Rivista di diritto dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente, III/2005

Il diritto alla vita tra Costituzione e giurisprudenza

 

Massimo Pellingra Contino *

 

 

SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. - 1.1. Profili generali del diritto alla salute. - 1.2. Fallimento dell'intervento interruttivo della gravidanza e sue conseguenze. - 1.3. Fallimento dell'intervento di sterilizzazione. - 2.1. Nascita di un bambino malformato e responsabilità civile nell'attività medico-chirurgica: ipotesi di wrongful birth e wrongful life. - 2.2. Responsabilità del medico e della struttura sanitario-ospedaliera e nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento lesivo prodotto dall'attività medica. - 3.1. Responsabilità dei genitori e tutela dei figli. - 3.2. I diritti del concepito: diritto di non nascere o diritto a nascere sano? La risposta al problema della nascita indesiderata secondo la giurisprudenza delle Corti straniere.osta in tempi recenti all’attenzione dei giuristi la tematica relativa alla

 

 

1.  Considerazioni introduttive

Si è posta in tempi recenti all’attenzione dei giuristi la tematica relativa alla responsabilità civile del medico e quella derivante da strutture sanitario-ospedaliere per i danni cagionati ai genitori da nascita indesiderata.

La tematica ha suscitato notevole interesse ed è stata oggetto di trattazione in particolare dagli anni ’90 in poi in cui sono emersi diversi interrogativi da parte della dottrina e della giurisprudenza, tanto che ad oggi la soluzione di detti interrogativi appare incerta e difficile, considerato che, sia per la novità che per l’importanza dell’argomento, non sono ancora emersi orientamenti che possano essere considerati consolidati.

Il dibattito che è sorto relativamente all’analisi dell’argomento si può ritenere infatti ancora aperto; ciò deriva, in primis, dal progresso della scienza medica e della tecnologia, che, sotto il profilo degli accertamenti diagnostici e delle moderne metodologie interventistiche, ha raggiunto livelli qualitativi prima sconosciuti.

Va chiarito inoltre al riguardo che l'ordinamento giuridico ha subito una evoluzione in ordine alla tutela dei diritti soggettivi costituzionalmente garantiti relativamente ai trattamenti medico-chirurgici consentiti e, in tal senso, il referente normativo è da individuare nella legge 22 maggio 1978, n. 194, che disciplina l’interruzione volontaria della gravidanza.

Si tratta, sotto il profilo del progresso scientifico raggiunto e dello sviluppo dell’indagine, in subiecta materia, da parte degli studiosi del diritto, di tematiche che sono state oggetto di ampia trattazione da parte della dottrina e della giurisprudenza oltre che dalla Corte Costituzionale.

La giurisprudenza, in particolare, infatti ha trattato la materia in oggetto essenzialmente con riferimento a tre fattispecie di nascita indesiderata, che sono da ravvisare rispettivamente nel fallimento di un intervento di interruzione della gravidanza, nel fallimento di un intervento medico di sterilizzazione maschile, nella nascita di bambini affetti da malformazioni non diagnosticate nella fase prenatale o di soggetti nati con malattie genetiche e quindi minorati a causa di mancata informazione da parte del medico nei confronti dei genitori.

 A tali fattispecie si aggiunge anche quella relativa alla nascita di bambini affetti da una patologia trasmessa dai genitori all’atto del concepimento oppure cagionata durante lo sviluppo embrionale.

Pertanto la distinzione più rilevante tra le fattispecie richiamate sopra, attiene alla nascita di un bambino sano oppure affetto da menomazioni.

Tale distinzione dal punto di vista dogmatico non è priva di importanza poiché, nel primo caso, la nascita produrrà danno in sé ed è non voluta (la giurisprudenza anglosassone incentrata sul sistema del Common Law, ha coniato il termine wrongful birth con riferimento alla fattispecie di nascita indesiderata), nell’altro caso invece non è la nascita a costituire fonte di danno e quindi di responsabilità civile, bensì è il danno stesso a derivare da quella particolare condizione al momento del concepimento che prelude ad un’esistenza sofferta configurandosi così un danno diretto per il nascituro e un danno riflesso per i familiari.

Va rilevato all’uopo che la trattazione della tematica in oggetto spesso ha determinato e continua a determinare una certa insoddisfazione nell’opinione pubblica e anche negli stessi studiosi del diritto in considerazione del fatto che la nascita di un essere umano venga considerata come fonte di danno secondo le categorie civilistiche del nostro ordinamento giuridico, come si evince dall’uso sovente dell’espressione “danno da procreazione”, riferita alla nascita indesiderata.

La questione è stata analizzata evidenziando il pregiudizio lamentato dai genitori in conseguenza della nascita di un figlio non desiderato, circostanza lesiva del cosiddetto diritto all’autodeterminazione[1] in materia di procreazione. Da parte della dottrina e della giurisprudenza si è infatti ritenuto che debba essere stabilito il diritto del concepito al risarcimento nel caso di lesioni subite nella fase pre o postnatale e, in quest’ultima ipotesi, per essere nato con handicap o con grave disagio psico-fisico. Il dibattito sulla risarcibilità dei danni patiti da un soggetto già concepito ma non ancora venuto ad esistenza, è stato da sempre piuttosto controverso, data la naturale tendenza ad essere oggetto di argomentazioni anche di carattere etico che risentono indubbiamente della formazione di ciascun operatore del diritto. Ciò in quanto gran parte della dottrina giuridica ha impostato l’impianto argomentativo sul disposto dell’art. 1 del codice civile: da una parte vi è un orientamento che implica il riconoscimento al nascituro dello status di persona avente diritti, almeno a livello potenziale, da un’altra parte, vi è una tendenza a non attribuire al concepito una posizione giuridica soggettiva effettiva, pur riconoscendo ad esso la capacità di essere centro di imputazione di diritti e di interessi da tutelare[2].

In una continua diatriba tra diritto e morale, tra progresso tecnologico e tradizionalismo scientifico, le convinzioni dell’opinione pubblica ovviamente vacillano soprattutto nel caso in cui i controlli medici vengano condotti in modo corretto e, nonostante ciò, si manifesti un danno o un handicap per il nascituro.

Le tecniche diagnostiche mediche riescono normalmente già nelle prime fasi di crescita dell’embrione ad indicare il futuro stato di salute del bambino e purtuttavia è possibile che ciò non accada per motivi riconducibili ad un errore diagnostico che spesso si accompagna ad un omesso obbligo di informazione nei confronti della gestante sulle reali condizioni di salute del bambino.

Se da una parte la diagnosi medica può ingenerare nella madre, a seguito della scoperta di patologie, di malformazioni o di anomalie genetiche, il proposito di ricorrere all’intervento abortivo, nello stesso tempo sorge una conflittualità nella posizione di entrambi i  genitori a fronte della problematica dell’accertamento che il nascituro possa essere affetto da menomazioni tali da non consentirgli di venire ad esistenza o di condurre in futuro una vita sana.

Si suol prospettare così alla madre la possibilità di portare a termine la gravidanza dando alla luce un figlio malato oppure di interromperla e, quindi, di optare per un intervento abortivo  eugenetico in quei casi in cui cioè, per legge, i genitori sono dispensati dall’obbligo di far continuare la gravidanza.

È da osservare che anche sotto il profilo etico oltre che giuridico la decisione di interrompere la gravidanza, seppur nei casi ammessi dalla legge, appare certamente di difficile attuazione, così come appare di non facile approccio la posizione del giurista nell’esprimere la propria opinione in ordine alle responsabilità scaturenti dalle situazioni sopra descritte.

In ordine agli aspetti risarcitori numerose sono le perplessità sorte anche alla luce della conduzione di un’indagine di carattere comparatistico e quindi di confronto con gli ordinamenti giuridici diversi da quello italiano.

La trattazione del tema, alquanto complessa, indubbiamente è influenzata da riflessioni ed esigenze diverse che nascono e si giustificano nel nostro diritto positivo oltre che nel diritto comparato.

Le problematiche che sin dal diritto romano riguardano qui in utero est hanno trovato un fertile terreno di dibattito, non tanto con riferimento al noto brocardo conceptus pro iam habetur quotiens de eius commodis agatur e cioè con riguardo all’acquisto di diritti patrimoniali da parte del concepito, quanto con riferimento al diritto del soggetto di non nascere o di nascere sano.

Per quanto riguarda l’aborto, vanno evidenziati diversi indirizzi giurisprudenziali in materia sia italiani che stranieri, ed in modo differente a seconda che si optasse per l’indirizzo “pro life” ovvero “pro choice” e cioè o a favore del concepito oppure a favore della libera autodeterminazione e pertanto di scelta della madre.

Nel panorama giurisprudenziale e dottrinario degli ultimi tempi si è anche profilata la distinzione tra la fase embrionale e la cosiddetta fase pre-embrionale: all’embrione infatti non ancora formato, secondo la giurisprudenza di matrice anglosassone, non è riconoscibile un diritto alla vita in quanto la persona non si è ancora formata sotto l’aspetto ontologico ma si trova ancora in una condizione di pre-sviluppo.

Il dibattito in corso da tempo tra i giuristi di Civil Law in tema di danno da nascita indesiderata non ha incontrato in materia di “wrongful life” il medesimo trattamento da parte dei Tribunali italiani che non hanno a tutt’oggi riconosciuto al nascituro il diritto di non nascere, di non esistere.

I casi esaminati, oggetto di pronuncia dei Tribunali e delle Corti anglosassoni, hanno fatto sorgere in tutta Europa contestazioni più o meno argomentate, tra diritto e morale, sul presupposto che, secondo certi orientamenti, il diritto di non nascere equivarrebbe ad un rifiuto della persona, di se stessi e, quindi, censurabile.

Secondo un altro indirizzo, si tratterebbe invece di un diritto riconosciuto alla gestante di non far nascere un bambino non sano, diritto estendibile a sua volta al bambino stesso e tale che, in un certo senso, venga attribuito anche a quest’ultimo un diritto di scelta sulla propria vita[3].

Si tratterebbe quindi di distinguere il diritto del soggetto come persona fisica dal diritto del soggetto vittima di un pregiudizio, rapportabile ad una nascita non voluta nei casi sopra previsti. Certamente ciò ha suscitato da un lato un certo interesse, ma dall’altro anche un certo scalpore se ci riferiamo a quanto accaduto in tempi recenti relativamente alla vicenda francese dell’Affaire Perruche, oggetto di una nota sentenza, che ha attribuito ad un adolescente nato handicappato il risarcimento del danno sulla base del riconoscimento del diritto di nascere sani.

In altri ordinamenti giuridici come quello tedesco, invece, non è riconosciuto il medesimo diritto sulla base del tradizionale indirizzo giurisprudenziale in materia di responsabilità civile.

Tale diritto infatti si fonda sulla tutela di valori e di interessi della persona; nonostante la capacità giuridica piena si acquisisca al momento della nascita, è da ammettere purtuttavia una limitata capacità del nascituro condizionata all’evento della nascita nel momento in cui quest’ultima si consideri come momento perfezionativo del fatto dannoso.

Con un ulteriore esame del contenuto della responsabilità civile e quindi del risarcimento del danno si è attribuita anche una rilevanza alla integrità psicofisica della persona di per sé considerata.

A tal proposito i principi enunciati nella sentenza n. 184 del 1986 della Corte Costituzionale, nota come sentenza Dell’Andro, rilevante per la interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2043 c.c., non appaiono limitati alla tutela del diritto alla salute del soggetto ma risultano applicabili con riferimento a tutti gli interessi costituzionalmente protetti e ai diritti inviolabili della persona.

Andrebbero tutelate dunque le situazioni giuridiche soggettive inviolabili ed universali che attribuiscano diritti aventi carattere non patrimoniale e comunque volti a difendere beni che attengano alla persona fisica, cosicché l’essere umano non potrebbe essere concepito nella sua essenza, a prescindere dal godimento di tali diritti[4].

Per quanto concerne le fattispecie[5] richiamate, e in particolare, l’interruzione della gravidanza, va chiarito che trattasi di casi in cui, dopo essere stato effettuato l’aborto secondo le prescrizioni dettate dalla legge n. 194/1978 e quindi anche nell’ipotesi in cui la gestante sia stata dimessa dalla struttura ospedaliera, a distanza di qualche tempo si accerti la persistenza dello stato di gravidanza, ormai scaduti i termini previsti per legge per procedere ad un intervento abortivo suppletivo.

 Da ciò consegue un’azione da parte della madre nei confronti del sanitario al quale si addebiterebbe il fallito intervento interruttivo e della struttura sanitario-ospedaliera, per ottenere il risarcimento dei danni provocati e normalmente quantificabili in una determinata somma di denaro necessaria ad assicurare il mantenimento del concepito sino alla completa autosufficienza economica.

Per prassi consolidata, dottrina e giurisprudenza hanno proceduto alla verifica dell’effettivo rispetto, con riferimento al tempo dell’intervento subito dalla gestante, delle condizioni stabilite dalla legge n. 194, in quanto ex casu adverso si integrerebbero gli estremi di un illecito penale (art. 19 della legge citata) e il mancato rispetto di detta normativa  renderebbe nullo, ai sensi dell’art. 1418 comma 1° c.c., il rapporto contrattuale tra la partoriente e i sanitari[6] impedendo, in tal modo, l’accoglimento della richiesta di risarcimento.

Appare opportuno evidenziare che la legge n. 194 distingue, al fine dell’eseguibilità del procedimento operatorio abortivo, più fasi o periodi della gravidanza.

Per i primi novanta giorni di gestazione, l’art. 4 della legge delimita i presupposti per poter procedere ad aborto, a tutela della donna dal serio pericolo per la sua salute fisica o psichica anche in relazione alle singole disponibilità e condizioni economiche e prevede un procedimento di consultazione socio-sanitaria, affidando alla madre la valutazione sull’opportunità di sottoporsi all’intervento abortivo richiesto.

Dopo i primi 90 giorni l’interruzione della gravidanza può essere praticata, ai sensi dell’art. 6 della legge n. 194, in due casi e cioè quando ricorre un grave pericolo per la vita della gestante o quando venga accertato un processo patologico già in atto e non meramente potenziale, che possa costituire un grave pregiudizio per la salute psicofisica della gestante. Si tratta di situazioni riconducibili all’accertamento del medico e non alla sfera relativa al diritto all’autodeterminazione della madre, come risulta dalla lettura dell’art. 7, comma 1° della suddetta legge.

Inoltre nel momento in cui vi è la possibilità di vita autonoma per il nascituro, l’interruzione della gravidanza può essere praticata soltanto se la prosecuzione della stessa comporti un grave pericolo per la vita della gestante (art. 7 u.c. della legge).

Nelle fattispecie oggetto della giurisprudenza, trattasi di interventi abortivi compiuti nei primi 90 giorni della gravidanza e quindi rientranti nella prima delle fasi richiamate, interventi rivelatisi inefficaci quando ormai l’operazione interruttiva non poteva essere più ripetibile.

Con riferimento alle ipotesi richiamate una delle prime tematiche affrontate dalla giurisprudenza è stata l’individuazione dell’interesse leso[7]; infatti, prima che tale tematica venisse affrontata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, non risulta sia mai stata prospettata, quale evento dannoso, la nascita di un figlio sano in sé e per sé considerata come lesione dell’interesse alla cosiddetta procreazione cosciente e responsabile.

Sono stati introdotti tra gli elementi utili per dimostrare la sussistenza del danno, le conseguenze della nascita del figlio sulle condizioni di salute della madre o di entrambi i genitori, nonché le ripercussioni da un punto di vista economico che la crescita di un figlio comporta di per sé, conformemente a varie pronunce giurisprudenziali.

enuto conto di ciò, al fine di poter ravvisare la responsabilità del medico per fallito intervento abortivo, occorre provare se la condotta colposa del medico, giuridicamente rilevante, possa essere riconducibile all’esecuzione di un intervento di interruzione della gravidanza rilevatosi inefficace.

La mancata interruzione della gravidanza presenta ai fini risarcitori, differenti profili tra cui: i presupposti che legittimano le richieste di intervento abortivo, i danni che possano essere oggetto di pretesa risarcitoria in caso di violazione del diritto di interrompere la gravidanza, l’oggetto della prova per ottenere il risarcimento dei danni fatti valere in giudizio e il diritto del coniuge a titolo di risarcimento del danno.

è indubbio che, in caso di mancata interruzione della gravidanza nei primi novanta giorni (art. 4 legge n. 194)[8], per la determinazione dell’an e del quantum del danno risarcibile, sia necessario individuare il bene giuridico tutelato dalla legge.

Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione[9] per quanto concerne il profilo dell’an del danno, l’interesse protetto ex art. 4 della legge n. 194 è la salute fisica o psichica della gestante e solo l’esistenza di un serio pericolo per la salute della madre legittima l’interruzione della gravidanza[10].

Una volta provato l’an del danno, anche il quantum risarcibile dipende dall’entità della lesione del bene giuridico protetto dalla legge n. 194; infatti il risarcimento è da determinarsi secondo quelle forme necessarie a rimuovere le difficoltà economiche idonee ad incidere negativamente sulla salute della donna e a risarcire quest’ultima dei danni alla salute concretamente subiti[11].

Il medico e la struttura sanitaria rispondono, a titolo di responsabilità contrattuale, trattandosi di un contratto d’opera professionale esistente tra la gestante e la struttura sanitaria[12].

La responsabilità contrattuale inoltre sarebbe cumulabile con la responsabilità extracontrattuale ove il comportamento del medico possa configurarsi come violazione del diritto della madre di scegliere tra l’aborto e il rischio per la propria salute derivante dalla maternità[13].

Né la responsabilità può essere oggetto di limitazione sub specie dell’art. 2236 c.c., disposizione che, secondo la Corte di Cassazione, è applicabile anche alla responsabilità extracontrattuale; l’interruzione della gravidanza, infatti, non rientra nelle tipologie di intervento che comportano una certa perizia non richiedendo la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà.

Per quanto riguarda la posizione giuridica del marito, da talune Corti si è statuito che spetti il risarcimento del danno patrimoniale[14]; secondo altre pronunce invece, tale risarcimento non è dovuto in quanto il padre non sarebbe titolare di un diritto né tampoco di alcuna posizione giuridica soggettiva in ordine all’intervento abortivo.

Alcune sentenze hanno addirittura disconosciuto il padre come legittimato attivamente all'azione risarcitoria e ciò anche considerando il dispositivo di cui alla legge n. 194/78 che tutela esplicitamente la madre.

Recentemente tale orientamento è stato disatteso dalla prevalente giurisprudenza. Infatti è stato affermato che tra i diritti e i doveri che si desumono dalla legge richiamata e dalla Costituzione nonché dallo stesso Codice Civile agli artt. 143, 147, 261 e 279, è da annoverare anche il padre tra i soggetti nei cui confronti l'obbligo di prestazione da parte del medico è dovuto.

[15]. soggetto non certo estraneo alla vicenda e rispetto al quale la prestazione inesatta o mancata è qualificabile come inadempimento nel caso in cui si sia costituito come parte lesa nel giudizio risarcitorio.

