Rivista di diritto dell’economia,
dei trasporti e dell’ambiente, III/2005
Il diritto alla vita tra Costituzione e giurisprudenza
Massimo Pellingra Contino *
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. - 1.1. Profili generali del diritto alla salute. - 1.2. Fallimento dell'intervento interruttivo della gravidanza e sue conseguenze. - 1.3. Fallimento dell'intervento di sterilizzazione. - 2.1. Nascita di un bambino malformato e responsabilità civile nell'attività medico-chirurgica: ipotesi di wrongful birth e wrongful life. - 2.2. Responsabilità del medico e della struttura sanitario-ospedaliera e nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento lesivo prodotto dall'attività medica. - 3.1. Responsabilità dei genitori e tutela dei figli. - 3.2. I diritti del concepito: diritto di non nascere o diritto a nascere sano? La risposta al problema della nascita indesiderata secondo la giurisprudenza delle Corti straniere.osta in tempi recenti all’attenzione dei giuristi la tematica relativa alla
1. Considerazioni introduttive
Si è posta in tempi recenti
all’attenzione dei giuristi la tematica relativa alla responsabilità civile del
medico e quella derivante da strutture sanitario-ospedaliere per i danni
cagionati ai genitori da nascita indesiderata.
La tematica ha suscitato notevole
interesse ed è stata oggetto di trattazione in particolare dagli anni ’90 in
poi in cui sono emersi diversi interrogativi da parte della dottrina e della
giurisprudenza, tanto che ad oggi la soluzione di detti interrogativi appare
incerta e difficile, considerato che, sia per la novità che per l’importanza
dell’argomento, non sono ancora emersi orientamenti che possano essere
considerati consolidati.
Il dibattito che è sorto relativamente
all’analisi dell’argomento si può ritenere infatti ancora aperto; ciò deriva, in primis, dal progresso della scienza
medica e della tecnologia, che, sotto il profilo degli accertamenti diagnostici
e delle moderne metodologie interventistiche, ha raggiunto livelli qualitativi
prima sconosciuti.
Va chiarito inoltre al riguardo che
l'ordinamento giuridico ha subito una evoluzione in ordine alla tutela dei
diritti soggettivi costituzionalmente garantiti relativamente ai trattamenti
medico-chirurgici consentiti e, in tal senso, il referente normativo è da
individuare nella legge 22 maggio 1978, n. 194, che disciplina l’interruzione
volontaria della gravidanza.
Si tratta, sotto il profilo del
progresso scientifico raggiunto e dello sviluppo dell’indagine, in subiecta
materia, da parte degli studiosi del diritto, di tematiche che sono state
oggetto di ampia trattazione da parte della dottrina e della giurisprudenza
oltre che dalla Corte Costituzionale.
La giurisprudenza, in particolare,
infatti ha trattato la materia in oggetto essenzialmente con riferimento a tre
fattispecie di nascita indesiderata, che sono da ravvisare rispettivamente nel
fallimento di un intervento di interruzione della gravidanza, nel fallimento di
un intervento medico di sterilizzazione maschile, nella nascita di bambini
affetti da malformazioni non diagnosticate nella fase prenatale o di soggetti
nati con malattie genetiche e quindi minorati a causa di mancata informazione
da parte del medico nei confronti dei genitori.
A tali fattispecie si aggiunge anche quella relativa alla nascita
di bambini affetti da una patologia trasmessa dai genitori all’atto del
concepimento oppure cagionata durante lo sviluppo embrionale.
Pertanto la distinzione più rilevante
tra le fattispecie richiamate sopra, attiene alla nascita di un bambino sano
oppure affetto da menomazioni.
Tale distinzione dal punto di vista
dogmatico non è priva di importanza poiché, nel primo caso, la nascita produrrà
danno in sé ed è non voluta (la giurisprudenza anglosassone incentrata sul
sistema del Common Law, ha coniato il
termine wrongful birth con
riferimento alla fattispecie di nascita indesiderata), nell’altro caso invece
non è la nascita a costituire fonte di danno e quindi di responsabilità civile,
bensì è il danno stesso a derivare da quella particolare condizione al momento
del concepimento che prelude ad un’esistenza sofferta configurandosi così un
danno diretto per il nascituro e un danno riflesso per i familiari.
Va rilevato all’uopo che la trattazione
della tematica in oggetto spesso ha determinato e continua a determinare una
certa insoddisfazione nell’opinione pubblica e anche negli stessi studiosi del
diritto in considerazione del fatto che la nascita di un essere umano venga
considerata come fonte di danno secondo le categorie civilistiche del nostro
ordinamento giuridico, come si evince dall’uso sovente dell’espressione “danno
da procreazione”, riferita alla nascita indesiderata.
La questione è stata analizzata
evidenziando il pregiudizio lamentato dai genitori in conseguenza della nascita
di un figlio non desiderato, circostanza lesiva del cosiddetto diritto
all’autodeterminazione[1] in materia di procreazione. Da parte della dottrina
e della giurisprudenza si è infatti ritenuto che debba essere stabilito il
diritto del concepito al risarcimento nel caso di lesioni subite nella fase pre
o postnatale e, in quest’ultima ipotesi, per essere nato con handicap o con
grave disagio psico-fisico. Il dibattito sulla risarcibilità dei danni patiti
da un soggetto già concepito ma non ancora venuto ad esistenza, è stato da
sempre piuttosto controverso, data la naturale tendenza ad essere oggetto di
argomentazioni anche di carattere etico che risentono indubbiamente della
formazione di ciascun operatore del diritto. Ciò in quanto gran parte della
dottrina giuridica ha impostato l’impianto argomentativo sul disposto dell’art.
1 del codice civile: da una parte vi è un orientamento che implica il
riconoscimento al nascituro dello status di persona avente diritti, almeno a
livello potenziale, da un’altra parte, vi è una tendenza a non attribuire al
concepito una posizione giuridica soggettiva effettiva, pur riconoscendo ad
esso la capacità di essere centro di imputazione di diritti e di interessi da
tutelare[2].
In una continua diatriba tra diritto e
morale, tra progresso tecnologico e tradizionalismo scientifico, le convinzioni
dell’opinione pubblica ovviamente vacillano soprattutto nel caso in cui i
controlli medici vengano condotti in modo corretto e, nonostante ciò, si
manifesti un danno o un handicap per il nascituro.
Le tecniche diagnostiche mediche riescono
normalmente già nelle prime fasi di crescita dell’embrione ad indicare il
futuro stato di salute del bambino e purtuttavia è possibile che ciò non accada
per motivi riconducibili ad un errore diagnostico che spesso si accompagna ad
un omesso obbligo di informazione nei confronti della gestante sulle reali
condizioni di salute del bambino.
Se da una parte la diagnosi medica può
ingenerare nella madre, a seguito della scoperta di patologie, di malformazioni
o di anomalie genetiche, il proposito di ricorrere all’intervento abortivo, nello
stesso tempo sorge una conflittualità nella posizione di entrambi i genitori a fronte della problematica
dell’accertamento che il nascituro possa essere affetto da menomazioni tali da
non consentirgli di venire ad esistenza o di condurre in futuro una vita sana.
Si suol prospettare così alla madre la
possibilità di portare a termine la gravidanza dando alla luce un figlio malato
oppure di interromperla e, quindi, di optare per un intervento abortivo eugenetico in quei casi in cui cioè, per
legge, i genitori sono dispensati dall’obbligo di far continuare la gravidanza.
È da osservare che anche sotto il
profilo etico oltre che giuridico la decisione di interrompere la gravidanza,
seppur nei casi ammessi dalla legge, appare certamente di difficile attuazione,
così come appare di non facile approccio la posizione del giurista
nell’esprimere la propria opinione in ordine alle responsabilità scaturenti
dalle situazioni sopra descritte.
In ordine agli aspetti risarcitori
numerose sono le perplessità sorte anche alla luce della conduzione di
un’indagine di carattere comparatistico e quindi di confronto con gli
ordinamenti giuridici diversi da quello italiano.
La trattazione del tema, alquanto
complessa, indubbiamente è influenzata da riflessioni ed esigenze diverse che
nascono e si giustificano nel nostro diritto positivo oltre che nel diritto
comparato.
Le problematiche che sin dal diritto
romano riguardano qui in utero est
hanno trovato un fertile terreno di dibattito, non tanto con riferimento al
noto brocardo conceptus pro iam habetur
quotiens de eius commodis agatur e cioè con riguardo all’acquisto di
diritti patrimoniali da parte del concepito, quanto con riferimento al diritto
del soggetto di non nascere o di nascere sano.
Per quanto riguarda l’aborto, vanno
evidenziati diversi indirizzi giurisprudenziali in materia sia italiani che
stranieri, ed in modo differente a seconda che si optasse per l’indirizzo “pro life” ovvero
“pro choice” e cioè o a favore del concepito oppure a favore
della libera autodeterminazione e pertanto di scelta della madre.
Nel panorama giurisprudenziale e
dottrinario degli ultimi tempi si è anche profilata la distinzione tra la fase embrionale e la cosiddetta fase pre-embrionale: all’embrione infatti non ancora formato, secondo la
giurisprudenza di matrice anglosassone, non è riconoscibile un diritto alla
vita in quanto la persona non si è ancora formata sotto l’aspetto ontologico ma
si trova ancora in una condizione di pre-sviluppo.
Il dibattito in corso da tempo tra i
giuristi di Civil Law in tema di danno
da nascita indesiderata non ha incontrato in materia di “wrongful life” il medesimo trattamento da parte dei Tribunali
italiani che non hanno a tutt’oggi riconosciuto al nascituro il diritto di non
nascere, di non esistere.
