hanno più o meno le stesse caratteristiche e, nello specifico,
sono ingannatori e confusori.
Anche l’affermazione secondo la quale
molti atti di concorrenza sleale sono lesivi anche degli interessi dei
consumatori si limita a cogliere sul piano empirico un aspetto, quello della
plurioffensività di taluni comportamenti. Nulla, invece, dimostra in ordine
all’avvenuto ampliamento sul piano soggettivo della normativa codicistica sulla
repressione della concorrenza sleale. E ciò perché, come già autorevolmente
affermato in passato proprio con riferimento ai rapporti fra la tutela del
consumatore e la tutela dell’interesse dell’imprenditore, “lo studio strutturale del diritto che potremmo dire genericamente
dell’economia (……) deve integrarsi con uno studio che direi funzionale, volto
appunto ad esaminare le finalità, eventualmente diverse, perseguite da una
normativa, che pur può presentare strutturalmente gli stessi caratteri. Pianificazione
o intervento da un lato, libertà d’iniziativa dall’altro, possono in realtà
perseguire, nonostante la loro diversità, la stessa finalità, ma possono anche
perseguirsi, nelle varie ipotesi, nonostante la ricorrenza ad istituti
strutturalmente identici, finalità tra loro apposte…… .”[80]
Già tale fenomeno è stato esaminato con
riferimento alla pubblicità ingannevole ed alla relativa specifica normativa
introdotta con il D.Lgs. 25.01.1992 n. 74.
Dalla pubblicità, infatti, cui,
peraltro, l’art. 1, comma 2, lett. c) della L. n. 281/1998, fa esplicito
riferimento, possono sorgere interessi disgiunti che in taluni casi possono
coincidere, ma che non necessariamente si sovrappongono.
La lesione dell’interesse del consumatore
non necessariamente deve avere refluenze che investono il profilo della
slealtà, essendo questo solo eventuale.
L’azione, dunque, del consumatore
singolo e della associazione dei consumatori non può che essere volta a
censurare la sola ingannevolezza del messaggio e non anche le sue conseguenze
sleali.
Non può, ancora, essere trascurata la
possibile natura ricognitiva dei diritti enunciati dalla L. n. 281 del 1998 ed
il loro collegamento con quelli tutelati dall’art. 2 Cost., di cui i primi
costituirebbero l’espressione e la concretizzazione.
Il riconoscimento dei diritti dei
consumatori potrebbe cogliersi e spiegarsi con la esigenza di tutelare la
persona umana anche all’interno del mercato e di garantire “la libertà positiva dell’individuo di farsi persona
e, specularmente, di considerare i diritti fondamentali del consumatore come
diritti sociali, ossia come le strutture normative destinate a realizzare
condizioni di legalità pure necessarie ad assicurare il primato della dignità
umana”[81], nonché di attribuire
il giusto risalto agli interessi collettivi nella disciplina dell’attività
economica.
Aver creato uno status[82], una
categoria dei consumatori e aver riconosciuto prerogative e diritti per
tutelare la sua dignità non sembra, dunque, che possa condurre tout-court ad affermare che la
concorrenza sleale e le sue regole siano dirette a tutelare interessi diversi
da quelli dei concorrenti.
Tuttavia, non può neanche essere
trascurato che il complesso delle norme che tutelano i consumatori vanno
inevitabilmente ad incidere sui comportamenti degli imprenditori concorrenti.
Si tratterebbe, però, di un intervento che proviene dall’esterno e non
dall’interno, di un’azione posta in essere da parte di soggetti estranei a
quelli considerati in via immediata e diretta dalle norme codicistiche
sull’illecito concorrenziale, di un intervento che ha finalità diverse anche se
in parte eventualmente coincidenti con quelle dell’imprenditore concorrente
leso da atti di concorrenza sleale.
* Dipartimento di Diritto dell’Economia e
dell’Ambiente, Università degli studi di Palermo.
[1] Ghidini,
Profili evolutivi del diritto
industriale, Proprietà intellettuale e concorrenza, Milano, 2001, 188.
[2] Auteri,
La concorrenza sleale, in Tratt. dir. priv. dir. da Rescigno, XVIII, Torino, 1983, 347; Ascarelli, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1954,
927.
[3] Ascarelli,
Teoria della concorrenza e dei beni
immateriali, Milano 1960, 26 s., 201 s.; v., pure, Jaeger, I soggetti
della concorrenza sleale, in Riv.
dir. ind., I, 1971, 186, che prende in esame, sia pure in modo critico, gli
argomenti invocati a sostegno della tesi che richiede in via necessaria la
qualifica di imprenditore nei soggetti degli atti di concorrenza sleale e
perviene alla conclusione che, invece, si debba fare riferimento agli “operatori economici”; Auteri, op. loc. cit.
[4] Ascarelli,
Teoria della concorrenza e dei beni
immateriali, cit., 197; nello
stesso senso, Casanova, Le imprese commerciali, Torino, 1955,
599. Secondo l’A. gli imprenditori non possono esigere “presidi maggiori o diversi da quelli offerti a tutti i cittadini dalle
regole di diritto comune”. Tale considerazione è, poi, ripresa da Auteri, op. loc. cit., il quale attribuisce alla stessa un “grandissimo peso”.