Nel caso invece di omessa informazione verso i genitori da parte del medico in ordine alle malformazioni del feto, la Cassazione è intervenuta più volte in quanto spesso i coniugi hanno lamentato la violazione del combinato disposto degli artt. 6 lett. b e 7 della legge 194/1978 che offre la possibilità, dopo la scadenza del termine di novanta giorni previsto dalla legge, di interrompere la gravidanza nel momento in cui si accertino difetti genetici, anomalie o malformazioni del nascituro.

Dall'analisi dell’art. 6 lett. b) della legge sopra richiamata scaturisce indubbiamente la circostanza che, al fine dell’esercizio dell’intervento abortivo, sussista un processo patologico psico-fisico in atto della gestante, determinato esclusivamente dalla malformazione del nascituro.

Il risarcimento dei danni, secondo i principi generali è condizionato alla prova dell’evoluzione del processo patologico che abbia inciso sulla salute della gestante, non essendo sufficiente provare la mancata informazione da parte del medico sulla presenza di anomalie del feto[16].

Il legislatore italiano, a prescindere dalle diverse fattispecie richiamate,in verità ha inteso tutelare l’individuo sin dal suo concepimento alla stregua del fatto che debbono essere impiegati tutti i mezzi possibili al fine di favorire la nascita e il rispetto della salute del bambino in base alla valutazione della dimensione umana del concepito e del diritto dell’individuo in quanto nato.

Tutta la giurisprudenza in materia si adegua sostanzialmente alla tutela dei diritti universalmente riconosciuti dalla dichiarazione dei Diritti dell’uomo del 1950 e che sono stati anche oggetto di successivi provvedimenti normativi da parte di tutti gli Stati aderenti alla Dichiarazione medesima.

 L'essere umano - come è stato rilevato - in quanto tale, è degno di protezione nella sua doppia dimensione di “portatore di un diritto personale da un lato e di un diritto cosiddetto dell’umanità dall'altro”.[17]

Così, se da un punto di vista sostanziale si parla di soggetto concreto, da un punto di vista formale, invece, trattasi di soggetto non considerato più nella sua interezza come persona ma nella sua individualità protetta dal diritto.

 

1.1. Profili generali sul diritto alla salute

Il diritto alla salute trova il proprio fondamento costituzionale nell’art. 32 della Costituzione italiana che dispone: “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e come interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti[18].

Va posta in rilievo che è stata dalla giurisprudenza operata una interpretazione restrittiva della portata normativa dell’art. 32 Cost. ed anche una esegesi puntuale che  riconosce la risarcibilità del “danno biologico”.

In un primo tempo l’ interpretazione del citato art. 32 della Costituzione  si è orientata sul diritto alla salute non sulla base delle condizioni dell’individuo bensì  evidenziando sostanzialmente la sua dimensione fisica. In seguito si è posto in rilievo il valore programmatico dell’art 32 Cost. e quindi non attributivo sic et simpliciter di un diritto immediatamente azionabile se non attraverso l’intermediazione da parte della legge  ordinaria.

 In tempi più recenti la disposizione ha assunto una portata normativa di carattere precettivo. Infatti con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, attuato con legge n. 833/1978, la salute non è stata più considerata come assenza di malattie ma anche come diritto di carattere inviolabile ed assoluto volto alla tutela del benessere fisico, psichico e morale, e  ciò come risultato della lettura del combinato disposto degli artt. 2 e 32 della Costituzione che proteggono il valore della persona umana in quanto tale.

Il diritto alla salute, secondo l’impostazione, frutto della interpretazione avvalorata dalle sentenze n. 87 e 88 del 1979, si è ritenuto come diritto primario ed assoluto la cui indennizzabilità non può essere limitata unicamente alle conseguenze incidenti sull'attitudine a produrre reddito, ma deve comprendere anche gli effetti della lesione del diritto considerato come posizione giuridica soggettiva autonoma .

Tale interpretazione è stata giudicata con favore dalla sentenza n. 3675 del 06.06.1981 con la quale la Corte di Cassazione ha affermato per la prima volta la risarcibilità del danno biologico, ma anche dalla decisione del 6 aprile 1983 n. 2396 con cui la Suprema Corte ha svincolato il danno biologico dall'art. 2059 c.c. collocandolo nell'ambito dell'art. 2043 c.c. e definendolo per la prima volta con riferimento al valore umano, alla personalità morale, intellettuale e culturale del soggetto.

Il diritto alla salute inteso quindi come tutela da qualsiasi menomazione dell'integrità della persona che costituisca un danno ingiusto come conseguenza di un fatto illecito, non sarebbe soltanto un diritto da considerare assoluto con riferimento ai singoli soggetti, ma un diritto di rilevanza collettiva e che ha un carattere  cosiddetto pretensivo prontamente azionabile.

Il dibattito sui limiti e sull’estensione del diritto alla salute recentemente si è arricchito di un significativo contributo apportato dalla Corte di Cassazione, in particolare con la pronuncia delle Sezioni Unite n° 5172 del 1979[19] che ha ricondotto tale diritto al citato precetto costituzionale. La richiamata sentenza della Corte di Cassazione ha esplicitamente confermato il principio, contenuto nell’art. 32 della Costituzione, del diritto della salute come garanzia di una posizione giuridica soggettiva costituzionalmente tutelabile, favorendone un’efficacia precettiva piuttosto che programmatica, con riferimento cioè ai rapporti tra soggetti privati a guisa che la violazione di tale diritto fondamentale comporterebbe una responsabilità del danneggiante ed il conseguenziale risarcimento del danno[20].

In verità è stata così superata l’antica distinzione, operata dalla tradizionale giurisprudenza, tra la concezione secondo la quale avrebbero rilevanza soltanto i diritti espressamente disciplinati od individuati dall’ordinamento giuridico e quella secondo la quale sarebbe sussistente un unico diritto della personalità.

 Il diritto alla salute tutela una situazione giuridica soggettiva di cui ogni individuo è portatore e per cui sussiste un diritto all’integrità psicofisica e anche al sano sviluppo della persona.

La tutela della salute dell’individuo e quindi del concepito è in primis tutela del valore della persona, della dignità e della libertà di essa, sicché ogni trattamento sanitario o medico che sia scorretto o che sia stato oggetto di inadempimento dell’obbligo di informazione da parte del sanitario o che non abbia avuto un esito fausto a causa del comportamento negligente del personale medico o paramedico, incide certamente sulla cosiddetta sfera di autodeterminazione della persona che rientra tra i diritti fondamentali dell’uomo.

La recente esperienza italiana in tema di nascita indesiderata si è arricchita di vari contributi sia giurisprudenziali che dottrinali oggetto di un dibattito che alcuni anni fa era limitato all’analisi e all’indagine degli indirizzi giurisprudenziali stranieri[21].

La risarcibilità del danno derivante dalla lesione del diritto dell’autodeterminazione della persona, ha offerto infatti notevoli contributi alla soluzione della questione relativa alle nascite indesiderate, sia per quanto attiene alla responsabilità del medico, sia alla responsabilità delle strutture ospedaliere[22].

Non voluto o indesiderato è il figlio che nasce affetto da gravi menomazioni fisiche e psichiche nell’ipotesi in cui un errore dei sanitari abbia indotto la madre durante il periodo di gestazione a credere di essere immune dalla malattia trasmessa al figlio o  nel caso in cui il nascituro non sia stato programmato dai genitori i quali hanno comunque il diritto di autodeterminarsi nella scelta procreativa.

 In particolare la giurisprudenza si è occupata di un caso risalente al 1950[23] che, per la novità e il contrasto con i principi giuridici tradizionali, ha suscitato vivaci reazioni anche nella dottrina aprendo il varco ad una serie di questioni che oggi, a distanza di più di cinquant’anni, si ripropongono con una certa frequenza.

Il caso richiamato è quello riguardante una richiesta risarcitoria avanzata da un eredoluetico[24] nei confronti dei genitori che gli avevano trasmesso la sifilide, provocando così una nascita non sana e privandolo di una vita sana e felice.

Il problema della responsabilità per procreazione oggi necessita di alcune considerazioni tenuto conto che il progresso scientifico spesso riesce a prevedere, con un certo margine di certezza, la nascita di un soggetto affetto da gravi malformazioni fisiche o psichiche. La questione sorta sulla base della nota sentenza del Tribunale di Piacenza del 1950 è stata risolta attraverso il ricorso all’obbligo di informazione da parte del medico nei confronti dei genitori, nel senso che se questi ultimi avessero saputo del contagio subito dal nascituro e avessero potuto interrompere la gravidanza, la suddetta questione non sarebbe mai sorta[25].

Una situazione-tipo che si è evidenziata successivamente alla vicenda oggetto della pronuncia del Tribunale di Piacenza, riguarda l’azione incoata dal figlio nei confronti dei genitori per averlo fatto nascere, nonostante la consapevolezza dell’alto rischio di handicap fisico-psichico e l’azione dei genitori e del figlio nei confronti delle strutture medico ospedaliere responsabili per non avere dato le corrette informazioni sulla presenza possibile di anomalie genetiche o malformazioni  sussistendo un nesso di causalità tra la condotta posta in essere e l’evento dannoso, quest’ultimo ravvisabile nella nascita del soggetto.

Il dibattito che è sorto sul caso dell’eredoluetico è utile per affrontare ed esaminare alcune delle esperienze giuridiche straniere in materia di danno da procreazione. Nella terminologia giuridica propria di Common Law si usano espressioni come wrongful birth, wrongful life e wrongful pregnancy in cui, come si è sostenuto da autorevoli studiosi, si fa riferimento ad un atto illecito che è arrecato alla gravidanza, alla nascita in sé e per sé e alle condizioni di vita successive alla nascita stessa[26]. ­­­­­­­­­­­­

Un caso specifico di “tort wrongful life”riguarda la vicenda di V. Zepeda[27], oggetto di esame da parte dei giudici statunitensi, bambino nato a seguito di una relazione adulterina, il quale lamentava di aver subito un danno in quanto messo al mondo in una condizione di figlio illegittimo tale da esporlo alla critica  della opinione pubblica.

Si trattava quindi di una pretesa di risarcimento del danno da parte di un figlio nei confronti del padre per averlo fatto nascere in una condizione in sé e per sé svantaggiosa che, tuttavia, a seguito delle argomentazioni di cui alla  motivazione della decisione  fu giudicata  non suscettibile di accoglimento.

I Giudici infatti si sono pronunciati con sentenza sfavorevole sulla base della non rilevanza dell'eventuale natura illecita della seduzione con promessa di matrimonio, accentrando l'attenzione sull’interrogativo se fosse ammissibile che un fatto illecito potesse essere compiuto contro un soggetto nel momento del suo concepimento.

A far data del caso Zepeda ai casi più recenti, si assiste ad un mutamento del tort wrongful life trattandosi di vicende giudiziarie in cui sono stati  convenuti in giudizio non più i genitori ma gli operatori sanitari e le strutture delineandosi adducendo la negligenza medica come causa di una gravidanza indesiderata o “wrongful conception”[28].

 Nel caso de quo, nonostante la richiesta di risarcimento dei danni fosse   collegabile alla condizione di svantaggio sociale e al diritto ad una esistenza che non andasse contro la dignità della persona stessa, i Giudici non hanno rinvenuto alcuna cosiddetta cause of action rientrante tra i torts né quella relativa al patimento di una sofferenza mentale né quella riconducibile ad una diffamazione del soggetto.

 La doglianza di essere stato privato della serenità familiare e di una situazione di parità con i figli legittimi, secondo la sentenza della Corte, non  costituiva un motivo valido e quindi accoglibile per far riconoscere un proprio diritto agendo contro i genitori.

La tendenza della giurisprudenza americana, dunque, nega la configurabilità del tort wrongful life[29]anche nell’ipotesi in cui il danno sofferto dal nascituro sia riconducibile ad una nascita a seguito di fallimento di intervento interruttivo della gravidanza sia ad errore o negligenza medica, è stato condotto dalla giurisprudenza spesso al risarcimento dei costi di mantenimento e di cura per il bambino.

La soluzione giurisprudenziale  è stata individuata nel danno subito dal bambino sub specie di un danno patrimoniale; pertanto i genitori sono stati dichiarati dalle Corti legittimati ad esperire l'azione scaturente da wrongful conception o wrongful birth con opportune varianti in ordine alla quantificazione dei danni stessi ed in particolar modo dei costi di mantenimento[30].

 In altri casi  si è dichiarata preclusa la possibilità di usufruire dell'azionabilità di tale pretesa per cui è stata dichiarata legittima l’azione risarcitoria del bambino che ha agito personalmente per “wrongful life”, delimitando il “tort”a una fictio iuris tale da sorreggere le pretese spettanti ai genitori ma non più azionabili[31].

Dagli anni 80’ in poi il tort wrongful life è entrato a far parte del sistema della responsabilità medica, distinguendo i casi in cui il minore lamenti che la negligenza del medico abbia comportato il fallimento dell'interruzione della gravidanza[32] determinandone la nascita, dai casi in cui invece la nascita del soggetto fosse caratterizzata da malformazioni ed anomalie prevedibili ne diagnosticabili.

 

1.2.Problematiche in dottrina e giurisprudenza sul fallimento dell’interruzione della gravidanza e sue conseguenze.

Maggiore attenzione va rivolta alla tematica della nascita indesiderata nello scenario della responsabilità civile.

 Nel  nostro ordinamento giuridico, sulla base dell'esperienza di Common Law, si è posto il problema della nascita non voluta come danno di per sé risarcibile.

I Giudici, italiani, in verità hanno risposto a tale interrogativo privilegiando un'analisi delle varie fattispecie che ha dato rilievo non tanto alla "nascita" del bambino in sé e per sé considerata e al pregiudizio economico derivante dal mantenimento del bambino stesso, quanto alla negazione della possibilità di esercizio del diritto di interrompere la gravidanza che la legge attribuisce alla gestante come diritto di scelta tra la prosecuzione della vita del concepito e la tutela della salute.

La mancata interruzione della gravidanza è stata invece oggetto di analisi da parte della dottrina e della giurisprudenza degli ordinamenti stranieri in modo distinto dal nostro ordinamento giuridico; spesso è stata data notevole rilevanza alla nascita come evento in sé e per sé e agli oneri di mantenimento che seguono alla stessa, come è avvenuto negli ordinamenti giuridici francesi o inglesi.

La soluzione offerta dal nostro ordinamento giuridico costituisce una novità in quanto si discosta del tutto dagli indirizzi seguiti dalla tradizione giuridica anglosassone per fondare la risarcibilità del “wrongful birth”, su cui ora ci soffermeremo.

La precedente casistica, invero, riguardava esclusivamente la scorretta esecuzione di interventi abortivi[33]; successivamente sono stati poi oggetto di analisi dottrinaria i problemi inerenti a pregiudizi derivanti ai genitori non dal fallito intervento abortivo ma dal fallimento dell'intervento di vasectomia.

In particolare, il Tribunale di Milano[34], al quale  è estendibile anche la nascita a seguito di fallito intervento abortivo, ha individuato negli artt. 2 e 3 della Costituzione la base per la sussumibilità del diritto alla procreazione libera e cosciente di cui l'art. 13 Cost. è espressione, nella misura in cui esso è esplicativo del potere del soggetto di disporre del proprio corpo, diritto assoluto di libertà, oggetto di garanzie da parte della Carta Costituzionale.

Per quanto riguarda la lesione del diritto all'autodeterminazione, in ordine alla capacità di disporre del proprio corpo, va osservato che il fallito intervento della gravidanza incide negativamente sullo stato di salute della gestante in quanto si può facilmente rilevare che la scelta di procreare "mette in discussione l'idea stessa che una persona ha di se stesso e del proprio legame di coppia"[35].

Consegue che l'errore del medico, sia che si tratti di non corretta esecuzione di intervento interruttivo della gravidanza che di errata consulenza medica o inadempimento dell'obbligo di informazione, lede comunque il diritto assoluto alla salute della gestante tutelato dalla legge n. 194/78 ma anche il diritto alla libertà del soggetto e alla scelta informata che deve essere comunque sempre garantita in ogni trattamento sanitario.

Dalla violazione dell'obbligo di informazione, distinta da quella derivante da inadempimento per  colpa lieve o per esecuzione di intervento privo di perizia e diligenza, deriva la responsabilità contrattuale del personale sanitario per i danni cagionati alla paziente a causa dell'intervento effettuato.

La nascita sic et simpliciter non comporta un danno risarcibile direttamente; difatti si è optato per il riconoscimento del risarcimento del danno alla salute subito dalla gestante, limitatamente alle alterazioni patologiche.

Ci si è orientati dunque da parte della giurisprudenza a superare la tendenza ad un impiego della categoria del c.d. danno biologico in senso non stretto accertata la lesione accertata della salute della donna. Si è pervenuti quindi ad una selezione dei danni risarcibili che sono stati individuati nel pregiudizio arrecato alla salute fisico-psichica della donna mentre l'impiego del danno biologico si è rivelato un buon appiglio sulla base del quale individuare il bene giuridico protetto dall'ordinamento a fronte di un atto del medico responsabile dell'intervento che ha inciso sulla scelta procreativa della madre e di conseguenza di entrambi i coniugi[36].

A partire dalla nota sentenza del Tribunale di Padova 9.8.1985,[37] è seguito un orientamento che ha riconosciuto meramente un danno di carattere patrimoniale con il conseguente risarcimento per gli oneri di mantenimento del bambino a causa della condotta inadempiente del medico.

Vi è stato un unanime assenso sul danno patrimoniale gravante sul medico responsabile del fallito intervento di interruzione della gravidanza, sia della struttura sanitaria presso cui quest'ultimo abbia prestato la propria attività professionale.

Non il medesimo orientamento invece è stato adottato dalle Corti in ordine ai soggetti beneficiari del risarcimento; da questo punto di vista la situazione giuridica italiana appare piuttosto contrastata e presenta notevoli divergenze di opinione nella determinazione dei danni risarcibili.

Si è riconosciuto infatti un danno da wrongful birth a seguito del fallimento dell'intervento interruttivo nel caso della sentenza del Tribunale di Padova 9.8.1985, confermata dalla Corte di Appello di Venezia; non così è avvenuto in altre pronunce giurisprudenziali[38] in cui si è ritenuto che gli unici danni risarcibili siano quelli fisici e psichici subiti dalla madre sulla base della disciplina offerta dall'art. 4 della Legge n. 194/1978.

Nella sentenza di appello alla pronuncia del Tribunale di Padova, infatti, secondo quanto esposto dai genitori del piccolo, i quali lamentavano che la mancata interruzione della gravidanza fosse dovuta ad imperizia o negligenza di chi aveva effettuato l'intervento e a seguito del decorso post-operatorio, si è evidenziato che la nascita non voluta aveva posto i genitori della partoriente in notevole difficoltà finanziaria in ordine all'obbligo di allevare e mantenere il bambino.

La Corte altresì, nella fattispecie, ha optato per il riconoscimento al padre della legittimazione a stare in giudizio e si è pronunciata sfavorevolmente alla domanda di parte attrice circa l'attribuzione del fallimento della gravidanza al medico per colpa ed imperizia e non è stato riconosciuto l’obbligo di mantenimento del figlio fino all’età lavorativa e non è stata ascritta alcuna colpa alla struttura ospedaliera in cui è stato praticato l'intervento.