I casi esaminati, oggetto di pronuncia
dei Tribunali e delle Corti anglosassoni, hanno fatto sorgere in tutta Europa
contestazioni più o meno argomentate, tra diritto e morale, sul presupposto
che, secondo certi orientamenti, il diritto di non nascere equivarrebbe ad un
rifiuto della persona, di se stessi e, quindi, censurabile.
Secondo un altro indirizzo, si
tratterebbe invece di un diritto riconosciuto alla gestante di non far nascere
un bambino non sano, diritto estendibile a sua volta al bambino stesso e tale
che, in un certo senso, venga attribuito anche a quest’ultimo un diritto di
scelta sulla propria vita[3].
Si tratterebbe quindi di distinguere il
diritto del soggetto come persona fisica dal diritto del soggetto vittima di un
pregiudizio, rapportabile ad una nascita non voluta nei casi sopra previsti.
Certamente ciò ha suscitato da un lato un certo interesse, ma dall’altro anche
un certo scalpore se ci riferiamo a quanto accaduto in tempi recenti
relativamente alla vicenda francese dell’Affaire Perruche, oggetto di una nota
sentenza, che ha attribuito ad un adolescente nato handicappato il risarcimento
del danno sulla base del riconoscimento del diritto di nascere sani.
In altri ordinamenti giuridici come
quello tedesco, invece, non è riconosciuto il medesimo diritto sulla base del
tradizionale indirizzo giurisprudenziale in materia di responsabilità civile.
Tale diritto infatti si fonda sulla
tutela di valori e di interessi della persona; nonostante la capacità giuridica
piena si acquisisca al momento della nascita, è da ammettere purtuttavia una
limitata capacità del nascituro condizionata all’evento della nascita nel
momento in cui quest’ultima si consideri come momento perfezionativo del fatto
dannoso.
Con un ulteriore esame del contenuto
della responsabilità civile e quindi del risarcimento del danno si è attribuita
anche una rilevanza alla integrità psicofisica della persona di per sé
considerata.
A tal proposito i principi enunciati
nella sentenza n. 184 del 1986 della Corte Costituzionale, nota come sentenza
Dell’Andro, rilevante per la interpretazione costituzionalmente orientata
dell’art. 2043 c.c., non appaiono limitati alla tutela del diritto alla salute
del soggetto ma risultano applicabili con riferimento a tutti gli interessi
costituzionalmente protetti e ai diritti inviolabili della persona.
Andrebbero tutelate dunque le situazioni
giuridiche soggettive inviolabili ed universali che attribuiscano diritti
aventi carattere non patrimoniale e comunque volti a difendere beni che
attengano alla persona fisica, cosicché l’essere umano non potrebbe essere
concepito nella sua essenza, a prescindere dal godimento di tali diritti[4].
Per quanto concerne le fattispecie[5]
richiamate, e in particolare, l’interruzione della gravidanza, va chiarito che
trattasi di casi in cui, dopo essere stato effettuato l’aborto secondo le
prescrizioni dettate dalla legge n. 194/1978 e quindi anche nell’ipotesi in cui
la gestante sia stata dimessa dalla struttura ospedaliera, a distanza di
qualche tempo si accerti la persistenza dello stato di gravidanza, ormai
scaduti i termini previsti per legge per procedere ad un intervento abortivo
suppletivo.
Da ciò consegue un’azione da parte della madre nei confronti del
sanitario al quale si addebiterebbe il fallito intervento interruttivo e della
struttura sanitario-ospedaliera, per ottenere il risarcimento dei danni
provocati e normalmente quantificabili in una determinata somma di denaro
necessaria ad assicurare il mantenimento del concepito sino alla completa
autosufficienza economica.
Per prassi consolidata, dottrina e
giurisprudenza hanno proceduto alla verifica dell’effettivo rispetto, con
riferimento al tempo dell’intervento subito dalla gestante, delle condizioni
stabilite dalla legge n. 194, in quanto ex
casu adverso si integrerebbero gli
estremi di un illecito penale (art. 19 della legge citata) e il mancato
rispetto di detta normativa renderebbe
nullo, ai sensi dell’art. 1418 comma 1° c.c., il rapporto contrattuale tra la
partoriente e i sanitari[6]
impedendo, in tal modo, l’accoglimento della richiesta di risarcimento.
Appare opportuno evidenziare che la
legge n. 194 distingue, al fine dell’eseguibilità del procedimento operatorio
abortivo, più fasi o periodi della gravidanza.
Per i primi novanta giorni di
gestazione, l’art. 4 della legge delimita i presupposti per poter procedere ad
aborto, a tutela della donna dal serio pericolo per la sua salute fisica o
psichica anche in relazione alle singole disponibilità e condizioni economiche
e prevede un procedimento di consultazione socio-sanitaria, affidando alla
madre la valutazione sull’opportunità di sottoporsi all’intervento abortivo
richiesto.
Dopo i primi 90 giorni l’interruzione
della gravidanza può essere praticata, ai sensi dell’art. 6 della legge n. 194,
in due casi e cioè quando ricorre un grave pericolo per la vita della gestante
o quando venga accertato un processo patologico già in atto e non meramente
potenziale, che possa costituire un grave pregiudizio per la salute psicofisica
della gestante. Si tratta di situazioni riconducibili all’accertamento del
medico e non alla sfera relativa al diritto all’autodeterminazione della madre,
come risulta dalla lettura dell’art. 7, comma 1° della suddetta legge.
Inoltre nel momento in cui vi è la
possibilità di vita autonoma per il nascituro, l’interruzione della gravidanza
può essere praticata soltanto se la prosecuzione della stessa comporti un grave
pericolo per la vita della gestante (art. 7 u.c. della legge).
Nelle fattispecie oggetto della
giurisprudenza, trattasi di interventi abortivi compiuti nei primi 90 giorni
della gravidanza e quindi rientranti nella prima delle fasi richiamate,
interventi rivelatisi inefficaci quando ormai l’operazione interruttiva non
poteva essere più ripetibile.
Con riferimento alle ipotesi richiamate
una delle prime tematiche affrontate dalla giurisprudenza è stata
l’individuazione dell’interesse leso[7];
infatti, prima che tale tematica venisse affrontata dalla dottrina e dalla
giurisprudenza, non risulta sia mai stata prospettata, quale evento dannoso, la
nascita di un figlio sano in sé e per sé considerata come lesione
dell’interesse alla cosiddetta procreazione cosciente e responsabile.
Sono stati introdotti tra gli elementi
utili per dimostrare la sussistenza del danno, le conseguenze della nascita del
figlio sulle condizioni di salute della madre o di entrambi i genitori, nonché
le ripercussioni da un punto di vista economico che la crescita di un figlio
comporta di per sé, conformemente a varie pronunce giurisprudenziali.
enuto conto di ciò, al fine di poter
ravvisare la responsabilità del medico per fallito intervento abortivo, occorre
provare se la condotta colposa del medico, giuridicamente rilevante, possa
essere riconducibile all’esecuzione di un intervento di interruzione della
gravidanza rilevatosi inefficace.
La mancata interruzione della gravidanza
presenta ai fini risarcitori, differenti profili tra cui: i presupposti che
legittimano le richieste di intervento abortivo, i danni che possano essere
oggetto di pretesa risarcitoria in caso di violazione del diritto di
interrompere la gravidanza, l’oggetto della prova per ottenere il risarcimento
dei danni fatti valere in giudizio e il diritto del coniuge a titolo di
risarcimento del danno.
è indubbio che, in caso di mancata interruzione della
gravidanza nei primi novanta giorni (art. 4 legge n. 194)[8],
per la determinazione dell’an e del quantum del danno risarcibile, sia
necessario individuare il bene giuridico tutelato dalla legge.
Secondo la giurisprudenza della Corte di
Cassazione[9] per quanto
concerne il profilo dell’an del
danno, l’interesse protetto ex art. 4 della legge n. 194 è la salute fisica o
psichica della gestante e solo l’esistenza di un serio pericolo per la salute
della madre legittima l’interruzione della gravidanza[10].
Una volta provato l’an del danno, anche il quantum
risarcibile dipende dall’entità della lesione del bene giuridico protetto
dalla legge n. 194; infatti il risarcimento è da determinarsi secondo quelle
forme necessarie a rimuovere le difficoltà economiche idonee ad incidere
negativamente sulla salute della donna e a risarcire quest’ultima dei danni
alla salute concretamente subiti[11].
Il medico e la struttura sanitaria
rispondono, a titolo di responsabilità contrattuale, trattandosi di un contratto
d’opera professionale esistente tra la gestante e la struttura sanitaria[12].
La responsabilità contrattuale inoltre
sarebbe cumulabile con la responsabilità extracontrattuale ove il comportamento
del medico possa configurarsi come violazione del diritto della madre di
scegliere tra l’aborto e il rischio per la propria salute derivante dalla
maternità[13].
Né la responsabilità può essere oggetto
di limitazione sub specie dell’art.
2236 c.c., disposizione che, secondo la Corte di Cassazione, è applicabile anche
alla responsabilità extracontrattuale; l’interruzione della gravidanza,
infatti, non rientra nelle tipologie di intervento che comportano una certa
perizia non richiedendo la soluzione di problemi tecnici di speciale
difficoltà.
Per quanto riguarda la posizione
giuridica del marito, da talune Corti si è statuito che spetti il risarcimento
del danno patrimoniale[14];
secondo altre pronunce invece, tale risarcimento non è dovuto in quanto il
padre non sarebbe titolare di un diritto né tampoco di alcuna posizione
giuridica soggettiva in ordine all’intervento abortivo.