[5] Così Ascarelli,
Teoria della concorrenza e interesse del
consumatore, cit., 933 ss.
[6] L’espressione è di Ascarelli, Teoria della
concorrenza e interesse del consumatore, cit., 932.
[7] Ravà,
Diritto industriale, Torino, 1973,
147; Vanzetti, La repressione della pubblicità menzognera,
in Riv. dir. civ. 1964, I, 584 ss.,
593, nota 20; Sena, La repressione penale della concorrenza
sleale. Premesse di diritto industriale, in Riv. dir. ind., 1965, I, 173 ss.; Guglielminetti,
Violazione di norme di diritto
industriale e concorrenza sleale, in Riv.
dir. comm., 1965, I, 274.
[8] Auteri,
La concorrenza sleale, cit., 348.
[9] Jaeger,
I soggetti della concorrenza sleale,
cit., 171, 101 ss.
[10] Jaeger,
Valutazione comparativa di interessi e
concorrenza sleale, in Riv. dir. ind.
1970, I, 101 ss.
[11] Ascarelli,
Teoria della concorrenza e interesse del
consumatore, cit., 927. Per una ricostruzione dell’orientamento
tradizionale: Ghidini, La concorrenza sleale, in Giur. sist. dir. civ. e comm. fondata da
Bigiavi, Torino 1982, 3 ss.
[12] Ascarelli,
Teoria della concorrenza e interesse del
consumatore, cit., 935 e la nota 129.
[13] Così Schlesinger-Vanzetti,
Aspetti privatistici delle cosiddette
«vendite a premio», in Riv. dir.
ind., I, 1966, 175.
[14] Ghidini,
Monopolio e concorrenza, in Enc. Dir., XXVI, Milano, 1976, 803; più
ampiamente, dello stesso A., Lealtà della
concorrenza e costituzione economica, Padova, 1974, 79 ss.
[15] In tal senso Minervini,
Concorrenza e consorzi, Milano 1965,
8; Auletta-Mangini, Della disciplina della concorrenza e dei
consorzi, in Commentario del codice
civile a cura di Scialoja e Branca, Libro V, Del Lavoro (artt.2584-2601), Bologna-Roma, 1973, sub art. 2595, 123.
[16] Ghidini,
Monopolio e concorrenza, cit., 809.
[17] Santagata,
Le nuove prospettive della disciplina
della concorrenza sleale, in Riv.
dir. comm., 1971, 141 ss.; Id,
Concorrenza sleale e interessi protetti,
Napoli, 1974; Ghidini, Monopolio e concorrenza, cit., 786 ss.; Id., Slealtà della concorrenza e costituzione economica, Padova, 1978,
79-130; Libertini, Azioni e sanzioni sulla disciplina della
concorrenza, in Trattato di diritto
commerciale e diritto pubblico dell’economia dir. da Galgano, IV, Padova 1981, 237-270; Auletta, Delle invenzioni industriali, dei modelli di utilità e dei disegni
ornamentali, della concorrenza, in Commentario
al Codice civile a cura di Scialoja
e Branca, Libro V, Del Lavoro (artt.
2584-2601), Bologna, 1973, 137-187; Jaeger,
Valutazione comparativa di interessi e
concorrenza sleale, cit., 145 ss., seppure nell’articolo successivo, I soggetti della concorrenza sleale,
cit., precisa che “le conclusioni
raggiunte nel precedente saggio, in merito alla riconosciuta rilevanza nella
disciplina di interessi collettivi facenti capo ai «consumatori» ed alla «universalità»
dei consociati, non possono essere utilizzate apriosticamente per sostenere
l’esistenza di una legittimazione ad esercitare le azioni di concorrenza sleale
in capo a soggetti appartenenti a queste categorie, ed estranei al rapporto
concorrenziale”, prendendo così le distanze da quanto sostenuto dal
Santagata con riferimento alla attribuzione ai singoli consumatori della
legittimazione ad agire per concorrenza sleale.
[18] Ricorda tale matrice tedesca e svizzera, Jaeger, Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, cit., 46
ss. e le note 96, 97, 98, 107, nelle quali riporta gli autori e la giurisprudenza,
nonché i riferimenti legislativi riguardanti il coinvolgimento diretto dei
consumatori nell’ambito della disciplina della concorrenza.
[19] Santagata,
Le nuove prospettive della disciplina
della concorrenza sleale, cit.,
142.
[20] Santagata,
op. ult. cit., 146 ss.
[21] Santagata,
op. ult. cit., 209-210, che così
osserva: “la norma dell’art. 2598 cod.
civ. non corrisponde a quella dell’art. 10 bis della Convenzione che ha
indubbiamente una portata più vasta e comprensiva …….”.
[22] R.