La Corte Costituzionale ha sempre escluso una rilevanza della volontà paterna nella determinazione della scelta abortiva ma non mancano decisioni che hanno riconosciuto ad entrambi i genitori il risarcimento del danno biologico e del danno patrimoniale in considerazione dei costi da sostenere per il mantenimento del bambino, soprattutto in caso di malformazioni accertate nonostante l’espletamento di controlli medici.

Occorre  enunciare due percorsi orientativi della giurisprudenza riguardanti il danno: il primo riferibile alla pronuncia del Tribunale di Cagliari del 3.2.1995, che si è collocata in una posizione isolata rispetto ad altre decisioni, equiparando la nascita di un figlio non voluto ad una perdita patrimoniale in termini di danno emergente, come tale risarcibile in termini di oneri di mantenimento del figlio fino al raggiungimento della sua autonomia economica, in quanto danno conseguente all'inadempimento del medico derivante dalla mancata interruzione della gravidanza per negligenza medica, così trascurando tacitamente la rilevanza del valore della vita umana e quindi la lesione della dignità del bambino.

In tale prospettiva la giurisprudenza straniera e in particolare quella anglosassone ha analizzato la questione se la nascita possa considerarsi un danno risarcibile in termini di public policy rilevando che l’ammettere il risarcimento del danno per nascita indesiderata potrebbe essere in contrasto con i diritti garantiti dalla Costituzione come quello della tutela del bambino e della famiglia intesa come tessuto sociale ed ambiente dove la vita del bambino si svolge prevalentemente.

In Germania, ad esempio, ci si è posti la domanda se ammettere l'esperibilità dell'azione risarcitoria da parte dei genitori non fosse in contrasto con l'art. 1 della legge fondamentale tedesca, che tutela, tra l'altro, la dignità dell'essere umano[39]. La soluzione offerta dalle Corti tedesche spesso è stata volta a non riconoscere un risarcimento del danno subito poiché non è stato riconosciuto risarcibile il diritto a non nascere, a non esistere.

Si è ammesso da parte di alcune Corti statunitensi la possibilità di esperire un'azione a tutela del bambino volta alla determinazione di un danno scaturente dal non essere stato abortito, cioè dall'essere sostanzialmente nato.

Il diritto di non nascere è stato così oggetto di un continuo braccio di ferro tra i sostenitori del diritto a non esistere come è accaduto nell'Affaire Perruche, e coloro invece che, con riferimento all’'evento nascita, non hanno considerato la possibilità per un individuo di lamentarsi di un danno per il solo fatto di essere nato.

Storicamente, infatti, questi ultimi e, in particolar modo, le Corti americane hanno negato qualsiasi diritto al risarcimento a fronte di gravidanze indesiderate sulla base della cosiddetta “blessing doctrine”, secondo cui la nascita di un essere umano non è mai un danno ma è una benedizione e ciò preclude qualsiasi risarcimento.

Intorno agli anni Sessanta, però, i Giudici americani sono pervenuti ad una diversa soluzione affermando che la nascita di un soggetto potesse essere non un “evento benedetto”, in modo così da attribuire un risarcimento al genitore per i costi di mantenimento del figlio e aprendo così la via ad un risarcimento della cosiddetta “wrongful pregnancy”.

Recentemente, in Italia, invece, il secondo modello di decisione in materia di fallimento dell'intervento interruttivo della gravidanza, ha portato alla ribalta il danno biologico che è comparso sullo scenario della nascita indesiderata non più come danno-evento, sulla base dell'applicazione dell'art. 2043 c.c., norma che pone come limite della rilevanza giuridica l'ingiustizia del danno e non la patrimonialità del danno stesso, bensì come danno-conseguenza risarcibile ex art. 2059 c.c. sulla base del nesso di conseguenzialità tra la condotta posta in essere dal medico e il danno sofferto dalla paziente[40].

Il duplice rilievo del danno biologico sulla base dell'art. 2043 e dell'art. 2059 c.c. ha condotto alla rilevanza giuridica di esso come danno ingiusto e quindi come lesione di un diritto costituzionalmente protetto e come danno non patrimoniale risarcibile sulla base delle conseguenze pregiudizievoli alla salute del soggetto ammettendo quindi una risarcibilità sulla base dell'applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. sopra richiamati.

 Con una sentenza dell’ottobre del 2003 con un nuovo orientamento della Corte di Cassazione si è escluso il cumulo di danno biologico ed esistenziale richiesti nello stesso giudizio in quanto una volta che si risarcisca il danno biologico non sarebbe consentita la liquidazione di altri danni definiti esistenziali come il danno morale in favore dei genitori causato da una lesione della salute o il danno da sconvolgimento delle abitudini di vita e quindi rientrante nella categoria del danno alla vita di relazione[41].

Così l'interrogativo sulla risarcibilità del danno a seguito dell'evento nascita è conseguenziale alla lesione dei diritti inviolabili che fanno capo alla persona di chi quella nascita non avrebbe voluto, lesione che si riverbera nel patrimonio materiale e morale oltre che affettivo del soggetto leso.

La riconduzione del danno non patrimoniale all'art. 2059 c.c. ha altresì condotto la dottrina alla configurabilità di quest'ultimo come danno morale soggettivo, che è alla base della lesione della tutela dei diritti fondamentali.

Invero il disposto ex. art. 2059 c.c., originariamente riferibile ai soli danni morali, secondo l’orientamento comunemente accettato, è stato esteso al danno biologico del soggetto leso, con la possibilità così di risarcire il genitore di un bambino per danni riflessi. conseguenza della lesione del diritto alla vita del soggetto nato.

Il danno alla salute - si legge nella motivazione della sentenza della Corte d'Appello di Cagliari del 12 novembre 1998 allorchè sia stata accertata la responsabilità del sanitario per mancata interruzione della gravidanza e quella solidale della struttura sanitaria per il danno subito dalla donna per la messa in pericolo della salute o di un danno effettivo della salute stessa -, costituirebbe il momento terminale di un processo patogeno originato dal turbamento dell'equilibrio psichico che provocherebbe un danno morale soggettivo e che, anziché esaurirsi in un patema d'animo,si tradurrebbe  in uno stato di angoscia cui va  commisurato il cosiddetto pretium doloris.

 Tale affermazione non urta con quella contenuta nella motivazione della sentenza che afferma la risarcibilità del danno biologico sulla base dell'art. 2043 c.c. la cui ratio deve essere coordinata con l'esigenza dell'effettività della tutela dei diritti fondamentali avvalendosi del principio dell’analogia iuris.

Il danno biologico è da risarcire in quanto danno alla salute non soltanto in senso stretto ma in tutte le sue forme anche di carattere patrimoniale, economico in forza della cosiddetta causalità adeguata, intendendosi per quest’ultima il rapporto che si viene a creare tra il comportamento e l'evento dannoso per cui il coniuge può chiedere il risarcimento del danno riflesso. Sulla base di ciò, la giurisprudenza, applicando il criterio della regolarità causale, ha ammesso anche il risarcimento dei danni indiretti che però siano effetto normale della condotta del medico[42].

In tal senso l'art. 2059 c.c., non sarebbe più oggetto di applicazione limitatamente ai casi di risarcimento del danno non patrimoniale a seguito di evento di reato, stante il combinato disposto tra gli artt. 2059 c.c. e l'art. 85 c.p., ma diventerebbe oggetto di lettura attraverso l'immediato riferimento all'art. 2043 c.c..

Purtuttavia la Corte d'Appello di Cagliari con sentenza  del 1998 ha escluso che la nascita di un figlio, sia esso sano o non sano, possa comportare un danno risarcibile, mentre è stato riconosciuto rilievo esclusivo al danno alla salute subito dalla madre che non desiderava appunto quella nascita.

Ha ritenuto la Corte che la circostanza che i medici non abbiano voluto interrompere la gravidanza della gestante a seguito di un giudizio diagnostico, si fonda su un ragionamento condotto in via ipotetica per decidere se innanzi all'esercizio dell'obbligo di informazione da parte del medico, che avrebbe senz'altro accertato l'ipotesi di una nascita di un figlio portatore di sindrome di Down, potesse essere possibile, almeno in termini probabilistici, accertare una patologia certamente considerata come un grave pericolo per la salute psichica della donna.

Il diritto alla salute è stato considerato dai Giudici cagliaritani l'unico interesse protetto dalla legge sull'aborto; dal momento in cui la donna avrebbe potuto esercitare il diritto di interrompere la gravidanza, se dagli esami medici effettuati si fosse accertata un'evoluzione patologica embrionale, il danno sarebbe stato certamente risarcibile.

Il comportamento del medico è stato così considerato causa concorrente dell'evento-nascita indesiderata; nel caso di specie esaminata l'inadempimento del medico assumerebbe rilievo sotto il profilo causale in quanto l'adempimento dell'obbligo di informazione avrebbe certamente offerto la possibilità di scegliere tra  l'interruzione volontaria della gravidanza e la conduzione a termine della stessa[43].

La decisione del Tribunale di Cagliari ha operato un distinguo  nel rapporto tra gestante e concepito e tra gestante e struttura sanitaria. Infatti si è ritenuto – come si legge nella motivazione della sentenza – che, sulla base dei principi in tema di responsabilità per inadempimento dell'obbligazione, la scorretta esecuzione della prestazione obblighi il responsabile al risarcimento di tutti i danni che in conseguenza del suo operato si siano verificati nel patrimonio del creditore.

Inoltre, si ribadisce che mentre nei confronti del nascituro ciò che è tutelato attiene all'interesse della gestante alla conservazione dell'integrità psico-fisica, nei rapporti tra paziente e medico anche l’aspetto patrimoniale acquista rilevanza e deve essere dunque reintegrato in caso di lesione conseguente ad inadempimento.

Conformemente ai principi costituzionalmente garantiti, secondo i Giudici del Tribunale di Cagliari, non rientrerebbero tra le voci di risarcimento le spese che attengono al vitto e all'alloggio, ma quelle che rilevano ai fini dell'educazione e della istruzione della prole fino al raggiungimento della indipendenza economica di quest’ultima.

Inoltre, fatto salvo il caso della distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato, il fallimento dell’intervento abortivo viene in rilievo allorché, secondo le regole generali, l'insuccesso è da attribuirsi alla negligenza ed imperizia del sanitario e non quando il risultato finale non soddisfi le aspettative nonostante l'intervento sia stato eseguito secondo le legis artis.

In tal caso infatti non si potrebbe profilare una possibilità di risarcimento per la violazione di diritti dichiarati costituzionalmente garantiti come quello del diritto assoluto alla salute, inviolabile, "di carattere non specificamente patrimoniale ma immanente alla persona al punto da non potersi concepire l'essere umano, almeno in termini moderni, a prescindere dal godimento di questi diritti"[44].

In Germania, in caso di infruttuoso intervento di interruzione della gravidanza addebitabile alla condotta colposa del medico, invece, i Giudici ai fini risarcitori, in linea generale, hanno ritenuto rilevante il motivo addotto per il quale la donna sia stata sottoposta all'intervento.

Nel caso in cui il ricorso all'intervento abortivo non sia stato dettato da motivi di necessità e di urgenza a causa di problemi di salute per la gestante, poiché il bene giuridico in oggetto considerato dai Giudici tedeschi è il bene alla salute, non si scorgono elementi validi per un risarcimento di eventuali conseguenze negative alla nascita considerato che i costi di mantenimento, di educazione, di vitto e di alloggio del bambino non sono compresi tra le voci risarcitorie[45].

Nel caso in cui invece la decisione di interrompere la gravidanza sia dipesa dalle condizioni economiche finanziarie disagiate o da problemi relativi alla sfera relazionale o psichica della donna, il motivo per cui sia stato ammesso il risarcimento viene meno dal momento in cui sono venuti meno i problemi economici e sociali della madre[46].

Anche in altri Stati come la Francia, a partire dalla nota sentenza del Conseil d'Etat del 2-7-1982, relativa al caso di intervento interruttivo della gravidanza non perfettamente riuscito in quanto successivamente la donna si era accorta del permanere dello stato della gravidanza a seguito della scadenza del termine legale di dieci settimane dal concepimento, la nascita del bambino non costituisce danno risarcibile eccetto che siano sussistenti condizioni particolari della gestante tali da addurre la possibilità della richiesta del risarcimento del danno.

 

1.3. Fallimento dell’intervento di sterilizzazione.

Quanto alla nascita indesiderata correlata ad un errato intervento di sterilizzazione, ad esempio di intervento non riuscito di vasectomia, la questione non pone dei particolari interrogativi o problemi per quanto concerne la quantificazione del danno in termini risarcitori.

La lesione della libertà di scelta in campo procreativo cagionata da un errato intervento di sterilizzazione, infatti, è risarcibile sulla base del combinato disposto dell'art. 2043 c.c. e dell'art. 2 della Costituzione.

L'erronea sterilizzazione di uno dei coniugi incide sul diritto primario di libertà e di autodeterminarsi rispetto alla vita dei coniugi stessi come singoli e come coppia, nonché sulla lesione alla compromissione del diritto alla procreazione responsabile.

 Dall’accezione particolare rappresentata dal diritto alla procreazione cosciente e responsabile, sorretto dal dettato costituzionale e in particolar modo dall'art. 2 Cost., discende un iter risarcitorio, in cui la quantificazione dell'obbligazione professionale del medico in termini di obbligazione di risultato si traduce in danno-evento che si ritiene presuntivamente esistente e consiste nello stravolgimento della vita di più persone, con abitudini, passatempi, ritmi biologici, forzatamente mutati, nella perdita di chance lavorativa nella modifica della vita di relazione, insomma nel totale cambiamento delle abitudini di vita che la nascita di un figlio comporta nella vita di coppia, senza che questa abbia potuto deciderlo[47].

Nella fattispecie di cui alla sentenza 17.07.2001 del Tribunale di Busto Arsizio[48], a seguito di fallimento di intervento di vasectomia e nascita di una bambina sana, i coniugi, ravvisando la responsabilità del medico per la nascita della figlia, chiesero il risarcimento dei danni patrimoniali e di quelli derivanti dalla lesione di diritti costituzionalmente protetti, quali l'autodeterminazione in ordine della procreazione.

La responsabilità del professionista è stata individuata dal Giudice adito nella mancanza di diligenza non solo nell'eseguire un intervento semplice e di routine- sebbene la facilità di tale intervento sia stata spesso messa in dubbio con riferimento alla possibilità in termini percentuali di non riuscita- ma nel non avere fornito al paziente le indicazioni da seguire e le indagini post-operatorie da effettuarsi dopo un  intervento di tal genere.

Il risarcimento del danno patrimoniale è stato riconosciuto non per la nascita in sé, ma per le conseguenze patrimoniali che l’esito negativo dello stesso intervento comporta; nel caso considerato si trattava di un danno non patrimoniale, liquidato sotto forma di danno esistenziale in quanto individuato come danno-evento sussistente a causa della citata lesione al diritto della procreazione.

Il punto focale della motivazione della menzionata sentenza, come anche di altre pronunce giurisprudenziali[49], è dato dal riconoscimento di un diritto alla programmazione della gravidanza e al risarcimento dei danni da nascita indesiderata. La pronuncia del giudice varesino relativamente alla considerazione del risultato del fallito intervento operatorio nei termini di “wrongful pregnancy”[50], è stata oggetto di discussione da parte di ampia casistica giurisprudenziale sia italiana che straniera[51], soprattutto per l’interessante percorso argomentativo sulle varie questioni attinenti la responsabilità medica.

A partire dagli anni '80, la tutela risarcitoria si è estesa alle fattispecie in cui la nascita del bambino sia stata giudicata dai genitori, nel caso di procreazione non programmata, come evento infausto non soltanto nei casi in cui il figlio nasca malformato - come nell'ipotesi della madre che ha contratto la rosolia durante la gestazione [52] - ma anche nel caso in cui la nascita avvenga contrariamente alla volontà della coppia procreatrice.

è mancata per la verità una linea-guida per la individuazione dei criteri di quantificazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali; a partire dalla richiamata sentenza del Tribunale lombardo risarcitorie avanzate da una coppia è stato affrontato il problema della liceità della vasectomia come metodo di sterilizzazione volontaria, sulla base del ricorso al dettato dell'art. 583 c.p. 2° comma, laddove è prevista come circostanza aggravante l'ipotesi in cui dal fatto lesivo della persona sia derivata la perdita della capacità di procreare.

Si è posto in rilievo così il problema della illiceità penale della vasectomia e delle pratiche di sterilizzazione volontaria non terapeutica, cioè non eugenetica[53].

Non tutti tuttavia, hanno condiviso, in dottrina, tale impostazione del problema; infatti, si è notato che dal ragionamento logico-giuridico che aveva condotto all'abrogazione dell'art. 552 c.p. (così formulato: chiunque compie su persona dell'una o dell'altro sesso, col concorso di questa, atti diretti a renderla impotente alla procreazione, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni; alla stessa pena soggiace chi ha acconsentito al compimento di tali atti sulla propria persona), si sarebbe dovuta dedurre la piena legittimazione della sterilizzazione e l'impossibilità di applicare a tali tipi di intervento l'art. 583 c.p..

Dalla massima della sentenza del Tribunale di Lucca del 07.05.1982, è stato posto  in luce che ogni individuo può avanzare un interesse individuale per cui la capacità di procreare costituisce un bene disponibile e non è ravvisabile alcun contrasto tra la disponibilità di questo bene e il fatto che la sterilizzazione non consensuale configuri il diritto di lesioni gravissime.

La Corte di Appello di Firenze statuì successivamente che il diritto alla procreazione cosciente e responsabile presuppone certamente che il soggetto possa procreare o non procreare a seconda delle sue libere e responsabili scelte, ma che tale diritto non possa comunque trovare una realizzazione con la sterilizzazione.

A sostegno di tale tesi è stato preso in considerazione l'art. 5 c.c. che non faceva altro che avvalorare l'indisponibilità del bene giuridico rappresentato dalla capacità di procreare sicché il consenso in ordine alla sterilizzazione non poteva essere considerato valido.

La Cassazione, però, chiamata a decidere sul caso oggetto di giudizio della Corte di Appello di Firenze, sulla base dell'abrogazione dell'art. 552 c.p. ad opera dell'art. 22 della legge n. 194/78, osservò che l'illiceità penale della sterilizzazione era venuta meno e che non poteva essere comunque affermata con riferimento al reato di lesioni gravissime non suscettibili di applicazione della scriminante del consenso dell'avente diritto.

La soluzione a favore della liceità della vasectomia non era pertanto in contrasto con il divieto degli atti dispositivi del proprio corpo, divieto comportante una diminuzione permanente dell'integrità fisica di cui all'art. 5 c.c., laddove la lesione dell'integrità fosse il risultato di una scelta dell'individuo.

Dal frequente richiamo degli artt. 2 e 13 della Costituzione si evince facilmente che nella piena tutela dei diritti fondamentali dell'individuo indotto la libera scelta attuata attraverso atti dispositivi del proprio corpo,in ordine alla procreazione responsabile, non sia altro che la estrinsecazione di un diritto assoluto di libertà, garantito e protetto dalla Costituzione[54].