Alcune sentenze hanno addirittura
disconosciuto il padre come legittimato attivamente all'azione risarcitoria e
ciò anche considerando il dispositivo di cui alla legge n. 194/78 che tutela
esplicitamente la madre.
Recentemente tale orientamento è stato
disatteso dalla prevalente giurisprudenza. Infatti è stato affermato che tra i
diritti e i doveri che si desumono dalla legge richiamata e dalla Costituzione
nonché dallo stesso Codice Civile agli artt. 143, 147, 261 e 279, è da
annoverare anche il padre tra i soggetti nei cui confronti l'obbligo di
prestazione da parte del medico è dovuto.
[15]. soggetto non certo estraneo alla vicenda e
rispetto al quale la prestazione inesatta o mancata è qualificabile come
inadempimento nel caso in cui si sia costituito come parte lesa nel giudizio
risarcitorio.
Nel caso invece di omessa informazione
verso i genitori da parte del medico in ordine alle malformazioni del feto, la
Cassazione è intervenuta più volte in quanto spesso i coniugi hanno lamentato
la violazione del combinato disposto degli artt. 6 lett. b e 7 della legge
194/1978 che offre la possibilità, dopo la scadenza del termine di novanta
giorni previsto dalla legge, di interrompere la gravidanza nel momento in cui
si accertino difetti genetici, anomalie o malformazioni del nascituro.
Dall'analisi dell’art. 6 lett. b) della
legge sopra richiamata scaturisce indubbiamente la circostanza che, al fine
dell’esercizio dell’intervento abortivo, sussista un processo patologico
psico-fisico in atto della gestante, determinato esclusivamente dalla
malformazione del nascituro.
Il risarcimento dei danni, secondo i
principi generali è condizionato alla prova dell’evoluzione del processo
patologico che abbia inciso sulla salute della gestante, non essendo
sufficiente provare la mancata informazione da parte del medico sulla presenza
di anomalie del feto[16].
Il legislatore italiano, a prescindere
dalle diverse fattispecie richiamate,in verità ha inteso tutelare l’individuo
sin dal suo concepimento alla stregua del fatto che debbono essere impiegati
tutti i mezzi possibili al fine di favorire la nascita e il rispetto della
salute del bambino in base alla valutazione della dimensione umana del
concepito e del diritto dell’individuo in quanto nato.
Tutta la giurisprudenza in materia si
adegua sostanzialmente alla tutela dei diritti universalmente riconosciuti
dalla dichiarazione dei Diritti dell’uomo del 1950 e che sono stati anche
oggetto di successivi provvedimenti normativi da parte di tutti gli Stati
aderenti alla Dichiarazione medesima.
L'essere umano - come è stato rilevato - in quanto tale, è degno
di protezione nella sua doppia dimensione di “portatore di un diritto personale da un lato e di un diritto cosiddetto
dell’umanità dall'altro”.[17]
Così, se da un punto di vista
sostanziale si parla di soggetto concreto, da un punto di vista formale,
invece, trattasi di soggetto non considerato più nella sua interezza come
persona ma nella sua individualità protetta dal diritto.
1.1. Profili generali sul diritto alla salute
Il diritto alla salute trova il proprio
fondamento costituzionale nell’art. 32 della Costituzione italiana che dispone:
“la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e come
interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti[18].
Va posta in rilievo che è stata dalla
giurisprudenza operata una interpretazione restrittiva della portata normativa
dell’art. 32 Cost. ed anche una esegesi puntuale che riconosce la risarcibilità del “danno biologico”.
In un primo tempo l’ interpretazione del
citato art. 32 della Costituzione si è
orientata sul diritto alla salute non sulla base delle condizioni
dell’individuo bensì evidenziando
sostanzialmente la sua dimensione fisica. In seguito si è posto in rilievo il
valore programmatico dell’art 32 Cost. e quindi non attributivo sic et simpliciter di un diritto
immediatamente azionabile se non attraverso l’intermediazione da parte della
legge ordinaria.
In tempi più recenti la disposizione ha assunto una portata
normativa di carattere precettivo. Infatti con l’istituzione del Servizio
Sanitario Nazionale, attuato con legge n. 833/1978, la salute non è stata più
considerata come assenza di malattie ma anche come diritto di carattere
inviolabile ed assoluto volto alla tutela del benessere fisico, psichico e
morale, e ciò come risultato della
lettura del combinato disposto degli artt. 2 e 32 della Costituzione che
proteggono il valore della persona umana in quanto tale.
Il diritto alla salute, secondo
l’impostazione, frutto della interpretazione avvalorata dalle sentenze n. 87 e
88 del 1979, si è ritenuto come diritto primario ed assoluto la cui
indennizzabilità non può essere limitata unicamente alle conseguenze incidenti
sull'attitudine a produrre reddito, ma deve comprendere anche gli effetti della
lesione del diritto considerato come posizione giuridica soggettiva autonoma .
Tale interpretazione è stata giudicata con
favore dalla sentenza n. 3675 del 06.06.1981 con la quale la Corte di
Cassazione ha affermato per la prima volta la risarcibilità del danno
biologico, ma anche dalla decisione del 6 aprile 1983 n. 2396 con cui la
Suprema Corte ha svincolato il danno biologico dall'art. 2059 c.c. collocandolo
nell'ambito dell'art. 2043 c.c. e definendolo per la prima volta con
riferimento al valore umano, alla personalità morale, intellettuale e culturale
del soggetto.
Il diritto alla salute inteso quindi
come tutela da qualsiasi menomazione dell'integrità della persona che
costituisca un danno ingiusto come conseguenza di un fatto illecito, non
sarebbe soltanto un diritto da considerare assoluto con riferimento ai singoli
soggetti, ma un diritto di rilevanza collettiva e che ha un carattere cosiddetto pretensivo prontamente azionabile.
Il dibattito sui limiti e
sull’estensione del diritto alla salute recentemente si è arricchito di un
significativo contributo apportato dalla Corte di Cassazione, in particolare
con la pronuncia delle Sezioni Unite n° 5172 del 1979[19]
che ha ricondotto tale diritto al citato precetto costituzionale. La richiamata
sentenza della Corte di Cassazione ha esplicitamente confermato il principio,
contenuto nell’art. 32 della Costituzione, del diritto della salute come garanzia di una posizione giuridica
soggettiva costituzionalmente tutelabile, favorendone un’efficacia
precettiva piuttosto che programmatica, con riferimento cioè ai rapporti tra
soggetti privati a guisa che la violazione di tale diritto fondamentale
comporterebbe una responsabilità del danneggiante ed il conseguenziale
risarcimento del danno[20].
In verità è stata così superata l’antica
distinzione, operata dalla tradizionale giurisprudenza, tra la concezione
secondo la quale avrebbero rilevanza soltanto i diritti espressamente
disciplinati od individuati dall’ordinamento giuridico e quella secondo la
quale sarebbe sussistente un unico diritto della personalità.
Il diritto alla salute tutela una situazione giuridica soggettiva
di cui ogni individuo è portatore e per cui sussiste un diritto all’integrità
psicofisica e anche al sano sviluppo della persona.
La tutela della salute dell’individuo e
quindi del concepito è in primis tutela del valore della persona, della dignità
e della libertà di essa, sicché ogni trattamento sanitario o medico che sia
scorretto o che sia stato oggetto di inadempimento dell’obbligo di informazione
da parte del sanitario o che non abbia avuto un esito fausto a causa del
comportamento negligente del personale medico o paramedico, incide certamente
sulla cosiddetta sfera di autodeterminazione della persona che rientra tra i
diritti fondamentali dell’uomo.
La recente esperienza italiana in tema
di nascita indesiderata si è arricchita di vari contributi sia giurisprudenziali
che dottrinali oggetto di un dibattito che alcuni anni fa era limitato
all’analisi e all’indagine degli indirizzi giurisprudenziali stranieri[21].
La risarcibilità del danno derivante
dalla lesione del diritto dell’autodeterminazione della persona, ha offerto
infatti notevoli contributi alla soluzione della questione relativa alle
nascite indesiderate, sia per quanto attiene alla responsabilità del medico,
sia alla responsabilità delle strutture ospedaliere[22].
Non voluto o indesiderato è il figlio
che nasce affetto da gravi menomazioni fisiche e psichiche nell’ipotesi in cui
un errore dei sanitari abbia indotto la madre durante il periodo di gestazione
a credere di essere immune dalla malattia trasmessa al figlio o nel caso in cui il nascituro non sia stato
programmato dai genitori i quali hanno comunque il diritto di autodeterminarsi
nella scelta procreativa.
In particolare la giurisprudenza si è occupata di un caso
risalente al 1950[23]
che, per la novità e il contrasto con i principi giuridici tradizionali, ha
suscitato vivaci reazioni anche nella dottrina aprendo il varco ad una serie di
questioni che oggi, a distanza di più di cinquant’anni, si ripropongono con una
certa frequenza.
Il caso richiamato è quello riguardante
una richiesta risarcitoria avanzata da un eredoluetico[24]
nei confronti dei genitori che gli avevano trasmesso la sifilide, provocando
così una nascita non sana e privandolo di una vita sana e felice.