Franceschelli, Sulla
legittimazione ad agire in concorrenza sleale delle associazioni professionali
e dei consorzi e sulla pretesa giustificazione dei principi della correttezza
professionale con l’art. 41 della Costituzione e la protezione dei consumatori,
in Riv. dir. ind. 1983, II, 29 ss. Si
tratta, come anche ricordato dall’illustre A., di Trib. Milano, 22.03.1976, in Foro it., Rep. 1978, voce Concorrenza (disciplina), n. 167; Trib.
Milano 22.03.1976, id., Rep. 1978, voce
cit., n. 169; Trib. Milano, 29.04.1974, in Giur.
dir. ind., 1974, 643; Trib. Milano, 26.11.1973, in Foro it., Rep. 1975, voce cit., n. 53.
[23] Trib. Roma, 18.01.1982, in Riv. dir. ind. 1983, II, 29 ss.
[24] In motivazione, Trib. Roma, 18.01.982, cit., 37-38
[25] Così R.
Franceschelli, Concorrenza, II)
Concorrenza sleale, in Enc. giur.
Treccani, VII, Roma, 1988, 21 ss.
[26] Ghidini,
Della concorrenza sleale – artt.
2598-2601, in Commentario al codice
civile diretto da Schlesinger,
Milano, 1991, 464 s., che osservava come “il
sistema della legittimazione ad agire per concorrenza sleale è tutt’ora
improntato al principio della «esclusività» (professionale). Tutte le
evoluzioni registratesi negli orientamenti giurisprudenziali si sono collocate
all’interno, per così dire, dell’esclusivo riferimento a un’area di interessi latu
sensu imprenditoriali”. Già prima e
nello stesso senso, Id., Introduzione allo studio della pubblicità
commerciale, Milano, 1968, nel quale riteneva che, in mancanza di una
modifica normativa inerente al sistema della legittimazione ad agire, sarebbe
stato “platonico” il vantaggio che
era possibile ottenere con l’affermarsi dell’orientamento più sensibile alla
tutela degli interessi generali.
[27] Si tratta della tesi del Santagata, Le nuove
prospettive della disciplina della concorrenza sleale, cit., 141 ss.
[28] Jaeger,
I soggetti della concorrenza sleale, cit., 171-174, che alle nota 8 riporta il
seguente esempio pratico sul rapporto tra le due nozioni di legittimazione ed
interesse: “si pensi all’impossibilità
per i creditori della società di impugnare una deliberazione assembleare annullabile
che li danneggi, dato che la legittimazione attiva è riservata ai «soci assenti
e dissenzienti», agli amministratori ed ai sindaci (art. 2377, secondo comma
cod. civ.)”. Secondo l’A. solo de
iure condendo le prospettive per riconoscere la legittimazione ad agire dei
consumatori sarebbero diverse e conclude che “chiunque non sottovaluti la rilevanza latu sensu pubblicistica della problematica della
concorrenza, non può accontentarsi di una disciplina che condizioni la tutela
di interessi generali dei consumatori e della collettività dei consociati alla
(eventuale) iniziativa di un imprenditore concorrente del soggetto agente dei
comportamenti concorrenziali illeciti e dannosi”.
[29] E’ stato a seguito della caduta del regime
fascista e della soppressione, ad opera del D.L. 23.11.1944 n. 369, del sistema
corporativo che si pone in dottrina e in giurisprudenza il problema se l’art.
2601 c.c. fosse rimasto o meno in vigore. La dottrina e la giurisprudenza prevalente
hanno dato risposta affermativa. In tal senso si veda Ascarelli, Teoria della
concorrenza e dei beni immateriali, cit.,
263 – 264; Ghiron, La concorrenza e i consorzi, in Trattato di diritto civile italiano
diretto da Vassalli, Torino,
1954, 67 ss.; Jaeger, Sulla legittimazione delle «associazioni
professionali» ad agire per concorrenza sleale (art. 2601 c.c.), in Problemi attuali di diritto industriali,
Milano 1977; R. Franceschelli, Sulla legittimazione ad agire in concorrenza
sleale della associazioni professionali e dei consorzi e sulla pretesa
giustificazione dei principi della correttezza professionale con l’art. 41
della Costituzione e la protezione dei consumatori, in Riv. dir. ind., 1983, II, 29; Floridia,
Legittimazione ad agire delle
associazioni professionali di categoria e qualificazione di illiceità dell’atto
di concorrenza ex art. 2601 c.c., in Mon.
trib., 1970, 712 ss.; Libertini,
Azioni e sanzioni nella disciplina della
concorrenza sleale, in Trattato di
diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia dir. da Galgano, IV, Padova, 1981, 267; Sanzo, La concorrenza sleale, Padova, 1998, 433-434. Contra Giannantonio Guglielminetti,
La concorrenza e i consorzi, Torino,
1970, 211 ss.; Id., Sulla legittimazione ad agire in materia di
concorrenza sleale dei consorzi di produttori, in Riv. dir. ind. 1961, II, 321 ss.; Santini,
I diritti della personalità nel diritto
industriale, Padova, 1959, 117. In giurisprudenza, fra le tante che
ritengono che la norma sia ancora in vigore, Cass. 29.08.1995, n. 9073, in Riv. dir. ind. 1997, II, 43 ss., con
nota di Brock, Sulla legittimazione ad agire ex art. 2601
c.c. Secondo tale pronuncia la norma di cui all’art. 2601 c.c. “è sopravvissuta all’ordinamento corporativo
che ne costituisce il presupposto storico, ben potendosi configurare sul piano
del diritto positivo un interesse rilevante al fine della tutela da atti di
concorrenza sleale. Purché tuttavia si tratti di associazioni rappresentative
di un interesse generale, perciò stesso di categoria, quale sia in concreto il
grado di rappresentatività raggiunto dalla singola associazione”. Contra, App. Milano, 29.03.1974, in Giur. ann. dir. ind., 1974, 577; Cass.