L'art. 5 c.c. quindi non può più essere letto in combinato disposto con gli artt. 2 e 13 Cost. bensì è suscettibile di trovare una diversa interpretazione stante il contenuto dell’art. 32 Cost.

Ciò significa che la libertà dell'individuo comporta la possibilità di programmare la propria vita familiare ed anche la libertà di scelta di poter optare nei casi opportuni per la sterilizzazione.

Per quanto concerne la responsabilità del medico, la decisione del Tribunale di Firenze, sul caso Conciani, evidenzia argomentazioni di un certo interesse relative al contenuto del dovere di informazione posto a carico del medico e della struttura sanitaria, obbligo che sussiste- come osservato- per l’intervento interruttivo della gravidanza[55];infatti è stata accolta dai giudici, oltre alla domanda di risarcimento dei danni patrimoniali e morali, anche la liquidazione del danno alla salute.

è da osservare che in altri casi i Tribunali, distinguendo tra danno-evento e danno-conseguenza, hanno ravvisato il danno-evento nella lesione del diritto primario alla procreazione libera e cosciente ed  hanno riconosciuto attraverso un iter piuttosto complesso, sul piano della logica giuridica in materia di danno non patrimoniale, anche un danno esistenziale,[56]con riferimento cioè ai pregiudizi non suscettibili di una valutazione ancorata a meri valori economici.

La libertà di autodeterminazione da parte dei genitori per consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale è condizionata al consenso del paziente che rende lecita la prestazione del medico, come si ricava dallo stesso codice di deontologia, tanto che per la validità del consenso alla sterilizzazione volontaria ,esso deve risultare da forma scritta.

Il consenso del paziente deve essere essere preceduto da una informazione da parte del medico sul quale grava inoltre l’obbligo di effettuare dei controlli a seguito dell'intervento operatorio, tenuto conto che potrebbe presentarsi in futuro una gravidanza non voluta.

        Per quanto riguarda l'analisi da parte della giurisprudenza straniera in ordine al fallito intervento di vasectomia da cui scaturisca una “wrongful birth”, è necessario puntualizzare il fatto che spesso i giudici hanno compensato i danni subiti con gli aspetti positivi della nascita riconoscendo all'attore, nella fattispecie il padre[57],  una  titolarità piena del diritto ad agire e quindi una piena


 legittimazione giuridica, rinvenendo nel comportamento del convenuto la lesione dei diritti di parte attrice e considerando il comportamento dell'attore che ha subito i danni.

Dalla letteratura giurisprudenziale in materia si è appreso che alla madre spesso  è stata accolta la domanda di risarcimento di un danno psichico da "pain e suffering" mentre ad entrambi i coniugi è stato attribuito un risarcimento relativo agli oneri di mantenimento del bambino sino alla maggiore età e quindi fino al raggiungimento della completa indipendenza economica.

Tale forma di indennizzo è stata compensata in sede giudiziale ,per quanto attiene alle richieste risarcitorie, con i presunti benefici morali e materiali comunque apportati dal bambino, trattandosi comunque di soggetto sano alla sua famiglia.

 La nascita dunque viene vista come un lieto evento; le pronunce anglosassoni non accordano alcun rilievo giuridico al diritto a non nascere e quindi a negare ogni prospettiva di una vita futura, in quanto l’eventuale risarcimento del danno a sua volta ingenerebbe un danno tenuto conto dei principi, dei valori sociali e culturali che informano l'ordinamento giuridico anglosassone.

 

2.1.    Nascita di un bambino malformato e responsabilità del medico e della struttura sanitaria–ospedaliera: ipotesi di wrongful birth e wrongful life

Più problematica appare la questione relativa al risarcimento dei danni subiti dai genitori di un bambino a causa della mancata diagnosi o della omessa informazione circa le malformazioni ed anomalie genetiche del nascituro.

Nel nostro sistema giuridico il “tort wrongful life”, inizialmente introdotto a seguito dell'azione giudiziaria intrapresa da un figlio naturale nei confronti del padre per trasmissione dell'infezione luetica, si è venuto anche a configurare nella casistica giurisprudenziale, relativamente a quelle fattispecie in cui la negligenza del medico ha privato la donna della possibilità di fare ricorso all'interruzione volontaria della gravidanza per motivi di salute e comunque terapeutici, volti alla salvaguardia dell'integrità psicofisica della gestante, provocando nel bambino non soltanto problemi psicofisici, ma anche prospettando una esistenza che si è rivela  wrongful se comparata alla alternativa della non vita.

Le varie vicende giudiziarie che hanno tratto origine dai casi di responsabilità medica per omissione nella diagnosi prenatale delle anomalie fetali, presentano nella loro essenza un aspetto univoco che le contraddistingue e, nello stesso tempo, le accomuna; ciò si evince dal fatto che i protagonisti, parti del giudizio, sono sia il bambino nato, che agisce per wrongful life, sia i genitori per wrongful birth, mentre nei successivi gradi del giudizio si assiste soltanto alla presenza di richieste risarcitorie avanzate dai genitori del figlio con gravi malformazioni.

Per tali ragioni, i Giudici di legittimità non hanno mai risolto la questione dell'ammissibilità o meno nel nostro sistema giuridico del tort wrongful life[58].

A pronunciarsi invece sulle azioni giudiziarie esperite dal soggetto nato con handicap è stata, quasi esclusivamente, la giurisprudenza di merito e le motivazioni delle varie pronunce hanno giustificato il non accoglimento della domanda risarcitoria da parte del bambino nato con handicap, configurando così un'esclusione dell'azione wrongful life nel nostro ordinamento.

In ordine alla lesione del diritto all'interruzione della gravidanza per omessa diagnosi di malformazione del nascituro con conseguente nascita indesiderata, la responsabilità del medico deriva dall'inadempimento di un'obbligazione di natura contrattuale; l’accertamento delle condizioni del nascituro e la formulazione della corrispondente diagnosi, impiegando la diligenza e la perizia richieste, consentirebbero alla donna di evitare il pregiudizio che le deriverebbe in caso di gravi malformazioni del figlio, esponendo così il medico alla responsabilità per i danni che derivino dall'art. 1218 c.c.[59].

In giurisprudenza, per quanto concerne l'omessa informazione da parte dei sanitari sull'accertata malformazione e conseguente minorazione del nascituro, è prevalente l'affermazione secondo cui il risarcimento del danno per il mancato esercizio del diritto all'interruzione della gravidanza è pienamente riconosciuto alla gestante.

E tale risarcimento è riconoscibile non per il solo fatto dell'inadempimento dell'obbligo di esatta informazione che il sanitario è tenuto ad adempiere, ma nel caso in cui si provi la sussistenza delle condizioni tali da ricorrere all'esercizio del diritto all'interruzione della gravidanza.

 Il solo inadempimento del dovere di esatta informazione da parte del sanitario può dare luogo al diritto al risarcimento del danno eventuale ma non al risarcimento del danno conseguente alla lesione del diritto all'interruzione della gravidanza se non nella ipotesi in cui sia provata la sussistenza degli elementi integrativi della fattispecie per il legittimo esercizio di tale diritto[60].

Sulla base di questo orientamento, la Cassazione con sentenza del 24.3.1999, n. 2793 ha sostenuto che la mera violazione dell'obbligo di informazione da parte dei sanitari non è da sola sufficiente alla determinazione di un risarcimento.

La lesione del diritto ad interrompere la gravidanza, può infatti sussistere soltanto laddove siano presenti anche le condizioni di legge che tali interruzioni consentono. Al fine di ottenere un risarcimento del danno, ha carattere prioritario l'accertamento della sussistenza delle condizioni richieste dalla legge n. 194/78 per procedere all'aborto.

Diverse sono la problematiche che sono scaturite a partire dalla sentenza del Tribunale di Verona del 15.10.1990 secondo cui il concepito, in assenza delle condizioni che consentano l'interruzione della gravidanza, è portatore di una posizione giuridica soggettiva che consiste nella legittima aspettativa alla nascita come individuo sano.

L'art. 2 della Costituzione tutelerebbe l'essere umano sin dal suo concepimento come si può evincere dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 18.02.1975, secondo cui si giustificherebbe la estendibilità del disposto di cui all'art. 1°, 2° comma, c.c., anche a diritti diversi da quelli previsti come diritto alla salute.

In base al diritto civile il nascituro, ai sensi della pronuncia della Corte di Cassazione n. 11625/2000, acquista la capacità giuridica con la nascita, ex art. 1°, 2° comma c.c., con la quale sono attribuiti diritti patrimoniali riferibili ad un soggetto “in fieri”, in quanto il concepito può essere tutelato nonostante non sia riconosciutagli una soggettività piena e quindi effettiva[61].

Per quanto riguarda la responsabilità della struttura ospedaliera, il Tribunale di Verona ha ritenuto che debba essere di tipo contrattuale, in quanto tra la gestante e l'ente si instaura, come già detto in premessa, un contratto atipico di spedalità.

Pertanto si instaurerebbe una cumulabilità tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale; ciò consentirebbe al nato di agire per il risarcimento dei danni verificatisi durante la gravidanza nella misura in cui  si tratterebbe di ricondurre la questione ad un contratto a favore di terzo, ammesso nell’ipotesi in cui il beneficiario non sia ancora nato al momento della stipulazione del contratto.

Secondo un certo orientamento giurisprudenziale, però, tale argomentazione non sembra del tutto corretta, in quanto il contratto a favore di terzo non può sussistere nel momento in cui il terzo ricava un vantaggio dallo stesso contratto senza però acquistare la titolarità del diritto, come si può facilmente evincere dall'art. 1411, 2° comma c.c..

 

Il Tribunale di Verona non ha comunque condiviso appieno la tesi del contratto a favore di terzo e, al fine di giustificare un diritto del nato ad ottenere un risarcimento del danno, si è orientato verso la tesi che qualifica il contratto tra l'ente ospedaliero e la paziente come contratto con effetti protettivi a favore dei terzi[62].

Ciò è configurabile quando dal contratto si deduce l'attribuzione al terzo, nel nostro caso al bambino, di un diritto non al conseguimento della prestazione principale, che è quella inerente al rapporto tra gestante e medico/struttura ospedaliera, ma all'esecuzione corretta di essa tale da evitare danni al terzo e cioè al nato stesso; di conseguenza, nel caso in cui sussiste una responsabilità di un medico rappresentante di un ente ospedaliero, il nato con malformazioni e anomalie fisico-psichiche può agire nei confronti dell'ente ospedaliero al fine di ottenere il risarcimento del danno[63].

Per quanto concerne le voci di danno risarcibili, esse sono da ravvisare non solo nel danno biologico ma anche nel danno morale cagionato dalle gravissime lesioni subite dal figlio al momento della nascita, quest’ultimo  riconosciuto dalla sentenza del Tribunale di Verona del 4.3.1991.              

Successivamente, la Cassazione con sentenza del 22.11.1993 n. 11503 ha ammesso la risarcibilità dei danni subiti dal nato per fatti avvenuti durante la gravidanza, applicando l'art. 2043 c.c. senza alcun ricorso all'art. 2059 c.c. in materia di risarcimento di danni non patrimoniali, senza che costituisse un impedimento la mancanza della capacità giuridica nella fase di vita embrionale e quindi intrauterina.

Il concepito dunque è un centro di interessi giuridicamente tutelati, come si deduce dalla lettura del già citato art. 32 della Costituzione, che non tutela soltanto la salute del nato, ma anche il dovere di assicurare le condizioni favorevoli nel periodo antecedente alla nascita, e quindi la tutela della vita prenatale, volte a garantire l'integrità del nascituro.

Da questa norma si trae la convinzione che da qualche tempo la giurisprudenza si sia avviata verso un riconoscimento di una tutela civilistica al già nato per una lesione subita nella vita prenatale le cui conseguenze si manifestano dopo la nascita,[64]e ciò sulla base del riconoscimento di una più piena e concreta protezione e tutela del bambino[65].

Il fatto illecito che è causato dal medico è punibile sulla base dell'esigenza di tutela del nascituro con riferimento al diritto alla serenità familiare, ad una corretta vita di relazione dei genitori, alla completa formazione della personalità del soggetto nato, tutti elementi valutabili ai fini della quantificabilità del danno accertato.

Il bene giuridico, che esige immediata protezione, riguarda non solo in astratto la salute fisica, ma ha come referente la persona e in particolar modo la personalità del nascituro, soggetto di diritto che secondo l'art. 2 della Costituzione esige rispetto del suo status inteso come insieme di valori connessi al suo sviluppo e alla sua formazione.

L'evoluzione del dibattito sui temi della bioetica sullo status del concepito ha comportato un'eliminazione della nozione di persona della quale è espressione la nozione più generica di capacità giuridica[66]mentre in passato la dottrina si era soffermata a favore di una soggettività affievolita o ridotta[67] con riferimento al nascituro come centro di rapporti giuridici nella previsione e nell'attesa della persona e quindi del pieno sviluppo dell'essere.

Sussisterebbe dunque un diritto-dovere di autotutela del medico, un diritto ad una corretta diagnosi ad una corretta terapia nei casi di malformazione e di anomalie genetiche, sulla base dell’attribuzione all'embrione della qualifica di pre-persona.

Si è manifestamente optato per una analisi di tali tematiche sotto un profilo etico-sacrale della vita, attraverso una composizione dei contrasti tra diritto e morale, tra scienza ed etica che si è tradotta nella ricerca di un comune orizzonte antropologico  fondato sul rispetto dell'individuo umano[68].

Alla sofferenza dei genitori e del bambino per l'handicap conseguente alla nascita si accompagna una riflessione sul dolore al quale è dato un significato che è coessenziale alla natura dell'uomo[69].

Gli intrecci tra il tema dell'eugenetica e quello della diagnosi prenatale, spingono verso una considerazione nel diritto vigente di quella nuova branca del diritto stesso che è il cosiddetto biodiritto, i cui fondamenti si sono ravvisati nei principi fondamentali del diritto alla vita del diritto al nascere di ogni essere umano, dell'eguaglianza e della dignità di ogni individuo, della identità del soggetto che non è suscettibile di discriminazione in base all'essere sano o portatore di handicap.

Il legislatore italiano ha voluto tutelare, in altri termini, l'individuo sin dal suo concepimento, evidenziando che debbono essere utilizzati tutti i mezzi possibili per favorire la nascita ed il rispetto della salute del bambino, includendo tra le voci del danno alla persona, anche quella relativa al danno c.d. esistenziale, ammesso in seguito ad una lunga diatriba tra dottrina e giurisprudenza, in una effettiva  considerazione della dimensione dell'uomo uti singulo e del diritto all'autodeterminazione della persona.

Il riconoscimento dei “diritti della famiglia” (art. 29 Cost. 1° comma) va infatti inteso non come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito esclusivo del nucleo familiare ma nel più ampio significato di realizzazione della vita stessa dell’individuo.

E pertanto il risarcimento del danno è teso al ristoro dallo sconvolgimento delle abitudini di vita in relazione alla esigenza di provvedere ai bisogni e alle necessità del figlio; ad esempio da parte della giurisprudenza è stata oggetto di analisi la risarcibilità dei danni spettanti ad una bambina nata con malformazione degli arti inferiori non diagnosticate durante la gravidanza affrontando la questione sotto il duplice profilo del nesso di causalità e dell'ingiustizia del danno[70].

Il nesso causale che si instaura tra la negligenza del medico e la nascita e che rileva sul diritto di autodeterminazione della madre nella scelta di interruzione della gravidanza, sul piano motivazionale incontra diversi ostacoli. Si scorge peraltro nel nostro ordinamento giuridico un'incompatibilità tra l'eventuale diritto di non nascere e la considerazione del bene della vita come bene supremo ed indisponibile.

Su tale linea orientativa recentemente i Giudici[71] nel motivare sulla risarcibilità dei danni in favore della donna in conseguenza della sussistenza del reato di lesioni gravi addebitati al medico, che aveva omesso la diagnosi sullo stato del nascituro, hanno affermato che non sono oggetto di particolare attenzione i danni patrimoniali astrattamente risarcibili che riguardano le cure per la bambina, tenuto conto che la malformazione non deriva e comunque non è riconducibile in alcun modo alla attività del medico, né eventuali voci di danno biologico od esistenziale della bambina potevano essere prese in considerazione dal momento che il nostro ordinamento considera il bene della vita come primario ed irrinunciabile a fronte del quale non è possibile lamentare un diritto a nascere sani.

In realtà, un segnale di maggiore apertura verso il riconoscimento in ipotesi di malpractice medica nella diagnosi prenatale, del tort wrongful life, sembra derivare da una recente sentenza della Cassazione[72] con la quale attraverso una analisi di carattere contrattuale, hanno offerto un ampliamento della categoria dei soggetti protetti dal contratto ed hanno riconosciuto anche il risarcimento del danno esistenziale da lesione di diritti fondamentali di rilevanza costituzionale, nonché del danno alla vita di relazione come conseguenza del trauma psichico subito con la nascita inaspettata di un figlio portatore di handicap.

Sulla base di tale linea tracciata dai Giudici della Cassazione, sarebbe così opportuno il riconoscimento di una tutela piena non solo per i genitori ma anche per il nato, poiché nella disattenzione e nella negligenza medica si scorge un'offesa alla personalità del concepito, che è venuto alla luce in violazione dell'obbligo di protezione e di tutela oltre che di vigilanza del medico sullo stato del nascituro.

Da tale punto di vista, l'omessa diagnosi delle reali condizioni di salute del feto, potrebbe essere giuridicamente suscettibile di analisi se visto come attentato alla vita dell'individuo-concepito e non ancora nato e non come lesione del diritto all’autodeterminazione della madre.

È il mancato riscontro delle condizioni di salute nella vita dell'embrione che conferisce rilevanza giuridica all’imperizia del sanitario punibile non ai sensi dell'art. 2236 c.c., che limita la responsabilità del professionista ai soli casi di dolo o colpa grave, bensì ai sensi dell'art. 1226 c.c. per cui il sanitario è tenuto a rispondere a titolo anche di colpa lieve.

Per quanto concerne le voci risarcitorie, il danno alla persona si esplica nelle due componenti di “danno emergente” e di “lucro cessante”, in particolar modo con riferimento al profilo del danno non patrimoniale subito dai genitori che condividono la propria vita quotidiana con la persona offesa dal reato[73], privati della possibilità  di continuare a vivere una vita in termini relazionali e di contatto sociale soddisfacente.

I doveri di assistenza morale e materiale, la continua preoccupazione per una corretta tutela del soggetto, comportano sicuramente un danno alla sfera psichica per cui da parte della giurisprudenza delle Corti di merito si è spesso riconosciuto il diritto dei congiunti a costituirsi in giudizio e al risarcimento dei danni cd. riflessi, aprendo così il varco al risarcimento del cd. “danno esistenziale”.