Il problema della responsabilità per
procreazione oggi necessita di alcune considerazioni tenuto conto che il
progresso scientifico spesso riesce a prevedere, con un certo margine di
certezza, la nascita di un soggetto affetto da gravi malformazioni fisiche o
psichiche. La questione sorta sulla base della nota sentenza del Tribunale di
Piacenza del 1950 è stata risolta attraverso il ricorso all’obbligo di
informazione da parte del medico nei confronti dei genitori, nel senso che se
questi ultimi avessero saputo del contagio subito dal nascituro e avessero
potuto interrompere la gravidanza, la suddetta questione non sarebbe mai sorta[25].
Una situazione-tipo che si è evidenziata
successivamente alla vicenda oggetto della pronuncia del Tribunale di Piacenza,
riguarda l’azione incoata dal figlio nei confronti dei genitori per averlo
fatto nascere, nonostante la consapevolezza dell’alto rischio di handicap
fisico-psichico e l’azione dei genitori e del figlio nei confronti delle
strutture medico ospedaliere responsabili per non avere dato le corrette
informazioni sulla presenza possibile di anomalie genetiche o
malformazioni sussistendo un nesso di
causalità tra la condotta posta in essere e l’evento dannoso, quest’ultimo
ravvisabile nella nascita del soggetto.
Il dibattito che è sorto sul caso
dell’eredoluetico è utile per affrontare ed esaminare alcune delle esperienze
giuridiche straniere in materia di danno da procreazione. Nella terminologia
giuridica propria di Common Law si usano espressioni come wrongful birth, wrongful life e wrongful pregnancy in cui, come si
è sostenuto da autorevoli studiosi, si fa riferimento ad un atto illecito che è
arrecato alla gravidanza, alla nascita in sé e per sé e alle condizioni di vita
successive alla nascita stessa[26].
Un caso specifico di “tort wrongful life”riguarda la vicenda
di V. Zepeda[27], oggetto di
esame da parte dei giudici statunitensi, bambino nato a seguito di una
relazione adulterina, il quale lamentava di aver subito un danno in quanto
messo al mondo in una condizione di figlio illegittimo tale da esporlo alla
critica della opinione pubblica.
Si trattava quindi di una pretesa di
risarcimento del danno da parte di un figlio nei confronti del padre per averlo
fatto nascere in una condizione in sé e per sé svantaggiosa che, tuttavia, a
seguito delle argomentazioni di cui alla
motivazione della decisione fu
giudicata non suscettibile di
accoglimento.
I Giudici infatti si sono pronunciati
con sentenza sfavorevole sulla base della non rilevanza dell'eventuale natura
illecita della seduzione con promessa di matrimonio, accentrando l'attenzione sull’interrogativo
se fosse ammissibile che un fatto illecito potesse essere compiuto contro un
soggetto nel momento del suo concepimento.
A far data del caso Zepeda ai casi più
recenti, si assiste ad un mutamento del tort
wrongful life trattandosi di vicende
giudiziarie in cui sono stati convenuti
in giudizio non più i genitori ma gli operatori sanitari e le strutture
delineandosi adducendo la negligenza medica come causa di una gravidanza
indesiderata o “wrongful conception”[28].
Nel caso de quo,
nonostante la richiesta di risarcimento dei danni fosse collegabile alla condizione di svantaggio
sociale e al diritto ad una esistenza che non andasse contro la dignità della
persona stessa, i Giudici non hanno rinvenuto alcuna cosiddetta cause of action rientrante tra i torts né quella relativa al patimento di
una sofferenza mentale né quella riconducibile ad una diffamazione del
soggetto.
La doglianza di essere stato privato della serenità familiare e di
una situazione di parità con i figli legittimi, secondo la sentenza della
Corte, non costituiva un motivo valido
e quindi accoglibile per far riconoscere un proprio diritto agendo contro i
genitori.
La tendenza della
giurisprudenza americana, dunque, nega la configurabilità del tort wrongful life[29]anche
nell’ipotesi in cui il danno sofferto dal nascituro sia riconducibile ad una
nascita a seguito di fallimento di intervento interruttivo della gravidanza sia
ad errore o negligenza medica, è stato condotto dalla giurisprudenza spesso al
risarcimento dei costi di mantenimento e di cura per il bambino.
La soluzione giurisprudenziale è stata individuata nel danno subito dal
bambino sub specie di un danno
patrimoniale; pertanto i genitori sono stati dichiarati dalle Corti legittimati
ad esperire l'azione scaturente da wrongful
conception o wrongful birth con
opportune varianti in ordine alla quantificazione dei danni stessi ed in
particolar modo dei costi di mantenimento[30].
In altri casi si è
dichiarata preclusa la possibilità di usufruire dell'azionabilità di tale pretesa
per cui è stata dichiarata legittima l’azione risarcitoria del bambino che ha
agito personalmente per “wrongful life”,
delimitando il “tort”a una fictio iuris tale da sorreggere le
pretese spettanti ai genitori ma non più azionabili[31].
Dagli anni 80’ in poi il tort wrongful life è entrato a far parte
del sistema della responsabilità medica, distinguendo i casi in cui il minore
lamenti che la negligenza del medico abbia comportato il fallimento
dell'interruzione della gravidanza[32]
determinandone la nascita, dai casi in cui invece la nascita del soggetto fosse
caratterizzata da malformazioni ed anomalie prevedibili ne diagnosticabili.
1.2.Problematiche in dottrina e giurisprudenza sul fallimento dell’interruzione della gravidanza e sue conseguenze.
Maggiore attenzione va rivolta alla
tematica della nascita indesiderata
nello scenario della responsabilità civile.
Nel nostro ordinamento
giuridico, sulla base dell'esperienza di Common Law, si è posto il problema della
nascita non voluta come danno di per sé risarcibile.
I Giudici, italiani, in verità hanno
risposto a tale interrogativo privilegiando un'analisi delle varie fattispecie
che ha dato rilievo non tanto alla "nascita" del bambino in sé e per
sé considerata e al pregiudizio economico derivante dal mantenimento del
bambino stesso, quanto alla negazione della possibilità di esercizio del
diritto di interrompere la gravidanza che la legge attribuisce alla gestante
come diritto di scelta tra la prosecuzione della vita del concepito e la tutela
della salute.
La mancata interruzione della gravidanza
è stata invece oggetto di analisi da parte della dottrina e della
giurisprudenza degli ordinamenti stranieri in modo distinto dal nostro
ordinamento giuridico; spesso è stata data notevole rilevanza alla nascita come
evento in sé e per sé e agli oneri di mantenimento che seguono alla stessa,
come è avvenuto negli ordinamenti giuridici francesi o inglesi.
La soluzione offerta dal nostro
ordinamento giuridico costituisce una novità in quanto si discosta del tutto
dagli indirizzi seguiti dalla tradizione giuridica anglosassone per fondare la
risarcibilità del “wrongful birth”,
su cui ora ci soffermeremo.
La precedente casistica, invero,
riguardava esclusivamente la scorretta esecuzione di interventi abortivi[33];
successivamente sono stati poi oggetto di analisi dottrinaria i problemi
inerenti a pregiudizi derivanti ai genitori non dal fallito intervento abortivo
ma dal fallimento dell'intervento di vasectomia.
In particolare, il Tribunale di Milano[34],
al quale è estendibile anche la nascita
a seguito di fallito intervento abortivo, ha individuato negli artt. 2 e 3
della Costituzione la base per la sussumibilità del diritto alla procreazione
libera e cosciente di cui l'art. 13 Cost. è espressione, nella misura in cui
esso è esplicativo del potere del soggetto di disporre del proprio corpo,
diritto assoluto di libertà, oggetto di garanzie da parte della Carta
Costituzionale.
Per quanto riguarda la lesione del
diritto all'autodeterminazione, in ordine alla capacità di disporre del proprio
corpo, va osservato che il fallito intervento della gravidanza incide
negativamente sullo stato di salute della gestante in quanto si può facilmente
rilevare che la scelta di procreare "mette
in discussione l'idea stessa che una persona ha di se stesso e del proprio
legame di coppia"[35].
Consegue che l'errore del medico, sia
che si tratti di non corretta esecuzione di intervento interruttivo della
gravidanza che di errata consulenza medica o inadempimento dell'obbligo di
informazione, lede comunque il diritto assoluto alla salute della gestante
tutelato dalla legge n. 194/78 ma anche il diritto alla libertà del soggetto e
alla scelta informata che deve essere comunque sempre garantita in ogni trattamento
sanitario.
Dalla violazione dell'obbligo di
informazione, distinta da quella derivante da inadempimento per colpa lieve o per esecuzione di intervento
privo di perizia e diligenza, deriva la responsabilità contrattuale del personale
sanitario per i danni cagionati alla paziente a causa dell'intervento
effettuato.
La nascita sic et simpliciter non comporta un danno risarcibile direttamente;
difatti si è optato per il riconoscimento del risarcimento del danno alla
salute subito dalla gestante, limitatamente alle alterazioni patologiche.
Ci si è orientati dunque da parte della
giurisprudenza a superare la tendenza ad un impiego della categoria del c.d. danno
biologico in senso non stretto accertata la
lesione accertata della salute della donna. Si è pervenuti quindi ad una
selezione dei danni risarcibili che sono stati individuati nel pregiudizio
arrecato alla salute fisico-psichica della donna mentre l'impiego del danno
biologico si è rivelato un buon appiglio sulla base del quale individuare il
bene giuridico protetto dall'ordinamento a fronte di un atto del medico
responsabile dell'intervento che ha inciso sulla scelta procreativa della madre
e di conseguenza di entrambi i coniugi[36].
A partire dalla nota sentenza del
Tribunale di Padova 9.8.1985,[37]
è seguito un orientamento che ha riconosciuto meramente un danno di carattere
patrimoniale con il conseguente risarcimento per gli oneri di mantenimento del
bambino a causa della condotta inadempiente del medico.