10.01.1990, n. 1719, in Dir. giur.,
1990, 484.
[30] V. Brock,
Sulla legittimazione ad agire ex art.
2601 c.c., cit., 47 ss.
[31] Per una sintesi dei diversi orientamenti esistenti
su quest’altro aspetto, Toni, La legittimazione ad agire delle associazioni
di categoria per la repressione della concorrenza sleale, in Riv. dir. ind., 1997, II, 387 ss.; Ghidini, Della concorrenza sleale – Art. 2598-2601, cit., 459 ss.
[32] La tutela dell’interesse superindividuale è stata
a partire dalla metà degli anni ’70 una delle questioni più dibattute e
controverse. In ordine a tale interesse, occorre, però, fare alcune precisazioni,
considerato che non è possibile accostare, neanche sul piano terminologico,
l’interesse collettivo e l’interesse diffuso o utilizzare, come sembrano fare
taluni, indifferentemente tali due espressioni. Come anche recentemente
puntualizzato da Punzi, La tutela giudiziale degli interessi diffusi
e degli interessi collettivi, in Riv.
dir. proc., 2002, 64 ss., “esistono
nella realtà sociale interessi che, in un primo stadio della loro vita
sarebbero «adespoti», cioè privi ed anzi alla ricerca di un qualche portatore e
tali interessi potrebbero dirsi «diffusi» sino a quando non l’abbiano trovato.
Solo allorquando riescono a trovare un loro portatore, tali interessi entrano
nel secondo stadio e possono assurgere al rango di «interessi collettivi». Ma
tali interessi trovano un portatore in quanto costui è espressione di un
gruppo. Solo l’interesse diffuso è, quindi, «adespota» e non è qualificato
necessariamente sulla base di requisiti di appartenenza ad un gruppo, anche se
solo nel gruppo si può individuare. L’interesse collettivo, invece riguarda
sempre gruppi organizzati, ai quali normalmente il legislatore annette rilevanza:
ad esempio un’associazione, un sindacato, un partito o un ordine professionale.
Ma anche l’interesse diffuso, pur se non si individualizza con l’appartenenza
ad un gruppo e se alla ricerca di un portatore, per la sua stessa connotazione
di diffuso, compete ad una pluralità di soggetti”. Alla luce delle
considerazioni sopra riportate, l’interesse di cui all’art. 2601 c.c., in quanto
relativo ad organizzazioni cui la stessa norma attribuisce rilevanza, non
dovrebbe qualificarsi come “diffuso”, ma “collettivo”.
L’interesse
dei consumatori, che l’indirizzo dottrinale minoritario, favorevole ad un ampliamento
dell’ambito di tutela dell’art. 2598 c.c., riteneva rilevante, in quanto non si
riconnetteva, sul piano del diritto positivo allora esistente, ad un gruppo cui
il legislatore attribuiva rilevanza, doveva, invece, qualificarsi come
interesse diffuso. In ordine alla distinzione fra interesse diffuso ed
interesse collettivo e nel senso indicato da Punzi,
cfr. Vocino, Sui cosiddetti interessi diffusi, in Studi in memoria di Salvatore Satta, II, Padova, 1982, 1879 ss., M.S.
Giannini, Diritto amministrativo, I, Milano, 1990; Alpa, Interessi diffusi,
in Digesto delle discipline privatistiche,
IX, Torino, 1993, 610. Sugli interessi collettivi e diffusi, con specifico
riferimento ai consumatori, v. Ruffolo, Interessi collettivi o diffusi e tutela
del consumatore, I, Milano 1985, 10 e ss., con ampie note di richiami.
[33] Così Cass. 20.12.1996, n. 11404, in Giust. civ., 1997, I, 1851.
[34] Fra i sostenitori della illegittimità
costituzionale dell’art. 2601 c.c., Ghidini,
Slealtà della concorrenza e costituzione
economica, Padova, 1978, 200-201; Floridia,
Correttezza e responsabilità dell’impresa,
Milano, 1982, 298 s.
[35] Ghidini,
La concorrenza e i consorzi, in Trattato di diritto commerciale e diritto
pubblico dell’economia dir. da Galgano,
Padova, 1981, IV, 146.
[36] in Giur.
ann. dir. ind., 1980, 204, e in Giur.
cost. 1982, II, 74, con nota di Spolidoro,
Costituzione e limitazioni soggettive
della legittimazione ad agire per concorrenza sleale.