Infatti nel caso analizzato in cui una errata diagnosi ecografica abbia omesso di diagnosticare delle malformazioni congenite del feto, come è accaduto in Italia con riferimento alla fattispecie oggetto della pronuncia del Tribunale Penale di Locri, e con conseguente nascita inaspettata di una figlia handicappata, il medico è stato condannato a risarcire alla madre oltre che il danno biologico anche quello di carattere esistenziale.

Nella fattispecie de qua difatti sono stati provati non solo il danno biologico provocato dalla nascita di una figlia handicappata ma anche il danno che ha provocato una reazione ansioso-depressiva piuttosto grave della madre inquadrandosi in un vero e proprio danno esistenziale[74], da intendersi sia come danno esistenziale puro che come danno biologico-esistenziale.

In conseguenza delle limitazioni subite dai genitori della bambina, e delle crescenti  difficoltà di intrattenere relazioni sociali, in aggiunta alla inadeguata preparazione psicologica dovuta alla mancata previsione dell'evento, è stato riconosciuto un danno biologico-esistenziale e un danno esistenziale puro sotto la specie della categoria del danno che si ripercuote sulla sfera relazionale esterna.

Tale nuova categoria risarcitoria di elaborazione dottrinale ha trovato da una parte espresso riconoscimento in alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione, dall'altra ha incontrato una certa resistenza da parte di coloro che ne hanno evidenziato una eccessiva indeterminatezza e la non piena ammissibilità nel nostro ordinamento, tenuto conto del contenuto e dei limiti posti dall'art. 2059 c.c., alla risarcibilità del danno non patrimoniale.

La vicenda del danno esistenziale è in realtà, una fase significativa nel cammino della dottrina verso il riconoscimento del danno alla persona; dapprima infatti e comunque antecedentemente all'avvento del danno biologico, la dottrina e la giurisprudenza riconoscevano il risarcimento esclusivamente del danno che avesse compromesso la sfera patrimoniale della vittima; nessun rilievo veniva riconosciuto all'integrità psicofisica in sé e per sé considerata ed il principale criterio adottato dai Giudici per il risarcimento del danno era rappresentato dal mancato reddito di lavoro del danneggiato.

E' stata la medicina legale attraverso la considerazione delle sollecitazioni che giungono dall'esperienza straniera, dall'analisi dei mutamenti economico-sociali e dai confronti con gli ordinamenti stranieri, che ha avanzato l'ipotesi che le lesioni all'infermità psicofisica costituissero un danno che doveva essere risarcito[75], indipendentemente dalle potenzialità della persona in termini di lavoro, di guadagno o di reddito.

Il percorso giurisprudenziale verso il riconoscimento del danno alla persona è giunto ad un certo risultato con la sentenza n° 233 del 30.06/11.07.2003 con la quale la Corte Costituzionale ha dato un nuovo contributo a quello che la Corte stessa aveva definito come il “tormentato capitolo del danno alla persona”.

Quasi contemporaneamente la Corte di Cassazione, con le sentenze nn. 8827 e 8828 del maggio 2003, ha ridisegnato i confini del danno non patrimoniale e del suo risarcimento, spostando l'ottica risarcitoria dall'ambito patrimoniale a quello non patrimoniale.

La dimensione patrimonialistica non è stata del tutto abbandonata e non potrebbe d'altra parte esserlo, vista l'esigenza di quantificazione del danno in termini monetari, ma la dottrina ha agito sui concetti fondamentali della struttura dell'illecito, in particolar modo sulla nozione di giustizia del danno, sull'individuazione degli interessi tutelabili e su una certa socializzazione del diritto del danno.

Ciò è avvenuto in quanto l'unico referente normativo, l'art. 2059 c.c., non ha fornito un supporto univoco per evidenziare e delimitare i contenuti che ineriscono alla definizione di danno non patrimoniale limitandosi a dichiarare la risarcibilità di siffatto danno nei casi stabiliti dalla legge.

La stessa perdita della possibilità di una vita sana per errore medico-diagnostico è stata spesso qualificata come danno non patrimoniale, ed attraverso un percorso argomentativo è stato rivisitato il contenuto del sistema risarcitorio della categoria del danno biologico e cioè di danno alla salute.

Ciò comporta inoltre che il danno alla salute si inserisca in un processo patologico del nascituro, a seguito dell'omissione di informazione nei confronti della gestante sullo stato di salute del nascituro stesso, il che è certamente suscettibile di risarcimento. Con sentenza della Suprema Corte del 21.03.1997 si è affermato che risponde di rifiuto di atti di ufficio il medico di un ospedale pubblico che ometta di riferire informazioni alla gestante riguardo alla salute del nascituro, nella specie affetto da gravissime anomalie di origine genetica, laddove ciò possa incidere sulla salute psichica della paziente e dello stesso nascituro, senza che assuma rilievo il fatto delle impossibilità di procedere alla interruzione volontaria della gravidanza.

L'obbligo di informazione fondato sull'art. 2 della legge n. 833/1978 che ha riconosciuto all'istituto sanitario nazionale una finalità di formazione dell'educazione sanitaria, è da ricondurre senza remore al disposto dell'art. 328 c.p., che incrimina il rifiuto di quegli atti che non possono per determinate ragioni essere dilazionate nel tempo.

La legge n° 833/78 infatti tutela la salute psichica della persona umana; la legge n° 194/78 invece offre una tutela sociale della maternità con riguardo alla situazione psichica della paziente in gravidanza, oltre che prevedere dei supporti e delle terapie psicologiche, che possono essere avviate antecedentemente al parto, per preparare entrambi i genitori all'accettazione di un bambino diverso sin dal suo primo momento di vita.

È evidente che la previsione di tali interventi è tanto più efficace quanto più tempestiva sia l'informazione da parte del personale medico, con riguardo alle effettive condizioni di salute del nascituro.

Peraltro l'art. 328 c.p. attribuisce invero una rilevanza esclusivamente al rifiuto degli atti che, per motivi di sanità, debbono essere immediatamente posti in essere; dunque il reato si realizza nel momento in cui si avvera la possibilità di conseguenze dannose che siano dirette al bene giuridico della salute psicofisica.

Se in Italia ancora si discute sull'ammissibilità o meno di una tutela da riconoscere al concepito nato, in Europa e in particolar modo in Francia il dibattito è stato sollevato in modo piuttosto incisivo ed è stato troncato sul nascere dal legislatore.

Il legislatore francese infatti, a dispetto di un indirizzo giurisprudenziale della Cassazione francese relativamente al caso Perruche[76] ha optato per un non riconoscimento del diritto del bambino a nascere sano, ad avere una vita sana e a preferire la non vita in alternativa ad un'esistenza non sana.

Nel contesto di una legge da tempo in itinere, la Loi Kouchner n. 2002-303 del 04.03.2002 intitolata "Aux droits des malades et à la qualité du système de la santé. La solidarité envers les personnes handicapés", il legislatore ha attuato una comparazione tra l'omessa diagnosi delle malformazioni fetali dovute a negligenza ed imperizia del medico e il c.d. "accident medical, affection iatrogene, au infection nosocomiale", non dipendente da una causa esterna accertata.

Nella premessa posta dalla norma di legge che è rubricata sotto il titolo di "Solidarité envers les personnes handicapèes",si legge a chiare lettere che "la personne nèe avec un handicap du à une faute mèdicale peut obtenir la réparation de son préjudice lorsque l'acte fautif a provoqué directement le handicap ou l'a aggravé, ou n'a pas permis de prendre les mesures susceptibles de l'attéenuer" (art. 1)[77].

 

 

2.2.    Responsabilità del medico e della struttura sanitario-ospedaliera e nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento lesivo prodotto dall’attività medico legale.

Il tema riguardante i canoni valutativi utilizzabili dal Giudice per la determinazione della sussistenza o meno del nesso causale tra la condotta negligentemente omissiva per negligenza e l'evento lesivo relativo all'attività medico-chirurgica di cui sopra, è stato oggetto di analisi in Italia con la recente sentenza 10.07/11.09.2002 n. 30328 del Supremo Collegio in ordine ai principi di formazione della prova del danno prodotto.

Non ci dilunghiamo sulla dottrina riguardante il rapporto di causalità in sede penale e sulle sue teorie che vanno dalla causalità efficiente, a quella adeguata e ad altri aspetti che formano oggetto di valutazione del Giudice, per attribuire rilevanza alla condotta del sanitario[78].

La giurisprudenza precedente della Corte di Cassazione aveva tentato di risolvere tale tematica con valutazioni talvolta contraddittorie, focalizzando l'attenzione sul quantum del parametro di probabilità tale da ritenere sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva e l'evento dannoso ai fini della responsabilità penale del medico.

Si è accennato a serie ed apprezzabili probabilità di successo[79] nel senso di individuare i corretti coefficienti di probabilità senza raggiungere una certezza o una quasi certezza al riguardo. Ne è scaturita una serie di decisioni anche del Supremo Collegio tese alla enucleazione di un criterio valido al fine di poter affermare la probabilità di tali effetti soltanto in cui ci sia la certezza di apprezzabili probabilità di successo[80], anche in termini di verosimiglianza, con esito positivo tenendo conto del rispetto della presunzione di irresponsabilità nell'accertamento del nesso causale[81].

Talvolta i Tribunali hanno ritenuto sufficienti solo alcune probabilità di successo relativamente ad un intervento chirurgico come quello di vasectomia o di sterilizzazione, così attenuando il rapporto tra condotta colposa e pregiudizio e puntualizzando più l'elemento della colpa che quello del nesso causale che in fondo richiede una indagine sulla entità del rischio. A tal proposito il disvalore della condotta deve essere elemento determinante dell'evento dannoso   caratterizzando così il reato anziché di danno invece  di pericolo.

è ben noto che, secondo la dottrina dominante di diritto penale, la condotta umana attiva ed omissiva è condicio sine qua non nello stabilire gli antecedenti logico giuridici che concorrono a produrre l'evento. Tale teoria peraltro si inquadrava su un paradigma condizionalistico utile ai fini di garantire un più puntuale accertamento della responsabilità penale.

Tale tendenza, in verità posta in una visione riduttiva della causalità, è stata oggetto di critica da parte della giurisprudenza che, sulla base di un concetto naturalistico della condotta omissiva, consistente nella pretesa identità strutturale tra causalità attiva ed omissiva, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ha affermato che tale identità dovesse risultare quasi come una condizione necessaria tra gli antecedenti logici che concorressero a produrre un determinato risultato. Tuttavia questo convincimento, secondo il quale tale prospettiva potesse essere un elemento di garanzia per chi fosse sottoposto ad un accertamento della propria responsabilità, è sembrato foriero di dubbio nel caso di applicazione di tale teoria ai reati omissivi impropri.

Con una nuova svolta, in un certo senso rivoluzionaria[82], si è sostenuto che "la rilevanza causale del fatto nella produzione dell'evento dannoso deve essere accertata in termini di assoluta certezza e cioè con una probabilità confinante con la certezza" e ciò in contrasto col criterio di probabilità cui sopra si è accennato.

Le esigenze garantistiche di tutela del bene della vita, non giustificherebbero tuttavia gli orientamenti relativi all'applicazione del cosiddetto aumento del rischio, che deve sussistere evidentemente in un momento antecedente a quello della formulazione della norma donde un nuovo intervento delle Sezioni Unite in ordine alla valutazione del nesso di causalità ai sensi dell'art. 40 c.p..

 In tal modo si è inteso ridimensionare il criterio di attendibilità di leggi statistiche, nascente dalla teoria della probabilità logico-razionale, dovendosi piuttosto soffermarsi su concrete circostanze che escludano i coefficienti di probabilità. In altri termini, le leggi scientifiche probabilistiche in ogni caso debbono, anche ai fini della certezza giudiziale, fondarsi su un concreto rapporto di causa-effetto e valutate dal giudice alla luce delle risultanze del caso concreto.

L'inquadramento dell'obbligazione assunta dal medico, cosiddetta obbligazione di mezzi e di risultato, ha fatto sì che l'indagine poggiasse essenzialmente sulla ripartizione dell'onere probatorio tra paziente e professionista con la conseguenza di una attribuzione di oneri probatori tra le contrapposte parti.

Sono sorti così dei correttivi delle varie teorie enunciate, sottolineando la distinzione, ai fini della ripartizione dell'onere della prova, tra interventi di facile e di difficile esecuzione. L'oggetto della prova gravante sul paziente danneggiato è risultato più o meno ampio, a seconda della natura dell'intervento, rispetto al quale il rischio di esito negativo o peggiorativo negli interventi, che non richiedono una particolare abilità professionale, è minimo, sicché spetta al professionista fornire la prova contraria riguardante l'esecuzione della prestazione in modo idoneo e provare altresì che l'esito peggiorativo sia stato causato da un sopravvenuto evento imprevisto ed imprevedibile o da altra condizione fisica del malato evidentemente non accertabile col mero criterio dell'ordinaria diligenza professionale[83].

Diversamente, nel caso di intervento di difficile esecuzione, il medico ha soltanto l'onere di provare la natura complessa dell'operazione mentre spetterà al paziente dimostrare che siano state inidonee le modalità di esecuzione, spostando quindi al paziente la prova del modo di esecuzione dell'intervento operatorio.

La dimostrazione della natura facile dell'intervento, tale cioè da non richiedere una particolare perizia, invece consente l'applicazione della norma generale in tema di responsabilità a carico dell'inadempiente come presunzione di comportamento non diligente (art. 1218 c.c.), sostanziandosi così un'inversione dell'onere della prova che consiste nel porre l'incertezza degli esiti probatori a carico del prestatore d'opera o della struttura sanitaria che risponderebbe di obbligazione di risultato[84] e non di mezzi.

Per quanto riguarda inoltre la responsabilità della struttura sanitaria, la casistica giurisprudenziale ha messo in luce come spesso il comportamento colposo del personale sanitario si trasformi in responsabilità oggettiva.

In particolare è stato precisato in tempi recenti[85] che colui il quale invochi il risarcimento di un danno alla salute, colposamente causato dalla condotta di un medico, ha l’onere di allegazione semplicemente indicando se la colpa del convenuto sia consistita in imperizia, imprudenza o negligenza, senza che sia necessaria l’allegazione degli specifici aspetti tecnici dai quali discende la responsabilità professionale di carattere paraoggettivo.

Con il raggiungimento di una tutela effettiva dei diritti assoluti lesi, il sistema della responsabilità, con riferimento al danno, ha messo in luce un’indagine giurisprudenziale sulla condotta del medico, alla luce della quale l’intera teoria della colpa e del nesso causale e dello stesso danno sia sotto il profilo sostanziale che probatorio ne esce profondamente mutata.

Negli ultimi anni a fronte dei casi di manifesta negligenza medica la posizione dei Giudici civili ha finito per allinearsi a quella dei Giudici penali sulla base del ricorso al criterio di causalità ipotetica a proposito del quale non si evidenziano più le serie ed apprezzabili probabilità di successo, ma un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica.

La Giurisdizione civile, infatti, si è resa conto che il criterio probabilistico sia lo strumento più adatto per affermare una sussistenza di nesso di causalità ogni qualvolta si ravvisi, con certezza, la colpa del medico, sul quale grava l'onere della prova.

Il criterio probabilistico è diventato uno strumento utile in situazioni in cui vi è non incertezza sulla quantificazione della condotta negligente del medico alla realizzazione dell'evento, ma sull'«an» di un comportamento colposo da parte dei sanitari.

Si è giunti quindi ad ipotizzare non soltanto con riferimento alla nascita indesiderata ma anche in tutti i casi di responsabilità medica, che non solo il nesso causale sussiste tra il comportamento colposo e l'evento-danno, ma addirittura si ricava la presenza del comportamento colposo dalla semplice assenza di dimostrazione di altri fattori ritenuti idonei a produrre la lesione attraverso il richiamo al criterio di probabilità scientifica.  

 

3.1.    Responsabilità dei genitori e tutela dei figli

Nell’attuale momento storico profondamente mutato rispetto a quello in cui si inseriva il caso relativo alla nascita di un bambino eredoluetico (Tribunale Piacenza 31.07.1950), per quanto riguarda la tematica della responsabilità dei genitori per danno da procreazione sono state fatte rilevanti riflessioni. In primis, uno degli interrogativi che l'analisi del problema ha suscitato è se un genitore sul quale gravino oneri di mantenimento del figlio, oltre che all’obbligo di assistenza morale e materiale, possa essere chiamato a rispondere nei confronti del figlio stesso nel caso in cui il genitore non abbia eseguito tutte le indagini volte ad identificare delle anomalie genetiche trasmissibili al concepito.

A ciò si è aggiunto un altro interrogativo relativo all'ipotesi in cui un genitore affetto da una infezione possa essere considerato responsabile per non avere adottato tutte quelle attenzioni non soltanto rilevanti a livello medico-sanitario e rivolte ad evitare che al momento del concepimento si possa trasmettere una malattia al feto.

Gli interrogativi richiamati, che fanno riferimento ai casi sopra richiamati di trasmissione di anomalie genetiche ereditarie con l'atto del concepimento, di trasmissione di infezioni e di malattie con lo stesso atto, possono ricondursi nell'ambito della responsabilità da procreazione e, in particolar modo, possono evocare una responsabilità da concepimento.

Sulla possibilità di ricondurre a tali casi la responsabilità dei genitori, da parte della dottrina e della giurisprudenza sono scaturiti numerosi dubbi. Da un lato vi è la preoccupazione che un'ampia riconducibilità della responsabilità civile ai “torts wrongful life” possa condurre ad una incontrollata estensione della responsabilità cosicché i genitori possano essere chiamati a rispondere civilmente non soltanto della patologia trasmessa ai figli a causa della minorazione, ma anche di tutto il patrimonio non soltanto genetico ma  anche morale e culturale trasmesso ai figli.

Dall'altra parte, l'interrogativo da parte dei giuristi è sul fatto che tale apertura possa alimentare il ricorso a una pratica eugenetica repressiva del diritto alla riproduzione dei portatori di disordini biologici[86].

Ciò che maggiormente grava, in considerazione dell'acquisizione al sistema, è la configurabilità di un illecito civile che sussisterebbe con riferimento ad un soggetto danneggiato non ancora esistente, almeno come persona, al momento della condotta che ha cagionato la lesione in considerazione del fatto che è soltanto dopo l'atto del concepimento che si rende possibile definire l'identità genetica di un individuo[87].

Dal dibattito sulla tematica sorto negli anni ‘50, sono avvenuti vari mutamenti sul piano scientifico e socio-culturale per cui dal mutato assetto è possibile trarre nuovi elementi di valutazione tali da offrire un contributo alla tematica della responsabilità dei genitori per danno da procreazione.

È infatti da evidenziare un sempre più incisivo controllo medico sul processo generativo tale da fare assumere una rilevanza centrale alla libera e cosciente determinazione dei soggetti, sia sulla base dei progressi della scienza medica e della medicina, soprattutto in termini di accertamenti diagnostico-terapeutico nella fase di sviluppo e della formazione del feto, sia per il ruolo svolto dall'informazione sanitaria nella fase di prevenzione delle malformazioni del bambino a seguito del concepimento[88].