Vi è stato un unanime assenso sul danno
patrimoniale gravante sul medico responsabile del fallito intervento di
interruzione della gravidanza, sia della struttura sanitaria presso cui
quest'ultimo abbia prestato la propria attività professionale.
Non il medesimo orientamento invece è
stato adottato dalle Corti in ordine ai soggetti beneficiari del risarcimento;
da questo punto di vista la situazione giuridica italiana appare piuttosto
contrastata e presenta notevoli divergenze di opinione nella determinazione dei
danni risarcibili.
Si è riconosciuto infatti un danno da wrongful birth a seguito del fallimento
dell'intervento interruttivo nel caso della sentenza del Tribunale di Padova
9.8.1985, confermata dalla Corte di Appello di Venezia; non così è avvenuto in
altre pronunce giurisprudenziali[38]
in cui si è ritenuto che gli unici danni risarcibili siano quelli fisici e
psichici subiti dalla madre sulla base della disciplina offerta dall'art. 4
della Legge n. 194/1978.
Nella sentenza di appello alla pronuncia
del Tribunale di Padova, infatti, secondo quanto esposto dai genitori del
piccolo, i quali lamentavano che la mancata interruzione della gravidanza fosse
dovuta ad imperizia o negligenza di chi aveva effettuato l'intervento e a
seguito del decorso post-operatorio, si è evidenziato che la nascita non voluta
aveva posto i genitori della partoriente in notevole difficoltà finanziaria in
ordine all'obbligo di allevare e mantenere il bambino.
La Corte altresì, nella fattispecie, ha
optato per il riconoscimento al padre della legittimazione a stare in giudizio
e si è pronunciata sfavorevolmente alla domanda di parte attrice circa
l'attribuzione del fallimento della gravidanza al medico per colpa ed imperizia
e non è stato riconosciuto l’obbligo di mantenimento del figlio fino all’età
lavorativa e non è stata ascritta alcuna colpa alla struttura ospedaliera in
cui è stato praticato l'intervento.
La Corte Costituzionale ha sempre
escluso una rilevanza della volontà paterna nella determinazione della scelta
abortiva ma non mancano decisioni che hanno riconosciuto ad entrambi i genitori
il risarcimento del danno biologico e del danno patrimoniale in considerazione
dei costi da sostenere per il mantenimento del bambino, soprattutto in caso di
malformazioni accertate nonostante l’espletamento di controlli medici.
Occorre
enunciare due percorsi orientativi della giurisprudenza riguardanti il
danno: il primo riferibile alla pronuncia del Tribunale di Cagliari del
3.2.1995, che si è collocata in una posizione isolata rispetto ad altre
decisioni, equiparando la nascita di un figlio non voluto ad una perdita
patrimoniale in termini di danno
emergente, come tale risarcibile in termini di oneri di mantenimento del
figlio fino al raggiungimento della sua autonomia economica, in quanto danno
conseguente all'inadempimento del medico derivante dalla mancata interruzione
della gravidanza per negligenza medica, così trascurando tacitamente la
rilevanza del valore della vita umana e quindi la lesione della dignità del
bambino.
In tale prospettiva la giurisprudenza
straniera e in particolare quella anglosassone ha analizzato la questione se la
nascita possa considerarsi un danno risarcibile in termini di public policy rilevando che l’ammettere
il risarcimento del danno per nascita indesiderata potrebbe essere in contrasto
con i diritti garantiti dalla Costituzione come quello della tutela del bambino
e della famiglia intesa come tessuto sociale ed ambiente dove la vita del
bambino si svolge prevalentemente.
In Germania, ad esempio, ci si è posti
la domanda se ammettere l'esperibilità dell'azione risarcitoria da parte dei
genitori non fosse in contrasto con l'art. 1 della legge fondamentale tedesca,
che tutela, tra l'altro, la dignità dell'essere umano[39].
La soluzione offerta dalle Corti tedesche spesso è stata volta a non
riconoscere un risarcimento del danno subito poiché non è stato riconosciuto
risarcibile il diritto a non nascere, a non esistere.
Si è ammesso da parte di alcune Corti
statunitensi la possibilità di esperire un'azione a tutela del bambino volta
alla determinazione di un danno scaturente dal non essere stato abortito, cioè
dall'essere sostanzialmente nato.
Il diritto di non nascere è stato così
oggetto di un continuo braccio di ferro tra i sostenitori del diritto a non
esistere come è accaduto nell'Affaire Perruche, e coloro invece che, con
riferimento all’'evento nascita, non hanno considerato la possibilità per un
individuo di lamentarsi di un danno per il solo fatto di essere nato.
Storicamente, infatti, questi ultimi e,
in particolar modo, le Corti americane hanno negato qualsiasi diritto al
risarcimento a fronte di gravidanze indesiderate sulla base della cosiddetta
“blessing doctrine”, secondo cui la nascita di un essere umano non è mai un
danno ma è una benedizione e ciò preclude qualsiasi risarcimento.
Intorno agli anni Sessanta, però, i
Giudici americani sono pervenuti ad una diversa soluzione affermando che la
nascita di un soggetto potesse essere non un “evento benedetto”, in modo così
da attribuire un risarcimento al genitore per i costi di mantenimento del figlio
e aprendo così la via ad un risarcimento della cosiddetta “wrongful pregnancy”.
Recentemente, in Italia, invece, il
secondo modello di decisione in materia di fallimento dell'intervento
interruttivo della gravidanza, ha portato alla ribalta il danno biologico che è comparso sullo scenario della nascita
indesiderata non più come danno-evento, sulla base dell'applicazione dell'art.
2043 c.c., norma che pone come limite della rilevanza giuridica l'ingiustizia
del danno e non la patrimonialità del danno stesso, bensì come
danno-conseguenza risarcibile ex art. 2059 c.c. sulla base del nesso di
conseguenzialità tra la condotta posta in essere dal medico e il danno sofferto
dalla paziente[40].
Il duplice rilievo del danno biologico
sulla base dell'art. 2043 e dell'art. 2059 c.c. ha condotto alla rilevanza
giuridica di esso come danno ingiusto e quindi come lesione di un diritto
costituzionalmente protetto e come danno non patrimoniale risarcibile sulla
base delle conseguenze pregiudizievoli alla salute del soggetto ammettendo
quindi una risarcibilità sulla base dell'applicazione degli artt. 2043 e 2059
c.c. sopra richiamati.
Con una sentenza dell’ottobre del 2003 con un nuovo orientamento
della Corte di Cassazione si è escluso il cumulo di danno biologico ed
esistenziale richiesti nello stesso giudizio in quanto una volta che si
risarcisca il danno biologico non sarebbe consentita la liquidazione di altri
danni definiti esistenziali come il danno morale in favore dei genitori causato
da una lesione della salute o il danno da sconvolgimento delle abitudini di
vita e quindi rientrante nella categoria del danno alla vita di relazione[41].
Così l'interrogativo sulla risarcibilità
del danno a seguito dell'evento nascita è conseguenziale alla lesione dei diritti
inviolabili che fanno capo alla persona di chi quella nascita non avrebbe
voluto, lesione che si riverbera nel patrimonio materiale e morale oltre che
affettivo del soggetto leso.
La riconduzione del danno non
patrimoniale all'art. 2059 c.c. ha altresì condotto la dottrina alla
configurabilità di quest'ultimo come danno morale soggettivo, che è alla base
della lesione della tutela dei diritti fondamentali.
Invero il disposto ex. art. 2059 c.c.,
originariamente riferibile ai soli danni morali, secondo l’orientamento
comunemente accettato, è stato esteso al danno biologico del soggetto leso, con
la possibilità così di risarcire il genitore di un bambino per danni riflessi.
conseguenza della lesione del diritto alla vita del soggetto nato.
Il danno alla salute - si legge nella
motivazione della sentenza della Corte d'Appello di Cagliari del 12 novembre
1998 allorchè sia stata accertata la responsabilità del sanitario per mancata
interruzione della gravidanza e quella solidale della struttura sanitaria per
il danno subito dalla donna per la messa in pericolo della salute o di un danno
effettivo della salute stessa -, costituirebbe il momento terminale di un
processo patogeno originato dal turbamento dell'equilibrio psichico che
provocherebbe un danno morale soggettivo e che, anziché esaurirsi in un patema
d'animo,si tradurrebbe in uno stato di
angoscia cui va commisurato il
cosiddetto pretium doloris.
Tale affermazione non urta con quella contenuta nella motivazione
della sentenza che afferma la risarcibilità del danno biologico sulla base
dell'art. 2043 c.c. la cui ratio deve essere coordinata con l'esigenza
dell'effettività della tutela dei diritti fondamentali avvalendosi del
principio dell’analogia iuris.
Il danno biologico è da risarcire in
quanto danno alla salute non soltanto in senso stretto ma in tutte le sue forme
anche di carattere patrimoniale, economico in forza della cosiddetta causalità
adeguata, intendendosi per quest’ultima il rapporto che si viene a creare tra
il comportamento e l'evento dannoso per cui il coniuge può chiedere il
risarcimento del danno riflesso. Sulla base di ciò, la giurisprudenza,
applicando il criterio della regolarità causale, ha ammesso anche il
risarcimento dei danni indiretti che però siano effetto normale della condotta
del medico[42].
In tal senso l'art. 2059 c.c., non
sarebbe più oggetto di applicazione limitatamente ai casi di risarcimento del
danno non patrimoniale a seguito di evento di reato, stante il combinato
disposto tra gli artt. 2059 c.c. e l'art. 85 c.p., ma diventerebbe oggetto di
lettura attraverso l'immediato riferimento all'art. 2043 c.c..