[37] Corte Cost., Ordinanza, 21.01.1988, n. 59, in Foro it., I, 1988, c. 2158 ss., con nota
di Cosentino, L’art. 2601 c.c. e la tutela dei consumatori
al vaglio della Corte Costituzionale.
[38] Cosentino,
op. cit., c. 2160 ss.
[39] Ruffolo,
Interessi collettivi o diffusi e tutela
del consumatore, cit., 99, sub
nota 41.
[40] Cfr. Cosentino,
op. cit.,, c. 2161, che così osserva:
“I benefici che derivano da un mercato
concorrenziale (…) riguardano l’intero sistema economico, prima ancora ed oltre
che i consumatori. La concorrenza – che in teoria, anche se attuata in forme
leali, rappresenta comunque un danno per i singoli imprenditori – è voluta e
protetta dall’ordinamento non solo a garanzia dell’iniziativa economica
individuale, ma per il bene dell'intero gruppo sociale (...). L’atto di
concorrenza sleale, oltre a turbare un delicato sistema economico, basato
principalmente sui rapporti di mercato, si risolve in effetti in una perdita di
risorse ……. Anche se la legittimazione degli enti di categoria e delle associazioni
favorisce l’attività di repressione della concorrenza sleale da parte degli
imprenditori, permettendo l’aggregazione delle domande (…) con riduzione e
divisione tra tutti gli aderenti all’organizzazione dei «costi amministrativi»
dell’azione giudiziale (…) il meccanismo potrebbe non funzionare …”. Rinvia
espressamente a tali considerazioni, Ghidini,
Della concorrenza sleale artt. 2598-2601,
cit., 469, il quale, peraltro, osserva come la Corte non si sarebbe
preoccupata di collegare il principio di parità di trattamento di cui all’art.
3 Cost. con quello dell’art. 41, comma 2, Cost. al fine di verificare la
legittimità della norma sospettata di incostituzionalità.
[41] Così R. Franceschelli,
Concorrenza II) Concorrenza sleale, cit., 24-25, il quale ritiene che la
questione della tutela degli interessi dei consumatori e della loro
legittimazione ad intervenire nelle vicende concorrenziali esprime una visione
politica del problema. Secondo l’A. non è possibile neanche utilizzare l’art.
41, comma 2, Cost. atteso che tale norma mancherebbe di diretta precettività e
che prima della sua applicazione occorrerebbe colmare le riserve di legge in
essa contenute.
[42] G.B. Ferri,
In tema di tutela del consumatore, in
Tecniche giuridiche e sviluppo della persona
a cura di N. Lipari, Torino,
1974, 288 ss., che, dopo una disamina delle possibili forme di tutela
esistenti, così conclude: “Certamente la
ricostruzione di questa prospettiva di tutela apparirà lacunosa e frammentaria
(noi stessi del resto non ci nascondiamo le perplessità che proviamo nel
proporla) perché non nasce dall’esame critico di una normativa unitaria che, in
qualche modo, affronti omogeneamente il problema”.
[43] Jaeger, Pubblicità e « principio di verità», in Riv. dir. ind., 1971, I, 359; Auteri, La concorrenza sleale, cit., 348.
[44] Ghidini,
Della concorrenza sleale, cit.,
465–466, che si dichiara contrario ad una interpretazione evolutiva della
normativa esistente.
[45] SAntagata,
Le nuove prospettive della concorrenza
sleale, cit., 141; nello stesso senso, Ruffolo,
Interessi collettivi o diffusi e tutela del
consumatore, cit., 37, il quale così osserva: “Il tema degli interessi diffusi, e quello degli interessi collettivi,
vedono in Italia carente la normativa specifica, ma assai aperto il sistema
(soprattutto quello costituzionale) e quindi il sentiero della interpretazione
sistematica evolutiva. Tale opera appare d’essenziale importanza in un contesto
dominato da quel ruolo « di supplenza» del giudice che il vuoto normativo ha
finora imposto”; Libertini, Lezioni di diritto industriale, II, Concorrenza sleale, Catania, 1979, 64.
[46] R.
Franceschelli, Concorrenza II)
Concorrenza sleale, cit., 23 – 24.
[47] Così Ascarelli,
Teoria della concorrenza e interesse del
consumatore, cit., 935 – 936, sub nota 129.
[48] Così Gambino,
La tutela del consumatore nel diritto
della concorrenza: evoluzioni ed involuzioni legislative, anche alla luce del
d.lgs. 25 gennaio 1992 in materia di pubblicità ingannevole, in Contratto e Impresa, 1992, 421.
[49] Ruffolo,
op. cit., 106.
[50] Già, in tal senso, Schlesinger-Vanzetti, op.
cit., 175 – 176, i quali ritengono che alla nuova tendenza verso
un’evoluzione pubblicistica della concorrenza sleale ed all’assunzione in essa,
come criterio di illiceità dell’atto di concorrenza, degli interessi dei
consumatori “si riferisce una delle più
interessanti discussioni che si conducono in materia, e precisamente quella
relativa agli illeciti pubblicitari”.