A fronte del venir meno di una sorta di immunità nelle relazioni endofamiliari, dapprima sottratti alle regole della responsabilità civile, si è optato per una valorizzazione della tutela costituzionale del minore, inserito in un dato contesto familiare, in ordine allo sviluppo e alla formazione della sua personalità, che è prevalente rispetto ad ogni altra esigenza ed interesse della vita familiare[89].

Il rapporto genitori-figli si è incuneato così in un tessuto di rapporti affettivi in seno alla famiglia tale da non poter giustificare delle limitazioni alla tutela della persona umana ed alcuna offesa alla personalità e alla dignità di chi nasce col rifiuto di quei valori fondamentali che si riferiscono allo sviluppo della persona.

Se tale è il contesto culturale su siffatta tematica in dottrina, successivamente al caso del Tribunale di Piacenza del 1950, sono sorti numerosi dubbi, relativamente all'apparire sulla scena della responsabilità civile le cosiddette “nascite indesiderate” connesse alle azioni di wrongful life esperibili dal nato con handicap nei confronti del medico.

Si è passati così da una concezione sacrale della vita sulla scorta di valutazioni sulla inammissibilità di una tutela apprestata dall'ordinamento, su un giudizio di valore teso al non riconoscimento del diritto a non esistere, invece ad una consapevole configurabilità di un orientamento basato sulla libertà di procreare senza limiti ed obblighi di tutela della futura esistenza, ciò implicando che il nato, affetto da una malattia trasmessa dai genitori, potesse rivendicare l'interesse a non nascere.

Oggi la tematica del danno da procreazione induce ad un'analisi in una prospettiva dove la libertà della procreazione cede il passo al diritto alla procreazione responsabile efficace sintesi del binomio responsabilità-libertà nell'esercizio del diritto alla procreazione.

La tutela della vita prenatale di chi è venuto al mondo contrassegnato da una malattia trasmessa dai genitori è rilevante sotto il profilo del riconoscimento di quel nucleo di valori fondamentale come la dignità, la vita e la salute che l'ordinamento tutela in capo ad ogni individuo come essere umano.

Sulla base di quanto detto sul giudizio valutativo degli interessi contrapposti tra vita e non vita, è necessario procedere attraverso una ricerca dell'equilibrio con i valori protetti dalla Costituzione e sulla base delle disposizioni legislative[90].

Ciò è da considerare sulla base di un sistema assistenziale oltre che di uno stato sociale che si faccia carico dell'aiuto economico-assistenziale dei nati portatori di handicap sul modello introdotto dalla Loi Kouchner, offrendo una tutela della posizione giuridica dei genitori.

In quest'ottica di estensione della responsabilità per danno da procreazione si ipotizza una tutela della vita prenatale, in relazione all'interesse del soggetto alla salute, dal momento in cui con la condotta si realizzi l'illecito.

Sotto il profilo dei danni risarcibili appare mutato il quadro di riferimento entro il quale collocare la responsabilità dei genitori per malattie trasmesse al nascituro.

Se negli anni ‘50 l'azione intrapresa dal figlio nei confronti del padre naturale era tesa ad ottenere il risarcimento sul piano economico delle spese sostenute per far fronte alla malattia trasmessa all'atto del concepimento, oggi non è sufficiente reclamare una tutela risarcitoria, bensì, come si può evincere dagli svariati casi giurisprudenziali, appare sempre più opportuno reclamare il risarcimento di un danno, che va al di là della mera sfera reddituale del soggetto, danno che si traduce in un'offesa alla personalità del nascituro[91].

Il danno al quale si fa comunemente riferimento in caso di azione riconosciuta a causa di accertamento di responsabilità dei genitori nei confronti dei figli, non è un danno né biologico poiché l'interesse leso del concepito non è né interesse a nascere sano, né un interesse attuale alla tutela della salute, né morale bensì esistenziale in quanto danno correlato a una lesione della personalità del concepito e che è da provare in relazione all'incidenza della malattia sullo svolgimento della vita del figlio all'interno e all'esterno del nucleo familiare.

 

3.2     I diritti del concepito: diritto di non nascere o diritto a nascere sano? La soluzione alla nascita indesiderata secondo la giurisprudenza delle corti straniere

Oltre che del caso relativo alla nascita viziata da anomalie genetiche non cagionate da malattie trasmesse dai genitori all'atto del concepimento, la dottrina prevalentemente straniera, si è pronunciata sul caso del bambino, colpito da handicap cagionato da malattia non accertata per negligenza medica, per cui si è chiesto il risarcimento del danno derivante dalla gravidanza condotta a termine nonostante la malattia contratta dalla madre e trasmessa al figlio durante la fase del concepimento.

Il 17 novembre 2000 la Corte Suprema di Cassazione francese rispondeva affermativamente alla richiesta di un ragazzo relativamente al riconoscimento di un danno da handicap subito e che si sarebbe potuto evitare soltanto se il personale medico e il laboratorio di biologia medica, durante il periodo di gestazione, avessero adottato la massima cura e diligenza nel rapporto contrattuale con la madre.

Tale caso ha suscitato nell'opinione pubblica svariate critiche e proteste di una certa intensità dando adito ad una distinzione tra i sostenitori del diritto a non venire ad esistenza, riconosciuto pienamente dai perruchisti e tra i fautori della difesa della vita in sé e per sé, a prescindere da ogni handicap o malattia tale da ingenerare nel soggetto una diminuzione od una privazione - come nel caso Perruche - delle chance di vivere una vita sana nel pieno godimento della salute.

Secondo i cosiddetti anti perruchisti, infatti la Corte di Cassazione aveva violato il suddetto diritto, non osservando il principio della dignità della persona umana e soprattutto la funzione etica ed antropologica che il diritto stesso deve assicurare.

La sentenza della Cassazione, infatti, cagionava una considerevole degradazione del diritto della persona umana e nella fattispecie di un ragazzo che era nato minorato fisico-psichico a causa della malattia - la rosolia - contratta dalla madre durante la gestazione.

Infatti, quanto sopra affermato, a detta dei sostenitori dell'orientamento contrario al diritto a non nascere, non era permesso né dal diritto civile né dai diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione; l'handicap non poteva essere considerato un pregiudizio risarcibile né la Corte di Cassazione poteva riconoscere nel risarcimento del danno il fondamento del dovere di nascere normale e cioè sano.

Addirittura era da ipotizzarsi che la lotta alla disabilità, alla malattia, fosse da ritenere in contrasto con la legge nei termini in cui la promozione dell'eugenetica fosse da rapportare alla soppressione dei malati, sulla base di una discriminazione tra persone handicappate e persone in buona salute[92].

Il dissenso venutosi a creare sulla esperibilità dell’azione risarcitoria nell'ambiente giuridico e soprattutto in Francia all'indomani della sentenza Perruche, a seguito della decisione di accoglimento della richiesta di risarcimento del danno da parte di un soggetto handicappato, ha creato uno iato tra le Corti e i Tribunali francesi, cosicché, a seconda che la denuncia di un bambino nato handicappato fosse diretta contro un medico che eserciti in una struttura ospedaliera o privata e che quindi dovrebbe rispondere dell'obbligazione da "contatto sociale" nel momento in cui si instauri un rapporto tra la gestante e la struttura ospedaliera, e a seconda che sia adita la giurisdizione civile o penale.

Si è creata così una notevole confusione soprattutto relativamente alla soluzione di casi difficili, che mostrano l'assenza di un orientamento chiaro e sicuro da parte del diritto positivo francese relativamente alla denuncia di una nascita indesiderata e non voluta e dunque, dello stesso soggetto concepito e nato handicappato.

Sono delle problematiche che attengono non soltanto alla scienza del diritto ma anche all'etica, in quanto prendono in considerazione ciò che riguarda la libertà individuale cioè di ogni soggetto e che, a prescindere dalla concezione perruchista od antiperruchista, coinvolga la persona umana.

In breve, conviene affrontare il problema se un bambino colpito da un handicap congenito abbia o meno il diritto di denunciare il fatto di essere nato infermo o di non essere nato affatto, anzitutto per stabilire quale sia la condizione di validità della denuncia presentata nei casi come quello della vicenda di Nicholas Perruche.

Infatti, perché si possa ammettere una denuncia, il soggetto deve essere giuridicamente legittimato a sporgerla e potrebbe essere ammessa soltanto se la qualità stessa di soggetto, da un punto di vista ontologico, non sia contestabile.

L'analisi del caso Perruche infatti si è volta in primis ad osservare se vi sia stato un errore, quindi un pregiudizio, e soprattutto ad accertare se vi sia un nesso di causalità tra l'errore e il pregiudizio e cioè se sussista un fondamento legittimo per denunciare l’errore, prodotto da un atto di negligenza medica e che possa essere suscettibile di risarcimento.

I medici nel caso di specie non avevano dato prova della diligenza necessaria per valutare se l'infezione contratta dalla madre, durante la gestazione, avesse potuto provocare nel figlio delle anomalie o malformazioni tali da impedire una nascita sana e soprattutto se, in caso di accertamento positivo di ciò, i medici stessi avessero potuto consigliare la interruzione della gravidanza per i rischi connessi ad essa e tali da comportare per la salute del feto menomazioni come sordità, cecità, affezioni mentali, il che successivamente è avvenuto.

Da tale errore, che è stato poi oggetto di giudizio da parte della Cassazione, il giovane Perruche, in effetti, aveva subito un pregiudizio risultante dall'handicap risarcibile per aver cagionato al bambino, durante tutta la sua esistenza, sofferenze fisiche e psichiche, vincoli, privazioni, disagi di ogni genere.

Dal punto di vista degli anti-perruchisti, tali condizioni accertate subito dopo la nascita, hanno conseguentemente indotto i giudici alla determinazione di un danno nei termini sopra rilevati, mettendo così in discussione il riconoscimento dello stesso soggetto come persona con riguardo al suo valore in quanto tale.

Occorre soffermarci all’uopo sul nesso di causalità da analizzare e cioè sulla correlazione tra l'errore e il pregiudizio non meno rilevante in quanto la contestazione delle Corti è consistita, in modo particolare, nel rifiuto di considerare l'errore medico come fonte di disagio psicofisico o di attentato alla integrità psicofisica dell'individuo, e, conseguentemente, di far gravare sul medico e sul laboratorio la responsabilità per i gravi danni subiti dal bambino.

Tali considerazioni però hanno spinto i giuristi a dubitare e a diffidare del fatto che l'errore medico sia la fonte dell'handicap. L'errore medico si è rilevato in realtà nel fallimento di una interruzione della gravidanza per la tutela della salute della madre ovvero nel risultato negativo di un intervento di sterilizzazione; nel caso Perruche invece, l'errore medico consisterebbe nel non avere diagnosticato o impedito l'identificazione della malattia, ma certamente non può essere considerato come fonte della malattia stessa nel senso che l'assenza di errore medico non avrebbe diminuito comunque il rischio di handicap per il bambino che senz'altro è riconducibile alla malattia contratta dalla madre.

È da rilevare inoltre che è la circostanza che la madre del piccolo Perruche avesse deciso, dichiarandolo al medico, di interrompere la gravidanza qualora risultasse che avesse contratto la rosolia, a costituire spunto per attribuire comunque al personale medico una responsabilità per omesso obbligo di informazione nei confronti della gestante.

Il ragionamento dei perruchisti è stato volto a far gravare sui medici, che hanno la responsabilità della cura e della tutela dei pazienti, il risarcimento sulla base del presupposto che la legge, istituendo la libertà di aborto, conferisce alla madre il potere di interruzione della gravidanza.

La signora Perruche aveva deciso dunque di interrompere la gravidanza in caso di accertamento di malattia, ma la sua scelta non era stata esercitata a causa della negligenza medica.

Inoltre la legittimità stessa del diritto di denunciare la condotta negligente dei medici da parte del giovane Perruche è derivata a sua volta dal mancato esercizio da parte della madre del diritto di interrompere la gravidanza e quindi di abortire.

L'errore dei medici ha avuto come conseguenza la nascita del bambino; in tal modo, la vita del nascituro non è stata lesa, ma è stata per così dire conservata nella sua condizione attuale.

L'errore diagnostico nel caso Perruche e anche nei casi ad esso assimilabili, non ha certamente causato la morte colposa della vittima, profilo che sotto l'aspetto umano certamente scuote la sensibilità dei giuristi, ma ha dato vita alla nascita colposa di un essere umano, secondo l’iter logico-giuridico condotto dalla Cassazione nella sentenza di accoglimento della richiesta di risarcimento danni.

Il danno arrecato al giovane Perruche è un danno che investe uno dei beni giuridici più rilevanti che, oltre alla salute, è la dignità dell'essere umano.

Nella fattispecie il mancato esercizio del diritto di scelta di interrompere la gravidanza a causa di errore medico, è un atto che ha impedito che una vita umana venisse soppressa, ma in ogni caso, certamente ha provocato una lesione nella sfera psico-fisica del bambino giuridicamente rilevante.

L'analisi, pertanto, condotta dalla Corte si è puntualizzata sul riconoscimento della mancata tutela della vita intesa come violazione del contratto stipulato tra la gestante e la struttura medico-ospedaliera e, nel contempo, la Corte si è orientata per una responsabilità extracontrattuale derivante da atto illecito perpetrato contro la vita.

Ciò detto, indubbiamente il medico e l'intera struttura ospedaliera devono fare i conti con due distinte richieste di risarcimento: la prima fondata sul fatto che il mantenimento in vita sia stato causa di un danno patrimoniale, la seconda, invece, sulla salvaguardia della vita del neonato in quanto la lesione di un bene giuridico è stata acuita dal fatto che con la nascita è venuta meno la possibilità di una restitutio in integrum della condizione desiderata, fondando così la pretesa al risarcimento.

Certamente è stata la domanda di risarcimento del bambino a suscitare un certo sgomento sotto il profilo giuridico e umano. Una nascita che ha sottratto il neonato alla morte è stata infatti qualificata come un danno e il bambino stesso, ormai adolescente, nella richiesta di risarcimento del danno, si è appellato al fatto che la gestazione dovesse essere interrotta nel momento in cui si è accertata la malattia contratta dalla madre e ipoteticamente trasmessa al figlio, come peraltro poi è accaduto, e che quindi si dovesse provvedere da parte dei medici alla sua soppressione fisica.

Si sono poste in comparazione due condizioni opposte: da una parte l'“essere”, nato minorato, portatore di anomalie fisiche e psichiche, dall'altra “il non essere”, interpretato come condizione più vantaggiosa e come sollievo dal danno.

A tal proposito, da parte della dottrina e della giurisprudenza, si è chiesto se la vita personale possa essere considerata un danno. Le stesse locuzioni wrongful birth e wrongful life, derivate a loro volta dall'espressione wrongful death, che alludono alla nascita non desiderata, sono state utilizzate nella domanda risarcitoria del bambino menomato, tesa al risarcimento del danno cagionato dalla sofferenza quotidiana di vivere una vita non voluta.

Tale assunto, relativamente alla soluzione del problema della vita non desiderata, alla luce della giurisprudenza delle Corti tedesche, è stato risolto negativamente rigettando la domanda di risarcimento per la vita non desiderata avanzata dal bambino. In particolare, la decisione-guida della Corte di Giustizia Federale su un caso di nascita indesiderata, non ha certamente esaurito il dibattito sulla tematica, ma ha sottoposto al vaglio dei giuristi l'analisi di altre tematiche piuttosto rilevanti.

Su un caso analogo, infatti, a quello Perruche, la Corte di Giustizia nel 1986[93] si è pronunciata a favore della domanda di risarcimento avanzata dai genitori di un figlio nato malformato, in quanto azione fondata su una pretesa contrattuale, mentre ha rigettato la richiesta risarcitoria del bambino handicappato che, al contrario, rivestiva un interesse fondamentale.

I giudici hanno argomentato, infatti, che non era configurabile un diritto all’aborto[94] in quanto l'ordinamento giuridico tedesco non contempla il diritto a disporre della propria vita, osservando all’uopo che la condizione psicofisica particolare del bambino non poteva in alcun modo essere quantificabile alla luce delle categorie giuridiche della disciplina del risarcimento.

La legittimazione attiva al risarcimento, secondo la sentenza della Corte di Giustizia Tedesca, non ha trovato fondamento infatti neanche nel caso in cui si trattasse di un contratto la cui efficacia giuridica consisteva nella tutela del bambino.

 Né la richiesta di risarcimento, rigettata su pronuncia della giurisprudenza, ha orientato il ricorso all'argomento analogico per sostenere la legittimità della richiesta dei genitori. Si è trattato infatti di riconoscere il risarcimento ad una pretesa differente da quella di natura esclusivamente contrattuale.

La giurisprudenza tedesca ha risolto i dubbi relativi alla nascita non voluta, evidenziando che la vita umana è un bene assoluto, inviolabile, e pertanto non disponibile.

Tale diritto universale appartiene anche ai bambini non ancora nati, al momento del loro concepimento, per cui il diritto alla conservazione in vita è diritto a che venga impedito ogni atto volto ad ostacolare la nascita del bambino.

Per quanto riguarda l'ipotesi di accertamento del danno, nel caso di specie, il medico curante aveva tenuto un comportamento negligente sia al momento della diagnosi, sia al momento in cui i risultati degli esami clinici erano stati comunicati al paziente. Egli così era venuto meno ai propri doveri nei confronti sia della madre che del nascituro.

Un punto fondamentale è quello di determinare se il non accertamento della patologia del bambino abbia o meno provocato un peggioramento della condizione del bambino stesso e dunque un danno in senso proprio.

Secondo la giurisprudenza tedesca, certamente, il mancato obbligo di informazione da parte del medico nei confronti della gestante, è da sanzionare; da tale punto di vista la nascita non programmata di un bambino è qualificabile sotto la voce di “risarcibilità di un danno meramente patrimoniale”.

L'ordinamento giuridico tedesco, infatti, sanziona la lesione subita a causa del comportamento negligente tenuto, con un obbligo di risarcimento di un danno che attiene alla sfera patrimoniale del soggetto.

La diagnosi corretta, infatti, avrebbe condotto alla interruzione della gravidanza e il bambino non sarebbe nato; il comportamento scorretto del medico, però, non ha certamente peggiorato la salute del bambino, ma ha permesso che una vita, nonostante già menomata a causa della malattia contratta dalla madre, venisse salvata.

Il ragionamento logico-giuridico dalla Corte è stato condotto sulla base del fatto che la morte non sia da preferire ad una condizione di vita segnata dall'handicap.

L'ordinamento giuridico non consentirebbe di configurare in capo al medico l'obbligo giuridico di impedire la nascita di un bambino handicappato in quanto impedire la nascita equivarrebbe ad affermare che la vita è priva di valori e che l'integrità umana non merita alcuna garanzia, mentre è risaputo che la vita è un bene giuridico di grado superiore e che in quanto tale deve essere preservata.

La Corte di Giustizia Federale con la sentenza sopra richiamata ha sottolineato che il caso non potesse essere risolto attraverso il ricorso alle categorie tradizionali in quanto la particolarità della tematica conduceva ad un superamento della dimensione giuridica e trascendeva nella sfera etico-morale e quindi extragiuridica.