Purtuttavia la Corte d'Appello di
Cagliari con sentenza del 1998 ha
escluso che la nascita di un figlio, sia esso sano o non sano, possa comportare
un danno risarcibile, mentre è stato riconosciuto rilievo esclusivo al danno
alla salute subito dalla madre che non desiderava appunto quella nascita.
Ha ritenuto la Corte che la circostanza
che i medici non abbiano voluto interrompere la gravidanza della gestante a
seguito di un giudizio diagnostico, si fonda su un ragionamento condotto in via
ipotetica per decidere se innanzi all'esercizio dell'obbligo di informazione da
parte del medico, che avrebbe senz'altro accertato l'ipotesi di una nascita di
un figlio portatore di sindrome di Down, potesse essere possibile, almeno in
termini probabilistici, accertare una patologia certamente considerata come un
grave pericolo per la salute psichica della donna.
Il diritto alla salute è stato
considerato dai Giudici cagliaritani l'unico interesse protetto dalla legge
sull'aborto; dal momento in cui la donna avrebbe potuto esercitare il diritto
di interrompere la gravidanza, se dagli esami medici effettuati si fosse
accertata un'evoluzione patologica embrionale, il danno sarebbe stato
certamente risarcibile.
Il comportamento del medico è stato così
considerato causa concorrente dell'evento-nascita indesiderata; nel caso di
specie esaminata l'inadempimento del medico assumerebbe rilievo sotto il
profilo causale in quanto l'adempimento dell'obbligo di informazione avrebbe
certamente offerto la possibilità di scegliere tra l'interruzione volontaria della gravidanza e la conduzione a
termine della stessa[43].
La decisione del Tribunale di Cagliari
ha operato un distinguo nel rapporto
tra gestante e concepito e tra gestante e struttura sanitaria. Infatti si è
ritenuto – come si legge nella motivazione della sentenza – che, sulla base dei
principi in tema di responsabilità per inadempimento dell'obbligazione, la
scorretta esecuzione della prestazione obblighi il responsabile al risarcimento
di tutti i danni che in conseguenza del suo operato si siano verificati nel
patrimonio del creditore.
Inoltre, si ribadisce che mentre nei
confronti del nascituro ciò che è tutelato attiene all'interesse della gestante
alla conservazione dell'integrità psico-fisica, nei rapporti tra paziente e
medico anche l’aspetto patrimoniale acquista rilevanza e deve essere dunque
reintegrato in caso di lesione conseguente ad inadempimento.
Conformemente ai principi costituzionalmente
garantiti, secondo i Giudici del Tribunale di Cagliari, non rientrerebbero tra
le voci di risarcimento le spese che attengono al vitto e all'alloggio, ma
quelle che rilevano ai fini dell'educazione e della istruzione della prole fino
al raggiungimento della indipendenza economica di quest’ultima.
Inoltre, fatto salvo il caso della
distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato, il fallimento
dell’intervento abortivo viene in rilievo allorché, secondo le regole generali,
l'insuccesso è da attribuirsi alla negligenza ed imperizia del sanitario e non
quando il risultato finale non soddisfi le aspettative nonostante l'intervento
sia stato eseguito secondo le legis artis.
In tal caso infatti non si potrebbe
profilare una possibilità di risarcimento per la violazione di diritti
dichiarati costituzionalmente garantiti come quello del diritto assoluto alla
salute, inviolabile, "di carattere non specificamente patrimoniale ma
immanente alla persona al punto da non potersi concepire l'essere umano, almeno
in termini moderni, a prescindere dal godimento di questi diritti"[44].
In Germania, in caso di infruttuoso
intervento di interruzione della gravidanza addebitabile alla condotta colposa
del medico, invece, i Giudici ai fini risarcitori, in linea generale, hanno
ritenuto rilevante il motivo addotto per il quale la donna sia stata sottoposta
all'intervento.
Nel caso in cui il ricorso
all'intervento abortivo non sia stato dettato da motivi di necessità e di
urgenza a causa di problemi di salute per la gestante, poiché il bene giuridico
in oggetto considerato dai Giudici tedeschi è il bene alla salute, non si
scorgono elementi validi per un risarcimento di eventuali conseguenze negative
alla nascita considerato che i costi di mantenimento, di educazione, di vitto e
di alloggio del bambino non sono compresi tra le voci risarcitorie[45].
Nel caso in cui invece la decisione di
interrompere la gravidanza sia dipesa dalle condizioni economiche finanziarie
disagiate o da problemi relativi alla sfera relazionale o psichica della donna,
il motivo per cui sia stato ammesso il risarcimento viene meno dal momento in
cui sono venuti meno i problemi economici e sociali della madre[46].
Anche in altri Stati come la Francia, a
partire dalla nota sentenza del Conseil d'Etat del 2-7-1982, relativa al caso
di intervento interruttivo della gravidanza non perfettamente riuscito in
quanto successivamente la donna si era accorta del permanere dello stato della
gravidanza a seguito della scadenza del termine legale di dieci settimane dal
concepimento, la nascita del bambino non costituisce danno risarcibile eccetto
che siano sussistenti condizioni particolari della gestante tali da addurre la
possibilità della richiesta del risarcimento del danno.
1.3. Fallimento dell’intervento di sterilizzazione.
Quanto alla nascita indesiderata
correlata ad un errato intervento di sterilizzazione, ad esempio di intervento
non riuscito di vasectomia, la questione non pone dei particolari interrogativi
o problemi per quanto concerne la quantificazione del danno in termini
risarcitori.
La lesione della libertà di scelta in
campo procreativo cagionata da un errato intervento di sterilizzazione,
infatti, è risarcibile sulla base del combinato disposto dell'art. 2043 c.c. e
dell'art. 2 della Costituzione.
L'erronea sterilizzazione di uno dei
coniugi incide sul diritto primario di libertà e di autodeterminarsi rispetto
alla vita dei coniugi stessi come singoli e come coppia, nonché sulla lesione
alla compromissione del diritto alla procreazione responsabile.
Dall’accezione particolare rappresentata dal diritto alla
procreazione cosciente e responsabile, sorretto dal dettato costituzionale e in
particolar modo dall'art. 2 Cost., discende un iter risarcitorio, in cui la
quantificazione dell'obbligazione professionale del medico in termini di
obbligazione di risultato si traduce in danno-evento che si ritiene presuntivamente esistente e consiste nello stravolgimento
della vita di più persone, con abitudini, passatempi, ritmi biologici,
forzatamente mutati, nella perdita di chance lavorativa nella modifica della
vita di relazione, insomma nel totale cambiamento delle abitudini di vita che
la nascita di un figlio comporta nella vita di coppia, senza che questa abbia
potuto deciderlo[47].
Nella fattispecie di cui alla sentenza
17.07.2001 del Tribunale di Busto Arsizio[48],
a seguito di fallimento di intervento di vasectomia e nascita di una bambina
sana, i coniugi, ravvisando la responsabilità del medico per la nascita della
figlia, chiesero il risarcimento dei danni patrimoniali e di quelli derivanti
dalla lesione di diritti costituzionalmente protetti, quali
l'autodeterminazione in ordine della procreazione.
La responsabilità del professionista è
stata individuata dal Giudice adito nella mancanza di diligenza non solo nell'eseguire
un intervento semplice e di routine- sebbene la facilità di tale intervento sia
stata spesso messa in dubbio con riferimento alla possibilità in termini
percentuali di non riuscita- ma nel non avere fornito al paziente le
indicazioni da seguire e le indagini post-operatorie da effettuarsi dopo
un intervento di tal genere.
Il risarcimento del danno patrimoniale è
stato riconosciuto non per la nascita in sé, ma per le conseguenze patrimoniali
che l’esito negativo dello stesso intervento comporta; nel caso considerato si
trattava di un danno non patrimoniale, liquidato sotto forma di danno esistenziale in quanto individuato
come danno-evento sussistente a causa della citata lesione al diritto della
procreazione.
Il punto focale della motivazione della
menzionata sentenza, come anche di altre pronunce giurisprudenziali[49],
è dato dal riconoscimento di un diritto alla programmazione della gravidanza e
al risarcimento dei danni da nascita indesiderata. La pronuncia del giudice
varesino relativamente alla considerazione del risultato del fallito intervento
operatorio nei termini di “wrongful pregnancy”[50],
è stata oggetto di discussione da parte di ampia casistica giurisprudenziale
sia italiana che straniera[51],
soprattutto per l’interessante percorso argomentativo sulle varie questioni
attinenti la responsabilità medica.
A partire dagli anni '80, la tutela
risarcitoria si è estesa alle fattispecie in cui la nascita del bambino sia
stata giudicata dai genitori, nel caso di procreazione non programmata, come evento
infausto non soltanto nei casi in cui il figlio nasca malformato - come
nell'ipotesi della madre che ha contratto la rosolia durante la gestazione [52]
- ma anche nel caso in cui la nascita avvenga contrariamente alla volontà della
coppia procreatrice.
è mancata per la verità una linea-guida per la
individuazione dei criteri di quantificazione dei danni patrimoniali e non
patrimoniali; a partire dalla richiamata sentenza del Tribunale lombardo
risarcitorie avanzate da una coppia è stato affrontato il problema della
liceità della vasectomia come metodo di sterilizzazione volontaria, sulla base
del ricorso al dettato dell'art. 583 c.p. 2° comma, laddove è prevista come
circostanza aggravante l'ipotesi in cui dal fatto lesivo della persona sia
derivata la perdita della capacità di procreare.