[51] L’espressione è di Galgano, La democrazia
dei consumatori, in Riv. trim. dir. e
proc. civ., 1981, 39.
[52] Osserva il Mangini,
in AA.VV., Diritto commerciale,
Bologna, 1999, 79-80, che tutelare il consumatore “contro le insidie della pubblicità commerciale anche mediante l’impiego
delle norme sulla concorrenza sleale poteva considerarsi come dato acquisito,
ma non certo del tutto appagante, dal momento che, come s’è visto, al
consumatore vittima del mendacio pubblicitario non è consentito, né
individualmente né in quanto appartenente ad un’associazione esponenziale, di
agire in giudizio”.
[53] Così Cosentino,
L’art. 2601 c.c. e la tutela dei
consumatori al vaglio della Corte Costituzionale, cit., c. 2159.
[54] Ferri,
In tema di tutela del consumatore,
cit., 266.
[55] Per una trattazione approfondita dell’impianto
sanzionatorio apprestato dal D.L.v. n. 74/1992 ed, in particolare, sulla
inibitoria e sull’ordine di pubblicazione si veda Meli, I rimedi per la
violazione del divieto di pubblicità ingannevole, in Riv. dir. ind., 2000, I, 5 ss.
[56] Gambino,
op. cit., 432 ss.
[57] Bonajuto,
in Nuova Rassegna di giurisprudenza sul
codice civile, 1998 – 2000 a cura
di Ruperto e Sgroi, Milano 2001, sub. art. 2601, 1059 s.
[58] Queste le parole dell’allora Presidente
dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Francesco Saja, La
Direttiva n. 84/450 del 10 settembre 1984, relativa al ravvicinamento delle
discipline in materia di pubblicità ingannevole e il D.lg. di attuazione, 25
Gennaio 1992 n. 74: le funzioni dell’Autorità Garante istituita ex art. 10
della Legge 287/1990, in Quaderni per
l’Arbitrato e per i contratti internazionali, Milano, 1992, 121.
[59] Cfr., Meli,
La repressione della pubblicità
ingannevole, Torino, 1994, 9 ss.; per un esame ricognitivo della
legislazione italiana anteriore all’attuazione della direttiva 84/450/CEE, il volume
di Alpa, Diritto privato dei consumi, Bologna, 1986; per una sintesi, Alpa–Rossello, L’attuazione della direttiva comunitaria in materia di pubblicità
ingannevole (D.lg. 25 gennaio 1992, n. 74), in Quaderni per l’arbitrato e per i contratti internazionali, Milano,
1992, 105 ss.; Fusi-Testa-Cottafavi,
La pubblicità ingannevole, Milano, 1993,
33 ss.
[60] Alpa –
Rossello, op. cit., 107 ss.,
che nel primo caso di atti non pregiudizievoli per i consumatori annoverano la
pubblicità comparativa che, per la giurisprudenza formatosi prima del D.L.vo n.
67/2000, “non assume rilievo al di fuori
dell’effetto del discredito commerciale a danno dei prodotti o servizi
sfavoriti dal confronto, e quindi come fattispecie di concorrenza sleale per
denigrazione”.
[61] Così Fusi –
Testa – Cottafavi, La pubblicità
ingannevole, cit., 82, i quali
ritengono che l’interesse dei consumatori che viene in rilievo è quello proprio
dei soggetti utilizzatori dei beni e dei servizi offerti dalle imprese, per cui
escludono “che quelli facenti capo ai
consumatori possano considerarsi alla stregua di «interessi di categoria». In
tal senso si era già pronunciato Alpa,
Considerazioni generali sull’elaborazione
di un progetto di legge per la difesa del consumatore anche con riferimento
alla tutela degli interessi diffusi, in La
pubblicità nell’era informazione, Pavia, s.d., 13 ss.
[62] Meli,
op. cit., 11-12, il quale ritiene che
sia difficile sostenere che “tale
ulteriore profilo sia stato autonomamente preso in considerazione, ed in che
termini, dalla disciplina”, e ciò in relazione alla considerazione che gli
interessi perseguiti nella definizione degli obiettivi non verrebbero
esplicitati.
[63] Meli,
op. cit., 13 ss.
[64] Punzi,
op. cit., 661 e sub nota 44.
[65] Ghidini,
Profili evolutivi del diritto industriale,
cit., Milano, 2001, 187. Sulla riforma delle Camere di commercio, sui principi
ispiratori della L. n. 580/1993, nonché sui successivi interventi normativi v. Morana, Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura, in Enc. dir., Aggiornamento, VI, Milano,
2002, 211 ss.
[66] Ghidini,
op. loc. cit.
[67] Calvi,
in Clausole vessatorie e contratto del
consumatore a cura di Cesarò,
I, Padova, 1998, 684.
[68] Floridia,
Concorrenza sleale e Camere di commercio:
un ritorno al futuro, in Dir. ind.,
1994, 856-857.
[69] Camero-Della
Valle, La nuova disciplina dei
diritti del consumatore, Milano, 1999, 148 – 149.