Con un approccio comparatistico, la Corte ha condiviso alcune espressioni della giurisprudenza inglese, cioè si è appellata alla fatalità dell'evento, facendo riferimento così al fatto che la nascita del bambino è da collegare ad un evento del destino, ad una condizione della natura[95].

Secondo il convincimento della Corte, infatti, l'uomo deve accettare la propria vita così come essa è stata voluta dalla natura e non ha alcun diritto di impedirne lo sviluppo e la formazione.

In un caso analogo di infezione di rosolia contratta dalla madre, non diagnosticata, nella nota sentenza della Corte di Appello di Londra, McKay Another v. Essex Area Health Authority and Another, la domanda risarcitoria del bambino venne respinta  con la motivazione che l'unico diritto rivendicato dal bambino era quello a non nascere malformato e quindi il diritto ad essere abortito; tale diritto, però non poteva essere riconosciuto, in quanto la vita del bambino malformato sarebbe stata non degna di essere conservata.

La Corte inglese ha evidenziato di non possedere l'esperienza metagiuridica oltre che giuridica tale da qualificare un danno del bambino e quindi giustificare la permanenza in vita di un bambino malformato come evento illecito colposo.

Tra le righe della motivazione della sentenza[96] si legge che vi è una possibilità di mutamento di indirizzo e quindi di non optare verso la considerazione dell’evento come illecito colposo nel caso in cui il gravissimo stato patologico del bambino non sia diagnosticabile.

La motivazione si basava sul fatto che la Corte ha preso in considerazione un diritto non consolidato nel tempo e quindi non certamente consuetudinario, ma al contrario, incentrato su una nuova tipologia d'azione nei confronti della quale non si trovava alcun caso documentato nelle Corti del Regno Unito o del Commonwealth.

L'unico inadempimento del quale i medici potevano essere responsabili nei confronti della bambina, secondo la Corte, consisteva nel comportamento negligente che le aveva permesso di vivere anziché di non nascere in assoluto; la richiesta di risarcimento dunque era da scorgere in una intromissione indesiderata nell'esistenza altrui o in una vita non desiderata.

Il punto è però che il diritto stabilisce che è illegittimo privare della vita un bambino o qualsiasi persona subito dopo la nascita, riconoscendo una differenza tra la vita di un embrione e la vita di coloro che sono già nati.

Da tale considerazione, che così consentirebbe legittimamente ad un medico di fare ad un feto ciò che invece non può legittimamente fare ad una persona già nata, non consegue tuttavia che egli abbia l'obbligo giuridico di porre fine all'esistenza di un nascituro o che quest'ultimo abbia diritto di morire.

La soluzione della Corte, applicabile anche ai casi di nascita di soggetti portatori della sindrome di Down, ha risolto dunque in modo negativo la questione di un ipotetico diritto del bambino ad essere soppresso.

La dignità della vita è un bene giuridico inviolabile e una mancata qualità della vita stessa non può mai tradursi nel desiderio di non essere mai nati o peggio di essere morti.

La sentenza inglese fa riferimento, infine, alla impossibilità della quantificazione di un danno per la pretesa risarcitoria della bambina; da questo punto di vista è da rinvenire un punto di incontro con la sentenza della Corte Federale Tedesca sopra richiamata.

Alla Corte, infatti, si è richiesto di accertare e valutare la natura della lesione e la determinazione del danno. Tale danno si è ritenuto da valutare in termini contrattuali, ma la lesione personale del bambino non poteva essere quantificabile in termini di risarcimento sulla base della condizione in cui il danneggiato si trovava prima di subire la lesione e cioè di concepito.

Il danno infatti sarebbe oggetto di valutazione in termini di “lucro cessante” oltre che di “danno emergente” e cioè sulla base di ciò che qualitativamente con riferimento al diritto alla salute è andato perso, ancorando così tale ragionamento alla differenza tra il valore della vita come bambino/a normale e sano/a e il valore della vita di un bambino affetto da grave malformazione.

La condanna dei medici al risarcimento nell'ottica della pretesa del nascituro,  nella fattispecie, avrebbe dovuto avere riguardo alla posizione giuridica del medico come quella di un soggetto che ha cagionato un danno, mentre in realtà il medico si è limitato a non intraprendere le misure necessarie ad impedire la nascita di chi è stato leso.

L'unica differenza che può essere rilevante ai fini del risarcimento è quella costituita tra la condizione risultante dall'essere stato partorito vivo e gravemente malformato e quella in cui il bambino avrebbe potuto avere se la sua vita prenatale fosse stata interrotta.

Ma come un Tribunale può valutare questa seconda condizione quantificando così la perdita subita da un bambino?

La perdita di una speranza e di una vita sana è stata considerata difficile da valutare per cui i Tribunali anglosassoni sono stati costretti a fissare spesso ai fini risarcitori una somma fissa o quanto meno determinabile con equità[97]. Si richiederebbe così una valutazione che è al di fuori della portata del diritto, soggetta senz'altro alle opinioni personali del giudice adito e quindi certamente non imparziale.

La giurisprudenza così si è pronunciata negativamente in merito alla competenza di deliberare in ordine ad una richiesta come quella avanzata dalla bambina nata malformata. La sentenza è stata influenzata indubbiamente dal Congenital Disabilities Act del 1976[98] che esclude i diritti derivanti da wrongful life per tutti i bambini nati dopo l'entrata in vigore in Inghilterra della legge 22.07.1976.

L'argomentazione riportata in sentenza nella motivazione prende in considerazione l'assunto che i medici sottoposti a una pressione psicologica in fattispecie simili a quella richiamata, consiglierebbero l'aborto anche nei casi dubbi, proprio per paura di essere condannati al risarcimento di un eventuale danno[99].

Da quanto risulta in letteratura, tale ragionamento logico-giuridico è stato condotto anche da parte della dottrina statunitense.

La prima sentenza riguardante la tematica in oggetto, è stata emessa il 6 marzo 1967 dalla Supreme Court of New Jersey[100], relativamente al caso di una donna che si ammala di rosolia durante i primi mesi di gravidanza e non è informata dal medico sulle possibili conseguenze che la malattia può avere sul feto, che in realtà alla nascita presenta delle anomalie e difetti, sia nella sfera fisica che psichica, attribuibili alla rosolia.

La domanda di risarcimento da parte della madre venne rigettata sulla base della motivazione secondo cui una richiesta di indennizzo per spese e costi di mantenimento, per prendersi cura del bambino, non era da accogliere in quanto la malformazione non era stata causata dal medico ma dalla stessa malattia della madre, ed inoltre al tempo in cui era verificata la vicenda, poiché l'aborto non era consentito, non esisteva alcun mezzo per intervenire.

Per quanto concerne invece la domanda di risarcimento del bambino, quest'ultimo non faceva valere in giudizio il fatto che, in assenza di una condotta colposa da parte del medico, sarebbe nato privo di malformazioni, ma la circostanza che tale condotta aveva causato la sua nascita; dunque, egli contestava la mancata interruzione della gravidanza come danno-evento che aveva cagionato un successivo danno-conseguenza che era da rinvenire nella stessa nascita.

Pertanto, sulla base delle categorie comuni della giurisprudenza inglese in materia di responsabilità civile, doveva essere considerata, senza che avesse ciò effetti paradossali, la situazione ipotetica in cui il bambino non fosse nato affatto.

Come più di trent'anni dopo è accaduto con il caso Perruche, nella fattispecie richiamata, il bambino pretendeva che la Corte si pronunciasse, nella sua valutazione, sul confronto tra un’esistenza colpita da malformazione e una non esistenza. Tale confronto tuttavia, ad opinione dei giudici, non era possibile[101], in quanto non era ammissibile un riconoscimento del diritto a non nascere.

Sul punto, nel diritto statunitense, il dibattito intorno ai casi di wronfgul life, è stato oggetto di una serie di sentenze che invece riconoscono la legittimità della pretesa risarcitoria del bambino.

La giurisprudenza ha percorso tre fasi principali che hanno condotto a loro volta ad indirizzi giurisprudenziali non univoci; uno tra questi non ha riconosciuto alcun risarcimento del danno ricollegabile, come si evince da una nota sentenza[102] che ha riconosciuto una responsabilità per inadempimento dell'obbligo di informazione da parte del medico della possibilità di sottoporsi ad amniocentesi per accertare un'eventuale malformazione del feto.

Nel caso di specie il bambino è nato portatore della sindrome di Down; alla madre non è stato riconosciuto alcun risarcimento, in quanto la vita non è stata considerata un danno.

Nella sentenza Jacobs v. Theimer (S. Court of Texas, 19.02.1975) relativa ad un’altra vicenda che vede una donna ammalarsi di rosolia nei primi mesi di gravidanza, il medico, pur avendo diagnosticato la malattia, accerta la gestante che non ci saranno conseguenze sul nascituro. Tuttavia il bambino è nato con gravi malformazioni ed è morto dopo pochi mesi.

Il risarcimento è stato riconosciuto nonostante l'aborto, che, ai tempi in cui il caso si è presentato, non era legale, e dunque, l'unica possibilità era quella di sottoporsi all'interruzione della gravidanza in un altro Stato, diritto di scelta che è stato sottratto alla gestante, che non ha potuto così impedire la nascita del bambino malato[103].

La medesima tematica[104] è stata oggetto di pronuncia con sentenza della Corte di Appello di New York, nella vicenda Park v. Chessin, in cui la domanda risarcitoria era stata accolta sulla base della motivazione per cui ogni bambino ha diritto "to be born as a whole, functionable human being"[105].

In altre vicende giudiziarie[106], il giudice ha ravvisato il danno nel mancato obbligo di informazione da parte del medico, e nella mancata conseguente preparazione dei genitori alle malformazioni che avrebbero colpito il figlio in termini di capacità di assistenza e di mantenimento.

Nello stesso tempo però, non è stato riconosciuto il risarcimento del danno al bambino poiché la Costituzione statunitense è basata sulla certezza che la vita con o senza malformazioni abbia comunque un valore superiore alla non vita.

In altri casi, invece, da parte della giurisprudenza[107] si è ritenuto non logico dedurre sempre, come è stato sottolineato dalla Corte Suprema della California, che in ogni caso una vita con malformazioni non sia da preferire ad una non vita proprio in virtù dell'attribuzione al diritto alla vita, dei principi o dei valori della inviolabilità e dell'assolutezza.

Sulla base di quanto affermato, nell'attribuzione di valore assoluto al bene giuridico della vita, non si scorge una significativa differenza tra i sistemi giuridici di Common Law e di Civil Law, se non nel ragionamento e nei metodi di analisi giuridica usati; la difformità di opinione, la mutevolezza delle pronunce  giurisprudenziali,  evidenziano infatti una certa confusione nel tenta-


tivo di analizzare il problema della nascita non desiderata e del suo risarcimento, ma nulla dicono in ordine ad una possibile soluzione univoca del problema, lasciando irrisolti diversi interrogativi e incrementando i dubbi non soltanto negli operatori del diritto, ma anche pertanto in coloro che sono portatori di situazioni giuridiche soggettive e  quindi i genitori, parti attrici delle vicende giudiziarie, e i bambini, oggetto della lesione subita.

Nel diritto moderno si è avvertita la necessità di studiare l'individuo nella sua concretezza e di accordare alla persona una protezione ed una tutela effettiva, per cui il diritto vivente, oggi, estende la sua portata a considerazioni non soltanto di natura giuridica ma anche biologica, morale e sociale.

Si dà corso difatti a processi a mezzo dei quali, con il concorso della biotecnologia, il diritto tende a distinguere nascita ed esistenza del soggetto, in una dimensione e in una funzione antropologica.

 Nel momento in cui un giudice è chiamato a pronunciarsi su un caso di nascita indesiderata, sorge il problema. Basti pensare ad una sentenza del 1998 della Corte di Appello di Aix-en-Provence che ha respinto la richiesta di risarcimento dei danni da parte di un disabile sin dalla nascita così preferendo la non vita piuttosto che una condizione di handicap.

Da ciò si è sviluppata un’indagine del problema che spesso mostra di non essere in relazione con il diritto vigente, per cui sorgono dubbi da parte sia dalla giurisdizione di merito che di legittimità nella misura in cui, al di fuori della sfera giuridica, si sconfini nell'etica, nella religione, nella sociologia.

Ma è proprio nelle nuove e diverse modalità di studio delle problematiche che oltrepassano l’area del diritto e che pertanto rientrano nella sfera metagiuridica, che si nota un vero e proprio malessere stanti le innumerevoli contraddizioni che si manifestano tra chi è favorevole al riconoscimento del diritto del nascituro ad esistere, anche se non sano, e tra chi invece non si muove a favore di tale riconoscimento in quanto ritiene che sia più apprezzabile e quindi preferibile una vita sana, normale, priva di handicap piuttosto che una vita malsana e comunque normale e dunque non degna di essere vissuta.

Sembra necessario infine porre un interrogativo di fondamentale importanza al fine di fugare ogni equivoco e cioè esiste un diritto a non nascere?

All’uopo preliminarmente occorre richiamare una pronuncia della Corte di Cassazione Civile, III Sezione Civile – 6 maggio/29 luglio 2004 n. 14488.

Si trattava di una richiesta di risarcimento danni per la nascita di una bambina affetta da beta talassemia eterozigote.

La madre lamentava che il sanitario, pur prescrivendo per la gestante accertamenti per la gravidanza, sull’errato presupposto della mancata talassemia del coniuge, non aveva avvertito circa i rischi per la nascitura, che a seguito del parto risultava affetta da talassemia maior, dati i caratteri ereditari di entrambi i genitori. Pertanto i genitori decisero di esperire azione volta al risarcimento dei danni nei confronti del medico e della compagnia assicuratrice chiamata in causa da quest’ultimo.

La Cassazione al riguardo motivava la pronuncia deducendo la responsabilità del medico con riguardo all’evento-nascita collegabile alla condotta colposa del professionista che non aveva informato la gestante in ordine all’eventuale patologia della figlia; inoltre la Suprema Corte condannava il sanitario al risarcimento del danno non soltanto a favore della madre della bambina  ma anche del padre, scorgendo nel rapporto tra il  medico e la paziente un contratto ad effetti protettivi nei confronti dei terzi[108].

Le ultime pronunce giurisprudenziali dunque non rappresentano un quid pluris rispetto al recente passato. In particolare, la citata sentenza n. 14488 del 2004[109] non fa altro che confermare il principio secondo il quale lo scopo primario di tutela della personalità psico-fisica della donna secondo i dettami della legge n. 194/78, è insito in un percorso normativo che si pone nettamente a favore della vita del nascituro.

         Se la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, il diritto a non nascere sarebbe privo di titolare sino alla nascita del soggetto il che sarebbe una evidente contraddizione.

         La contrattualizzazione del rapporto gestante - paziente operata in tempi recenti tramite il ricorso alla categoria del contratto con effetti protettivi del terzo di origine tedesca incontra non poche difficoltà non riuscendo così a risolvere la problematica relativa alla condotta del medico ritenuta omissiva nel momento in cui sia mancata l’esecuzione del suddetto contratto. 

          Va infine posto in evidenza il problema all’esistenza o meno di un diritto di “eutanasia prenatale” scorgendosi l’esigenza di determinare se sia o meno lecita, come sopra evidenziato, una condotta che possa avere come effetto la mancata nascita del concepito e se questa possa essere fonte di un danno ingiusto.

        La Corte Suprema di Cassazione, consapevole della entità di tale dibattito dottrinale, ha ribadito l’inammissibilità dell’aborto eugenetico, non essendo concepibile nel nostro ordinamento giuridico, alla luce di quanto sopra affermato, un diritto a non nascere.

 



* Dottorando di ricerca in Diritto dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente presso l’Università degli studi di Palermo.

[1]    Trib. Milano,  sez. VII,  20/10/1997, con nota di M. Bona, Filiazione indesiderata e risarcimento del “danno da bambino non voluto”, in Danno e responsabilità, 1999, 1, 82 ss. e in Resp. civ. e prev. 1998, 1145, con nota di M. Gorgoni.

[2]    Cass. sez. IV Pen., 13 novembre 2000 n. 11625 in Corriere Giuridico, n. 3 del 2001, pag. 348, con nota di P. Morozzo Della Rocca secondo il quale il concepito costituisce un “già e non ancora”, rispetto al quale si tende a porre l’accento talvolta sul “già” e altre volte sul “non ancora”.

[3]    Olivier Cayla e Yan Thomas, Il diritto di non nascere,  Giuffrè Editore, Milano 2004, pag. VIII e ss. con considerazioni introduttive  di Busnelli.

[4]    Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli 2000, pag. 153 e ss..

[5]    Ex pluribus, Sent. Trib Padova,  9.8.85, che costituisce il “leading-case” in materia. Nel caso di specie fu accolta la domanda di risarcimento del danno ad una minorenne che si era infruttuosamente sottoposta ad un’interruzione volontaria della gravidanza. Il danno fu riconosciuto e determinato in relazione ai costi di mantenimento e di educazione del figlio; il Tribunale ha fondato il diritto al risarcimento sul presupposto che era stato violato il diritto all’autodeterminazione in materia procreativa, causato dall’inadempimento dell’obbligo di informazione da parte del medico.

Così Trib. Cagliari, 23.2.95; App. Bologna, 19.12.91, che hanno accordato il risarcimento del danno sulla base della nascita, conseguente ad inadempimento del medico, in un momento non desiderato.

[6]    Cass., Sez. Un., 1.7.2002 n. 9956 secondo la quale il complesso ed atipico rapporto tra la struttura sanitaria ed il paziente (partoriente) non si risolve nella fornitura di prestazioni di natura alberghiera e quindi di vitto ed alloggio ma consiste nella messa a disposizione di personale medico e paramedico, dell’apprestamento  di medicine ed attrezzature necessarie a garanzia del diritto alla salute del paziente.

Contra: Cass. n. 2678/1998, che scorge nel rapporto contrattuale tra sanitari e paziente soltanto una mera obbligazione strictu sensu terapeutica.

[7]    Tribunale Padova 9 agosto 1985 in Nuova Giur. Civ. Comm., 1986, I, pag. 115, con nota di P. Zatti, e in Foro It. 1986, I, c. 1995 con nota di V. Zeno Zencovich, Responsabilità e risarcimento per mancata interruzione della gravidanza.

R. Breda, Wrongful birth,  in Critica del danno esistenziale, a cura di G. Ponzanelli, Padova 2003, pag. 118.

[8]    Sentenza Cass. 8 luglio 1994, n. 6494 relativamente al comportamento negligente del medico che non ha informato la gestante prima che fosse dimessa dall’ospedale, della necessità di attendere il risultato dell’esame per avere la certezza dell’esito positivo dell’intervento interruttivo.

[9]    Sentenza Cass. 8 luglio 1994, n. 6494.

[10]   Gorgoni, I danni alla persona,  in Il danno risarcibile, a cura di G. Vettori, vol. 1°, Cedam.

[11]   La Corte di Appello di  Cagliari con pronuncia del 12.11.1998, statuisce che la struttura sanitaria da cui dipende il medico che ha eseguito l’intervento, è tenuta al risarcimento dei danni a favore della gestante ove risulti provato il danno alla salute o il serio pericolo per essa.