Si è posto in rilievo così il problema
della illiceità penale della vasectomia e delle pratiche di sterilizzazione
volontaria non terapeutica, cioè non eugenetica[53].
Non tutti tuttavia, hanno condiviso, in
dottrina, tale impostazione del problema; infatti, si è notato che dal
ragionamento logico-giuridico che aveva condotto all'abrogazione dell'art. 552
c.p. (così formulato: chiunque compie su
persona dell'una o dell'altro sesso, col concorso di questa, atti diretti a
renderla impotente alla procreazione, è punito con la reclusione da sei mesi a
due anni; alla stessa pena soggiace chi ha acconsentito al compimento di tali
atti sulla propria persona), si sarebbe dovuta dedurre la piena
legittimazione della sterilizzazione e l'impossibilità di applicare a tali tipi
di intervento l'art. 583 c.p..
Dalla massima della sentenza del
Tribunale di Lucca del 07.05.1982, è stato posto in luce che ogni individuo può avanzare un interesse individuale per cui la capacità di procreare costituisce
un bene disponibile e non è ravvisabile alcun contrasto tra la disponibilità di
questo bene e il fatto che la sterilizzazione non consensuale configuri il
diritto di lesioni gravissime.
La Corte di Appello di Firenze statuì
successivamente che il diritto alla procreazione cosciente e responsabile
presuppone certamente che il soggetto possa procreare o non procreare a seconda
delle sue libere e responsabili scelte, ma che tale diritto non possa comunque
trovare una realizzazione con la sterilizzazione.
A sostegno di tale tesi è stato preso in
considerazione l'art. 5 c.c. che non faceva altro che avvalorare
l'indisponibilità del bene giuridico rappresentato dalla capacità di procreare
sicché il consenso in ordine alla sterilizzazione non poteva essere considerato
valido.
La Cassazione, però, chiamata a decidere
sul caso oggetto di giudizio della Corte di Appello di Firenze, sulla base
dell'abrogazione dell'art. 552 c.p. ad opera dell'art. 22 della legge n.
194/78, osservò che l'illiceità penale della sterilizzazione era venuta meno e
che non poteva essere comunque affermata con riferimento al reato di lesioni
gravissime non suscettibili di applicazione della scriminante del consenso
dell'avente diritto.
La soluzione a favore della liceità
della vasectomia non era pertanto in contrasto con il divieto degli atti
dispositivi del proprio corpo, divieto comportante una diminuzione permanente
dell'integrità fisica di cui all'art. 5 c.c., laddove la lesione dell'integrità
fosse il risultato di una scelta dell'individuo.
Dal frequente richiamo degli artt. 2 e
13 della Costituzione si evince facilmente che nella piena tutela dei diritti
fondamentali dell'individuo indotto la libera scelta attuata attraverso atti
dispositivi del proprio corpo,in ordine alla procreazione responsabile, non sia
altro che la estrinsecazione di un diritto assoluto di libertà, garantito e
protetto dalla Costituzione[54].
L'art. 5 c.c. quindi non può più essere
letto in combinato disposto con gli artt. 2 e 13 Cost. bensì è suscettibile di
trovare una diversa interpretazione stante il contenuto dell’art. 32 Cost.
Ciò significa che la libertà
dell'individuo comporta la possibilità di programmare la propria vita familiare
ed anche la libertà di scelta di poter optare nei casi opportuni per la sterilizzazione.
Per quanto concerne la responsabilità
del medico, la decisione del Tribunale di Firenze, sul caso Conciani, evidenzia
argomentazioni di un certo interesse relative al contenuto del dovere di
informazione posto a carico del medico e della struttura sanitaria, obbligo che
sussiste- come osservato- per l’intervento interruttivo della gravidanza[55];infatti
è stata accolta dai giudici, oltre alla domanda di risarcimento dei danni
patrimoniali e morali, anche la liquidazione del danno alla salute.
è da osservare che in altri casi i Tribunali,
distinguendo tra danno-evento e danno-conseguenza, hanno ravvisato il
danno-evento nella lesione del diritto primario alla procreazione libera e
cosciente ed hanno riconosciuto
attraverso un iter piuttosto complesso,
sul piano della logica giuridica in materia di danno non patrimoniale, anche un
danno esistenziale,[56]con
riferimento cioè ai pregiudizi non suscettibili di una valutazione ancorata a
meri valori economici.
La libertà di autodeterminazione da
parte dei genitori per consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale è
condizionata al consenso del paziente che rende lecita la prestazione del
medico, come si ricava dallo stesso codice di deontologia, tanto che per la
validità del consenso alla sterilizzazione volontaria ,esso deve risultare da
forma scritta.
Il consenso del paziente deve essere
essere preceduto da una informazione da parte del medico sul quale grava
inoltre l’obbligo di effettuare dei controlli a seguito dell'intervento
operatorio, tenuto conto che potrebbe presentarsi in futuro una gravidanza non
voluta.
Per
quanto riguarda l'analisi da parte della giurisprudenza straniera in ordine al
fallito intervento di vasectomia da cui scaturisca una “wrongful birth”, è
necessario puntualizzare il fatto che spesso i giudici hanno compensato i danni
subiti con gli aspetti positivi della nascita riconoscendo all'attore, nella
fattispecie il padre[57], una
titolarità piena del diritto ad agire e quindi una piena
legittimazione
giuridica, rinvenendo nel comportamento del convenuto la lesione dei diritti di
parte attrice e considerando il comportamento dell'attore che ha subito i
danni.
Dalla letteratura giurisprudenziale in
materia si è appreso che alla madre spesso
è stata accolta la domanda di risarcimento di un danno psichico da
"pain e suffering" mentre
ad entrambi i coniugi è stato attribuito un risarcimento relativo agli oneri di
mantenimento del bambino sino alla maggiore età e quindi fino al raggiungimento
della completa indipendenza economica.
Tale forma di indennizzo è stata
compensata in sede giudiziale ,per quanto attiene alle richieste risarcitorie,
con i presunti benefici morali e materiali comunque apportati dal bambino,
trattandosi comunque di soggetto sano alla sua famiglia.
La nascita dunque viene vista come un lieto evento; le pronunce
anglosassoni non accordano alcun rilievo giuridico al diritto a non nascere e
quindi a negare ogni prospettiva di una vita futura, in quanto l’eventuale
risarcimento del danno a sua volta ingenerebbe un danno tenuto conto dei
principi, dei valori sociali e culturali che informano l'ordinamento giuridico
anglosassone.
2.1. Nascita di un bambino malformato e responsabilità del medico e della struttura sanitaria–ospedaliera: ipotesi di wrongful birth e wrongful life
Più problematica appare la questione
relativa al risarcimento dei danni subiti dai genitori di un bambino a causa
della mancata diagnosi o della omessa informazione circa le malformazioni ed
anomalie genetiche del nascituro.
Nel nostro sistema giuridico il “tort wrongful life”, inizialmente
introdotto a seguito dell'azione giudiziaria intrapresa da un figlio naturale
nei confronti del padre per trasmissione dell'infezione luetica, si è venuto
anche a configurare nella casistica giurisprudenziale, relativamente a quelle
fattispecie in cui la negligenza del medico ha privato la donna della
possibilità di fare ricorso all'interruzione volontaria della gravidanza per
motivi di salute e comunque terapeutici, volti alla salvaguardia dell'integrità
psicofisica della gestante, provocando nel bambino non soltanto problemi
psicofisici, ma anche prospettando una esistenza che si è rivela wrongful
se comparata alla alternativa della non vita.
Le varie vicende giudiziarie che hanno
tratto origine dai casi di responsabilità medica per omissione nella diagnosi
prenatale delle anomalie fetali, presentano nella loro essenza un aspetto
univoco che le contraddistingue e, nello stesso tempo, le accomuna; ciò si
evince dal fatto che i protagonisti, parti del giudizio, sono sia il bambino
nato, che agisce per wrongful life,
sia i genitori per wrongful birth,
mentre nei successivi gradi del giudizio si assiste soltanto alla presenza di
richieste risarcitorie avanzate dai genitori del figlio con gravi
malformazioni.
Per tali ragioni, i Giudici di
legittimità non hanno mai risolto la questione dell'ammissibilità o meno nel
nostro sistema giuridico del tort
wrongful life[58].
A pronunciarsi invece sulle azioni
giudiziarie esperite dal soggetto nato con handicap è stata, quasi
esclusivamente, la giurisprudenza di merito e le motivazioni delle varie
pronunce hanno giustificato il non accoglimento della domanda risarcitoria da
parte del bambino nato con handicap, configurando così un'esclusione
dell'azione wrongful life nel nostro
ordinamento.
In ordine alla lesione del diritto
all'interruzione della gravidanza per omessa diagnosi di malformazione del
nascituro con conseguente nascita indesiderata, la responsabilità del medico
deriva dall'inadempimento di un'obbligazione di natura contrattuale;
l’accertamento delle condizioni del nascituro e la formulazione della
corrispondente diagnosi, impiegando la diligenza e la perizia richieste,
consentirebbero alla donna di evitare il pregiudizio che le deriverebbe in caso
di gravi malformazioni del figlio, esponendo così il medico alla responsabilità
per i danni che derivino dall'art. 1218 c.c.[59].
In giurisprudenza, per quanto concerne
l'omessa informazione da parte dei sanitari sull'accertata malformazione e
conseguente minorazione del nascituro, è prevalente l'affermazione secondo cui
il risarcimento del danno per il mancato esercizio del diritto all'interruzione
della gravidanza è pienamente riconosciuto alla gestante.