[70] Alpa,
in I diritti dei consumatori e degli
utenti – Un commento alle Leggi 30.07.1998 n. 281 e 24.11.2000 n. 340 e al
Decreto Legislativo 23.04.2001 n. 224 a cura di Alpa e Levi, Milano,
2001 sub art. 1, 4.
[71] Camero-Della
Valle, La nuova disciplina dei
diritti del consumatore, cit, ,
56 s.
[72] I numerosi interventi delle istituzioni
comunitarie a tutela del consumatore sono ampiamente trattati da Chinè, Il consumatore, in Trattato
di diritto privato europeo a cura di Lipari,
I, Padova, 2003, 435 ss.
[73] Osserva Alpa,
op. ult. cit., 4, che “Il percorso di questo provvedimento è stato
accidentato, sia per le forti opposizioni ad esso manifestate dalle categorie
economiche, sia per le divisioni interne che hanno contrapposto le associazioni
più estese o comunque più forti, alle aggregazioni occasionali o più recenti,
sia per il nodo costituito dalla inclusione o meno tra le associazioni dei
consumatori delle cooperative di consumo. L’approvazione del testo ha subito
quindi rallentamenti, revisioni, ripensamenti che non hanno giovato né alla sua
formulazione definitiva, né alla determinazione dei confini dell’intervento.
Con questa vicenda – a complicarne il percorso – ha interferito pure la vicenda
della redazione di un testo unico sulla tutela del consumatore, di cui la legge
generale avrebbe potuto costituire il provvedimento di apertura ……”.
Sul
quadro normativo di riferimento concernente i diritti dei consumatori e sulla “svolta” rappresentata dal trattato di
Amsterdam sottoscritto nel 1997 e ratificato con L. 16.06.1998, n. 209, cfr. Alpa, La nuova disciplina dei diritti dei consumatori, in Studium iuris, 1998, 1310; v., altresì, Camero – Della Valle, op. cit., 1 ss., che prendono in esame
le disposizioni comunitarie in materia che vanno dal Trattato istitutivo della
Comunità Economica Europea, firmato a Roma il 25 marzo 1957 (art. 39) e da
quello di Maastricht sull’Unione Europera (artt. 3, lett. s) e 129 A) alle
direttive di respiro settoriale.
[74] Ghidini-Cesarini,
Consumatore (tutela del), in Enc. dir., Aggiornamento, V, 2001, 265,
i quali evidenziano come in Italia “il
processo di costruzione normativa fu contrassegnato da un’adesione ai fermenti
comunitari assai più lenta rispetto alle generalità degli altri Stati membri”
e che “fu solo grazie alla pressione
comunitaria che, in seguito, la situazione riuscì ad evolversi”. Gli autori
provvedono ad una interessante reductio
ad unitatem delle direttive comunitarie e della disciplina di tipo
settoriale con esse dettata, utilizzando, con riferimento alla normativa
sostanziale, cioè a quelle norme “che
conferiscono diritti ai consumatori e/o propongono obblighi e divieti in capo
agli imprenditori” il criterio
delle tre “fasi fondamentali del ciclo
persuazione-negoziazione-fruizione (“visto” dal lato del consumatore)”.
Nella fase della persuasione all’acquisto vengono indicate, quali normative
fondamentali, il D.L.vo 25.01.1992, n. 74 in tema di pubblicità ingannevole,
modificato dal D.L.vo 28.02.2000, n. 67 sulla pubblicità comparativa e vengono
inserite anche le “varie disposizioni,
generali e specifiche, volte ad imporre obblighi di informazione
all’etichettatura (labeling) dei prodotti”. Nella fase negoziale, la L.
06.02.1996 n. 52 sulle clausole abusive, il D.L.vo 15.01.1992, n. 50, sui
contratti negoziati fuori dai locali commerciali, il D.L.vo 22.05.1999 n. 185
sui contratti a distanza, il D.L.vo 17.03.1995, n. 111, sui contratti relativi
ai viaggi, vacanze e circuiti “tutto compreso”, nonché il D.L.vo 01.09.1993, n.
385, in materia bancaria e creditizia con riferimento al credito al consumo. In
ordine, infine, alla fase della fruizione dei prodotti, vengono indicati il
D.L.vo 17.03.1995 n. 115 sulla sicurezza generale dei prodotti e gli altri
testi normativi concernenti la sicurezza in specifici settori, nonché il D.P.R.
n. 224 del 1988 in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi,
modificato dal D.L.vo 02.02.2001, n. 49. Si tratta di una ricostruzione della
normativa in materia senz’altro apprezzabile, poiché consente di superare l’elevato
grado di frammentarietà e di settorialità che la caratterizza.
[75] Così Alpa,
in I diritti dei consumatori e degli
utenti, cit., 4.