[12]   Rossetti, Errore, complicanza e fatalità: gli incerti confini della responsabilità civile in ostetricia e ginecologia, in Danno Resp. 2001, pag. 14 e ss..

[13]   Bianca, Commentario alla legge 25.05.1978 n. 194,  Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, a cura di C.M. Bianca e F.D. Busnelli, in Nuove leggi civili commentate, 1978, pag. 1593.

[14]   Venezia, Corte di Appello 23.07.1990.

[15]   De Matteis, La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, Padova 1995.

[16]   Cass. 24.03.1999 n. 2793.

[17]   B. Edelman, La personne en danger, Parigi, 1998.

[18]   Ceccherini Loi Santilli,  L’art. 32  nella giurisprudenza costituzionale, in “Tutela della salute” a cura di Busnelli e Breccia, Milano 1978.

Bessone, Rocco,  Diritto soggettivo alla salute ed applicabilità diretta dell’art. 32 della Costituzione, in Pol. Dir. 1974.

[19]   Vedi Foro It., 1979, I, 2302, con nota di Lener ; Giur. it., 1980 fasc. 5 con nota di Salvi; Giust. civ., 1980, I, 357 con nota critica di Piga.

[20]   Cerqueti, Genesi ed evoluzione del risarcimento dei danni da lesione del diritto alla salute e di altri  diritti della personalità, in Vita not., 2003, I, Parte III, LIII.

[21]   AA.VV., Un bambino non voluto è un danno risarcibile?, a cura di A. D’Angelo, in L’alambicco del comparatista, Collana diretta da M. Lupoi, Milano 1999; P. G. Monateri, La marque de Cain, La vita sbagliata, la vita indesiderata e le reazioni del comparatista al distillato dell’alambicco. R. De Matteis, Danno esistenziale e procreazione,pag. 135 e ss, 2004

[22]   Vedi Trib. Padova, 9.08.1985 con nota di Zatti in Nuova giur. civ. comm. 1986, 1, 115; Trib. Cagliari, 22.02.1995, in Nuova giur. civ. comm. 1995, 1, 1107.

R. De Matteis, La responsabilità medica. Il sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1995, con riferimento alla ipotesi di responsabilità della struttura sanitaria per violazione dell’obbligo di informazione del paziente in un’ipotesi in cui il medico, responsabile dell’intervento non era stato individuato. Vedi R. De Matteis, Consenso informato e responsabilità del medico, in D. Resp. 1986, 215.

[23]   Trib. Piacenza, 31.07.1950, in Foro it. 1951, I, 1987.

[24]   Vincenzo Zeno-Zencovich, La responsabilità per procreazione, in Giur. it., 1986, pag. 113 e ss..

[25]   M. Palmieri, Sulla responsabilità civile per infermità trasmesse alla prole mediante la generazione, in Justitia, 1953, 26.

L. Mengoni, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1982.

G. Galli, L’interruzione volontaria della gravidanza, Milano 1978.

[26]   Ex pluribus, Comment, Wronful life and a Fundamental right to be born healthy: Park v. Chessin, Becker v. Schwartz, 27, Buf. L. Rev. 537, 1978. Sic. Comment, Wronful life and Wronful Birth Causes of Action: Auggestions for a Consistent Analysis, 63, Marq. L. Rev. 611, 1980, Wrongful life“: The right Not to Be Born, 54 Tul. L. Rev. 480, 1980. 

[27]   Appellate Court of Illinois, 3.4.1963, in 190 NE, 2ª ed., 849, v. Mangini, Un nuovo caso di "danno di procreazione", Riv. dir. civ., 1964, II, 609.

[28]   Sul punto vedi V. Zeno-Zencovich, op. cit., che osserva che nella sentenza la questione essenziale è data dal nesso causale tra la condotta illecita e l'evento dannoso, e cioè secondo il principio della regolarità causale tra gli eventi.

[29]   D'Angelo, Wrongful birth e Wrongful life negli ordinamenti inglese ed australiano,  pag. 155 e ss.

[30]   District Court Alabama, 21.03.1994, Basten, v. United States of America, in Un bambino non voluto è un danno risarcibile?.

[31]   Supreme Court of California, 3.5.1982, Turpin v. Sortini e Court of Appeals of California, 11.6.1980, Curlender v. Bio-Science Laboratories.

[32]   Decisione della Corte Suprema americana sul caso Roe v. Wade del 1972 con cui è stata riconosciuta la legittimità costituzionale della interruzione della gravidanza entro i primi tre mesi.

[33]   Appello Venezia, 23.7.1990 in Riv. It. Med. Leg. 1991, 1321 con commento di Zanchetti, Il danno ingiusto conseguente alla mancata interruzione della gravidanza, Appello Bologna, 12.12.1991, in Arch. Civ. 1992, 295 e in Dir. Fam. 1993, 1081 con commento di Cei, La tutela della salute e il padre del concepito.

[34]   M. Bona, Filiazione indesiderata e risarcimento del danno da bambino non voluto, in Danno e resp. 1999, 1, 82 ss.; Cass. Civ. 8.7.1994 n. 6424 con nota di Gorgoni in Resp. Civ. e Prev. 1994, 1029, Il diritto di programmare la gravidanza e risarcimento del danno per nascita intempestiva.

[35]   Tribunale di Milano 14.5.1998 in Resp. Civ. Prev. 1998, 1623, con nota di Maglione, Libertà di autodeterminazione e consenso informato all'atto medico: un'importante sentenza del Tribunale di Milano.

[36]   Cassazione 8.7.1994 n. 6494, Cg. 1995, 91.

[37]   Tribunale di Cagliari 23.5.1995; App. Bologna 19.12.1991; Tribunale di Verona 15.10.1990.

[38]   Sic, Cass. 8.7.1994 n. 6464.

[39]   Cfr. Bverfg, I Sez., 12 novembre 1997, in Danno e Responsabilità 1998, 419, con nota di Brunetta D'Usseaux.

[40]   Castronovo, Danno biologico, cit. pag. 43 ss.; Ponzanelli, Il risarcimento del danno meramente patrimoniale nel diritto italiano, in Danno e Responsabilità, 1998, pag. 729; Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino 1996.

[41]   Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, Sentenza 30 ottobre 2003, in Diritto e Giustizia, n. 23, 12 giugno 2004, pag. 74 e ss.

[42]   Orrù, Tribunale di Cagliari 23.2.1995, in Nuova Giurisprudenza Civile Comm. 1995, 1, pag. 1107 e in Resp. Civ. 1995, pag. 599 con nota di Gorgoni, Riv. It. Med. Leg. 1996, pag. 945, Nuovi spunti in tema di danno derivante dal fallimento di interruzione volontaria della gravidanza.

[43]   Cass .Civ 1-12-1998 n. 12195, in Foro it. 1999, 77, ed, in particolare, la decisione dei Giudici di legittimità che si sono pronunciati a favore della risarcibilità dei danni alla salute subiti non soltanto dalla madre ma anche dal padre del bimbo nato con grave handicap, questi ultimi configurabili come danni riflessi alla lesione del diritto della madre ad interrompere la gravidanza; G. Criscuoli, Ragionevolezza e consenso informato del paziente, in Ras. Dir. Civ. 1985, 480.

[44]   Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., Napoli, 2153 ss..

[45]   B.G.H. 8 luglio 1994.

[46]   B.G.H. 25 febbraio 1992, che riguarda un caso di interruzione di gravidanza senza esito positivo; la Corte tedesca non ha accolto la richiesta di risarcimento delle spese di mantenimento del bambino. Le suddette spese infatti che i genitori hanno affrontato a seguito della nascita del bambino non sono stati giudicati come comportanti un danno risarcibile.

[47] Trib. Busto Arsizio 17.07.2001, in R.C.P. 2002, pag. 441 e ss..

[48] Sul punto vedi F. Bilotta, La nascita non programmata di un figlio e il conseguente danno esistenziale, in Resp. Civ. e Prev., 2002, pag. 446 e ss..

[49]   M. Bona: Vasectomia e il diritto alla procreazione cosciente o responsabile: la questione (risolta) della liceità penale e civile, in D.R. n. 1/1999, pag. 88 e ss..

[50]   G. Criscuoli, Il problema del risarcimento del danno da procreazione "non programmata": le risposte della giurisprudenza di common law, in Ras. Dir. Civ. 1987, 442-464, laddove si distingue da parte dell'illustre autore tra wrongful birth e wrongful life.

[51]   Favale, Genitori contro volontà e risarcimento per i danni da nascita, commento a Bundesgerichthof, sez. VI, 15.02.2000, in Dan. e Resp. 2001, pag. 481-489.

[52]   Princigalli, Quando la nascita non è un lieto evento. Una nuova frontiera nell'errore medico, in Riv. Crit. Dir. Priv. 1984, 833 e ss., Navarretta, Il diritto a nascere sani e la responsabilità del medico, in Resp. Civ. Prev. 1990, 1059.

[53]   De Cupis, I diritti della personalità, Milano 1982, pag. 117; Introna, La sterilizzazione consensuale senza necessità terapeutica, costituisce lesione personale gravissima, in Riv. It. Med. Leg. 1981, 526; Coviello, La sterilizzazione in relazione alla salute e alla dignità della persona, in Dir. Fam. e Pers. 1980, pag. 905 e ss..

[54]   Dogliotti, La Corte Costituzionale riconosce il diritto alla identità sessuale, in Giur. It. 1987, I, 235 e ss.; Mazzoni, La bioetica ha bisogno di norme giuridiche, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ. 1998, 285 e ss..

[55] Costanza, Informazione del paziente e responsabilità del medico, in Giust. Civ. 1986, I, 1436; Romano, Considerazioni in tema di responsabilità contrattuale del medico per violazione del dovere di informazione, in Giur. It. 1987, I, 1, 1135.

[56]   A. D’Adda, I nuovi assetti del danno alla persona: dal danno biologico al “danno esistenziale” in Resp. civ. e prev., 2002, pagg 357–359.

[57]   Sherlock contro Stilwater Clinic (Supreme Court Minnesota 14.10.77), noto caso di un uomo che diviene padre per l’ottava volta a seguito di fallito intervento operatorio.

[58]   Sic, Tribunale di Roma, 13.12.1994 in D.F. 1995, 662; Cass.1.12.1998 n. 12195 in G.I. 1999, I, 2038 e Trib. Perugia 7.9.1998 in Foro it. 1999, I, 1804.

[59]   Cassazione 10.5.2002 n. 6735.

[60]   Cass. 1.12.1998 n. 12195.

[61]   Zatti, Diritti dell'embrione e capacità giuridica del nato, in Riv. Dir. Fam. 1997, 107.

[62]   Pinori, Contratto con effetti protettivi a favore del terzo e il diritto a nascere sano, in Giur. it. 1995, I, 1, 317.

 

[64]   Cass. 22.11.1993 n. 11503 in Giur. it. 1994, I, 1, 1550 con nota di Carusi, Responsabilità contrattuale ed illecito anteriore alla nascita del danneggiato;

Con riferimento al caso della morte del genitore all'epoca in cui il nascituro era soltanto concepito ma attraverso un procedimento di interpretazione estensiva, vedi Cass. pen. sez. IV, 13.11.2000, in R.C.P. 2001, 327 con nota di Miotto, Il danno del nascituro e (molto) altro in una pronuncia della Cassazione Penale: un'occasione per riflettere sulla svolta giurisprudenziale in tema di struttura dell'illecito civile.

[65]   Ferrando, Libertà, responsabilità, procreazione, Padova 1999, 229.

[66]   Busnelli, Prima della nascita: quid iuris?, Bioetica e diritto privato (frammenti di un dizionario), Torino 2001.

[67]   Carnelutti, Nuovo profilo dell'istituzione dei nascituri, Foro it., 1954, IV vol..

[68]   G. Gambino, Diagnosi prenatale. Scienza etica e diritto a confronto, Ed. Scientifica Italiana, Napoli 2003, pag. 125 e ss..

[69]   G. Gambino, op, cit., pag. 139.

[70]   Tribunale di Roma 13.12.1994.

[71]   Tribunale penale Locri 05.10.2000 in R.C.P. 2001, 409, con nota di Ziviz, Danno biologico e danno esistenziale: sovrapposizioni e parallelismi.

[72]   Cassazione 10.05.2002.

[73]   L. Lenti, Famiglia e danno esistenziale, in Il danno esistenziale, cit. 255-264; G.B. Petti, Il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale alla persona, Torino 1999.

[74]   Vedi anche Cass. sez. I civ. 10.01.2000/07.01.2000 n. 7713.

[75]   De Cupis, Il valore economico della persona umana, in R. Trim. Proc. Civ. 1956, pag. 1264 e ss..

[76]   Cass. Ass. Clen. 17.11.2000, in J.C.P., 2000, II, 10438; sic Cass. Ass. Clen. 13.07.2001, in J.C.P., 2001, II, 10601.

[77]   Così R. De Matteis, Danno esistenziale e procreazione, pag. 135 e ss., 2004.

[78]   Cass. Pen. Sez. Unite, Sentenza n. 30328 depositata l'11.09.2002, che testualmente motiva: "Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica - universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell'evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato me in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

La conferma dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale non può essere dedotta automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza disponibile, così che, all'esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa al conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con «alto o elevato grado di credibilità razionale» o «probabilità logica».

L'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del giudizio".

[79]   Zeno-Zencovich, La sorte del paziente. Irresponsabilità del medico per l'errore diagnostico, Cedam 1994;

Vedasi anche: Stella, Leggi specifiche e spiegazioni causali nel diritto penale, Milano 2000.

[80]   Cass. 12.05.1983 in Cassazione Penale 1984, 1142.

[81] Cacace, L'omissione del medico e  il rispetto della presunzione di innocenza nell'accertamento del nesso causale, in Danno e resp., 195-205.

[82]   Cass. Sez. IV Pen. 28.11.2000, in Dir. Pen. Proc. n. 3/2002, 311 e ss..

[83]   Cass. Civ. 16.11.1988 n. 6220, in Giust. Civ. Mass. 1988, 1490.

[84]   Adragna, Osservazioni sull'evoluzione giurisprudenziale circa l'applicabilità dell'art. 1226 c.c. al contratto d'opera contrattuale, in Giur. Cass. GC 65.

[85]   Cassazione Sez. III Civ., sentenza 7 novembre 2003– 19 maggio 2004, n. 9471.

[86]   Liserre, In tema di danno prenatale, in R.D.C. 2002, I, 97. Cfr. al riguardo anche cenni di Carnelutti, op. e loc. cit.

[87]   Carusi, op. cit.

[88]   Baldini - Cassano, Persona, biotecnologie e procreazione, Milano 2002, 59 e ss..

[89]   Busnelli - Patti, Danno e responsabilità civile, Torino 1997, 277.

[90]   Princigalli, Nascere infermo o non nascere: quale tutela per il nuovo nato?, in  R.C.D.P. 2001, 675.

[91]   Vedi art. 2059 c.c. in linea con i recenti orientamenti giurisprudenziali.

[92]   C. Labrusse - Riou e B. Mathieu, La vie humaine comme prejudice?, in Le Monde, 24 novembre 2000.

[93]   B. G. H. Z. 86, 240, 347 e ss..

[94]   Olg München in N. J. W. 1981, 2012 e ss..

[95]   Stevenson, The Weekly Law Report, 1982, 904.

[96]   Stevenson, op. cit..

[97]     Vedi Bentham v. Gambling.

[98]     Direttiva della Law Commission in Law Commission Report in Injuries to Unborn Children, 1974.

[99]     G. G. Sarno, Tort Liability for Wrongfully Causing One To Be Born, in American Lae Reports, Cases  and Annotations, 83, 15 e ss.;

H. Teff, The Action for "Wrongful Life" in England an the United States, in International and Comparative Law Quarterly, 34, 423 e ss..

[100]    Gleitman v. Cosgrove, 227 A. 2 d 689, 22 A. L.R.3 d 1411(New Jersey).

[101]    Faerber, Wrongful life, 47 e ss..

[102]    Azzolino v. Dingfelder, Supreme Court of North Car., 10.12.1985.

[103]    In altre sentenze, è stata invece riconosciuta la legittimità della pretesa risarcitoria del bambino. Ad esempio, così si è pronunciata la Corte Suprema della California nei casi Turpin v. Sortini e Curlender v. Bio-Science Laboratories; al medesimo risultato e cioè di riconoscimento pieno alla domanda risarcitoria del bambino, si è giunti attraverso l’orientamento seguito dalla Corte Suprema del New Jersey, relativamente al caso Procanik v. Cillo e al caso Roe v. Wade U.S. Supreme Court.

[104]    Per quanto riguarda invece la sentenza della Corte Suprema della Pennsylvania, Speck v. Finegold, non è stato riconosciuto alcun diritto al risarcimento, sulla base che non sussiste una possibilità di scelta di non essere partoriti e che comunque il riconoscimento di un tale diritto andrebbe contro uno dei compiti fondamentali dello Stato che è la tutela della vita umana. Ad esempio: Corte Suprema dell'Alabama, Elliot v. Brown, 361, So. 2 d 546, Alabama, 1978.

[105]    Park v. Chessin, 387, N.Y. S. 2 d, 204.

[106]    Corte Suprema del New Jersey, Gleitman v. Cosgrove, 227, A. 689.

[107]    Vedi Corte Suprema della California op. cit.

[108]    Cass.Civ.  22.05.-1.12.1998 n. 12195 in Guida al diritto n. 8/1999 pag. 73 in cui rileva tralaltro la questione se il danno patito da un congiunto possa in via indiretta estendersi all’altro coniuge; App. Lecce 11-3-2000 secondo cui la responsabilità del medico è da valutare ai sensi dell’art.1176, II comma e non a norma dell’art.2236 c.c.

[109]       Cfr. anche Sent. Trib. Reggio Calabria 31/3/2004 in Danno e resp. 2005 con nota di A.L. Bitetto, Wrongful birth”: Diritti dei genitori e assistenza tempestiva al figlio disabile” pronuncia che estende l’area della tutela risarcitoria nei confronti di entrambi i genitori. Tale pronuncia rileva soprattutto per l’obbligazione contrattuale del medico di effettuare le opportune indagini diagnostiche prenatali al fine di prevenire e curare la patologia genetica al fine di circoscrivere i danni per il concepito; Sent. Trib. di Palermo 3/3/2003 in Danno e resp., 2003, 671, con nota di Carbone, Responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto; Cass. 10 maggio 2002 n. 6735 in Foro It., 2002, I, 3115, con nota di Simone, Nascita indesiderata: il diritto alla scelta preso sul serio;

          Contra, Cass. Civ. 24 marzo 1999, n. 2793 in Danno e resp., 1999, 766 con nota di M. Gorgoni, Interruzione volontaria della gravidanza tra omessa informazione e pericolo per la salute della partoriente, secondo cui l’inadempimento dell’obbligo di informazione della paziente di per sé non è giuridicamente rilevante ai fini del risarcimento del danno, nel caso in cui la paziente non dia prova della sussistenza delle condizioni previste dall’art. 6 della L. n. 194/78.

 

 

 

Data di pubblicazione:  20 settembre 2005