[76] In ordine alla natura dei diritti previsti dal
comma 2 dell’art. 1 della L. n. 281/1998 la dottrina ha evidenziato sin da
subito come la qualificazione di “diritti
fondamentali” non deve intendersi in senso proprio, cioè come diritti
irrinunciabili, inviolabili, come diritti da intendersi alla stregua di quelli
costituzionalmente garantiti. In tal senso, Alpa,
La nuova disciplina dei diritti dei
consumatori, cit., 1315 e 1316 il quale ritiene che l’espressione “diritti fondamentali” deve intendersi “come «diritti essenziali», diritti che non possono essere violati senza adeguata
sanzione. Il loro riconoscimento esplicito e compiuto implica che tali
disposizioni non possono essere considerate meramente programmatiche”.
Certamente taluni diritti rientrano in quelli inviolabili costituzionalmente
garantiti, come il diritto alla salute previsto dall’art. 32 Cost. o il diritto
all’associazionismo tra consumatori ed utenti previsto dall’art. 18 Cost. Un
interessante distinzione è quella operata da Bianco,
Brevi considerazioni sui diritti
fondamentali dei consumatori e degli utenti, in La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, a cura di
Barba, Napoli, 2000, 199 ss.,
che, sulla base della distinzione fra diritti fondamentali originari e diritti
fondamentali derivati, afferma che il catalogo dei diritti previsto dalla legge
n. 281/1998 contiene “sia diritti
strettamente inviolabili ed immediatamente riferibili alla persona umana; sia
diritti fondamentali «di settore»”, diritti,
cioè, che sembrano assicurare particolari status
o posizioni giuridiche.
[77] Ghidini,
Profili evolutivi del diritto industriale
– Proprietà intellettuale e concorrenza, cit., 187-188.
[78] Ghidini,
op. ult. cit., 188, nello stesso
senso e più recentemente, Id, Note sull’evoluzione della disciplina
italiana della concorrenza sleale alla luce dei principi antitrust, in Riv. dir. ind., 2002, 426 ss., che così
osserva: “….pur faticosamente, e con
gravi ritardi e tenaci resistenze (peraltro più sul versante dottrinario che su
quello, ben più significativo per cittadini e imprese, della giurisprudenza),
si avviò una estesa opera di riqualificazione di fattispecie tipiche (o tipizzate
dagli interpreti), espressiva del passaggio da un paradigma di mercato di
ispirazione corporativa – originariamente imperniato su una funzione
integrativa delle norme a tutela di marchi e brevetti, a difesa ulteriore
dell’avviamento commerciale – ad un diverso paradigma, appunto ispirato ad un
modello di mercato concorrenziale e «socialmente compatibile». Un’opera che in
tempi più recenti è stata ulteriormente accelerata sia dalla emanazione e poi
dall’attuazione in ambito nazionale delle Direttive comunitarie sulla
pubblicità ingannevole e su quella comparativa, sia dalla nuova legislazione
(l. n. 281 del 1998) in tema di tutela consumatori e di legittimazione ad agire
delle loro associazioni per inibire atti, anche di concorrenza, contrari agli
interessi rappresentati: spezzando così quel pilastro del modello corporativo
rappresentato dalla legittimazione «riservata» ai concorrenti e alle
associazioni di imprese. Si è così incisivamente modificato il quadro dei
principi e dei criteri che guidano l’interpretazione e l’applicazione della
disciplina, «scacciando», dalla nozione normativa di «correttezza professionale»
- paradigma generale della qualificazione – molti dei precedenti indirizzi
protezionistici e corporativi, per far posto ad altri, espressivi de su
ricordati nuovi principi-guida della nuova costituzione economica: e da qui
mutando profondamente, direi rivoluzionando, la fisionomia, anzi: la stessa
morfologia delle fattispecie, lecite ed illecite, nelle quali la disciplina si
atteggia”.
[79] Così Gentili,
Sull’accesso alla giustizia dei
consumatori, in Contratto e impresa,
2000, 691; in tal senso si veda, anche, Jannarelli,
La disciplina dell’atto e dell’attività:
i contratti tra imprese e tra i consumatori, in Lipari, (a cura di), Diritto
privato europeo, II, Padova, 1997, 521 ss.
[80] Ascarelli,
Teoria della concorrenza e interesse del
consumatore, cit., 935 -936
[81] Barba,
Consumo e sviluppo della persona, in La disciplina dei diritti dei consumatori e
degli utenti a cura di Barba,
cit., 428 ss.
[82] Sulla nozione di status di consumatore v. Chinè,
Il consumatore, cit., 467 ss., il
quale precisa che si tratta di status
in funzione sociale e protettiva e, quindi, diverso dagli status tradizionali c.d. legittimanti o privilegianti. Secondo l’A.
“lo status ha perduto il tradizionale rilievo di condizione privilegiata (…) per
riassumere la condizione del singolo rispetto ad un filone normativo avente
natura promozionale e tuzioristica, il cui scopo ultimo sia quello di operare
una netta distinzione di trattamento giuridico nel panorama generale dei
rapporti interprivati. Ma ciò non per creare un’area di privilegio, bensì (da
qui la connotazione positiva della nozione) per rafforzare una posizione di
debolezza sostanziale foriera di conseguenze negative sia per la sfera
giuridico-patrimoniale dell’individuo, sia per l’intero sistema economico”.
data di pubblicazione: 21 ottobre 2003