E tale risarcimento è riconoscibile non
per il solo fatto dell'inadempimento dell'obbligo di esatta informazione che il
sanitario è tenuto ad adempiere, ma nel caso in cui si provi la sussistenza
delle condizioni tali da ricorrere all'esercizio del diritto all'interruzione
della gravidanza.
Il solo inadempimento del dovere di esatta informazione da parte
del sanitario può dare luogo al diritto al risarcimento del danno eventuale ma
non al risarcimento del danno conseguente alla lesione del diritto all'interruzione
della gravidanza se non nella ipotesi in cui sia provata la sussistenza degli elementi integrativi della fattispecie per
il legittimo esercizio di tale diritto[60].
Sulla base di questo orientamento, la
Cassazione con sentenza del 24.3.1999, n. 2793 ha sostenuto che la mera violazione
dell'obbligo di informazione da parte dei sanitari non è da sola sufficiente
alla determinazione di un risarcimento.
La lesione del diritto ad interrompere
la gravidanza, può infatti sussistere soltanto laddove siano presenti anche le
condizioni di legge che tali interruzioni consentono. Al fine di ottenere un
risarcimento del danno, ha carattere prioritario l'accertamento della
sussistenza delle condizioni richieste dalla legge n. 194/78 per procedere
all'aborto.
Diverse sono la problematiche che sono
scaturite a partire dalla sentenza del Tribunale di Verona del 15.10.1990
secondo cui il concepito, in assenza delle condizioni che consentano
l'interruzione della gravidanza, è portatore di una posizione giuridica
soggettiva che consiste nella legittima aspettativa alla nascita come individuo
sano.
L'art. 2 della Costituzione tutelerebbe
l'essere umano sin dal suo concepimento come si può evincere dalla sentenza
della Corte Costituzionale n. 27 del 18.02.1975, secondo cui si
giustificherebbe la estendibilità del disposto di cui all'art. 1°, 2° comma,
c.c., anche a diritti diversi da quelli previsti come diritto alla salute.
In base al diritto civile il nascituro,
ai sensi della pronuncia della Corte di Cassazione n. 11625/2000, acquista la
capacità giuridica con la nascita, ex art. 1°, 2° comma c.c., con la quale sono
attribuiti diritti patrimoniali riferibili ad un soggetto “in fieri”, in quanto il concepito può essere tutelato nonostante
non sia riconosciutagli una soggettività piena e quindi effettiva[61].
Per quanto riguarda la responsabilità
della struttura ospedaliera, il Tribunale di Verona ha ritenuto che debba
essere di tipo contrattuale, in quanto tra la gestante e l'ente si instaura,
come già detto in premessa, un contratto atipico di spedalità.
Pertanto si instaurerebbe una
cumulabilità tra responsabilità contrattuale e responsabilità
extracontrattuale; ciò consentirebbe al nato di agire per il risarcimento dei
danni verificatisi durante la gravidanza nella misura in cui si tratterebbe di ricondurre la questione ad
un contratto a favore di terzo, ammesso nell’ipotesi in cui il beneficiario non
sia ancora nato al momento della stipulazione del contratto.
Secondo un certo orientamento
giurisprudenziale, però, tale argomentazione non sembra del tutto corretta, in
quanto il contratto a favore di terzo non può sussistere nel momento in cui il
terzo ricava un vantaggio dallo stesso contratto senza però acquistare la
titolarità del diritto, come si può facilmente evincere dall'art. 1411, 2°
comma c.c..
Il Tribunale di Verona non ha comunque
condiviso appieno la tesi del contratto a favore di terzo e, al fine di
giustificare un diritto del nato ad ottenere un risarcimento del danno, si è
orientato verso la tesi che qualifica il contratto tra l'ente ospedaliero e la
paziente come contratto con effetti protettivi a favore dei terzi[62].
Ciò è configurabile quando dal contratto
si deduce l'attribuzione al terzo, nel nostro caso al bambino, di un diritto
non al conseguimento della prestazione principale, che è quella inerente al
rapporto tra gestante e medico/struttura ospedaliera, ma all'esecuzione
corretta di essa tale da evitare danni al terzo e cioè al nato stesso; di
conseguenza, nel caso in cui sussiste una responsabilità di un medico
rappresentante di un ente ospedaliero, il nato con malformazioni e anomalie
fisico-psichiche può agire nei confronti dell'ente ospedaliero al fine di
ottenere il risarcimento del danno[63].
Per quanto concerne le voci di danno
risarcibili, esse sono da ravvisare non solo nel danno biologico ma anche nel
danno morale cagionato dalle gravissime lesioni subite dal figlio al momento
della nascita, quest’ultimo
riconosciuto dalla sentenza del Tribunale di Verona del 4.3.1991.
Successivamente, la Cassazione con
sentenza del 22.11.1993 n. 11503 ha ammesso la risarcibilità dei danni subiti
dal nato per fatti avvenuti durante la gravidanza, applicando l'art. 2043 c.c.
senza alcun ricorso all'art. 2059 c.c. in materia di risarcimento di danni non
patrimoniali, senza che costituisse un impedimento la mancanza della capacità
giuridica nella fase di vita embrionale e quindi intrauterina.
Il concepito dunque è un centro di
interessi giuridicamente tutelati, come si deduce dalla lettura del già citato
art. 32 della Costituzione, che non tutela soltanto la salute del nato, ma
anche il dovere di assicurare le condizioni favorevoli nel periodo antecedente
alla nascita, e quindi la tutela della vita prenatale, volte a garantire
l'integrità del nascituro.
Da questa norma si trae la convinzione
che da qualche tempo la giurisprudenza si sia avviata verso un riconoscimento
di una tutela civilistica al già nato per una lesione subita nella vita
prenatale le cui conseguenze si manifestano dopo la nascita,[64]e
ciò sulla base del riconoscimento di una più piena e concreta protezione e
tutela del bambino[65].
Il fatto illecito che è causato dal
medico è punibile sulla base dell'esigenza di tutela del nascituro con
riferimento al diritto alla serenità familiare, ad una corretta vita di
relazione dei genitori, alla completa formazione della personalità del soggetto
nato, tutti elementi valutabili ai fini della quantificabilità del danno
accertato.
Il bene giuridico, che esige immediata
protezione, riguarda non solo in astratto la salute fisica, ma ha come referente
la persona e in particolar modo la personalità del nascituro, soggetto di
diritto che secondo l'art. 2 della Costituzione esige rispetto del suo status
inteso come insieme di valori connessi al suo sviluppo e alla sua formazione.
L'evoluzione del dibattito sui temi
della bioetica sullo status del concepito ha comportato un'eliminazione della
nozione di persona della quale è espressione la nozione più generica di
capacità giuridica[66]mentre
in passato la dottrina si era soffermata a favore di una soggettività
affievolita o ridotta[67]
con riferimento al nascituro come centro di rapporti giuridici nella previsione
e nell'attesa della persona e quindi del pieno sviluppo dell'essere.
Sussisterebbe dunque un diritto-dovere
di autotutela del medico, un diritto ad una corretta diagnosi ad una corretta
terapia nei casi di malformazione e di anomalie genetiche, sulla base
dell’attribuzione all'embrione della qualifica di pre-persona.
Si è manifestamente optato per una
analisi di tali tematiche sotto un profilo etico-sacrale della vita, attraverso
una composizione dei contrasti tra diritto e morale, tra scienza ed etica che
si è tradotta nella ricerca di un comune
orizzonte antropologico fondato sul
rispetto dell'individuo umano[68].
Alla sofferenza dei genitori e del
bambino per l'handicap conseguente alla nascita si accompagna una riflessione
sul dolore al quale è dato un significato che
è coessenziale alla natura dell'uomo[69].
Gli intrecci tra il tema dell'eugenetica
e quello della diagnosi prenatale, spingono verso una considerazione nel
diritto vigente di quella nuova branca del diritto stesso che è il cosiddetto biodiritto, i cui fondamenti si sono ravvisati nei principi
fondamentali del diritto alla vita del diritto al nascere di ogni essere umano,
dell'eguaglianza e della dignità di ogni individuo, della identità del soggetto
che non è suscettibile di discriminazione in base all'essere sano o portatore
di handicap.
Il legislatore italiano ha voluto
tutelare, in altri termini, l'individuo sin dal suo concepimento, evidenziando
che debbono essere utilizzati tutti i mezzi possibili per favorire la nascita
ed il rispetto della salute del bambino, includendo tra le voci del danno alla
persona, anche quella relativa al danno c.d. esistenziale, ammesso in seguito ad una lunga diatriba tra
dottrina e giurisprudenza, in una effettiva
considerazione della dimensione dell'uomo uti singulo e del diritto all'autodeterminazione della persona.
Il riconoscimento dei “diritti della
famiglia” (art. 29 Cost. 1° comma) va infatti inteso non come tutela delle
estrinsecazioni della persona nell’ambito esclusivo del nucleo familiare ma nel
più ampio significato di realizzazione della vita stessa dell’individuo.
E pertanto il risarcimento del danno è
teso al ristoro dallo sconvolgimento delle abitudini di vita in relazione alla
esigenza di provvedere ai bisogni e alle necessità del figlio; ad esempio da
parte della giurisprudenza è stata oggetto di analisi la risarcibilità dei
danni spettanti ad una bambina nata con malformazione degli arti inferiori non
diagnosticate durante la gravidanza affrontando la questione sotto il duplice
profilo del nesso di causalità e dell'ingiustizia del danno[70].
Il nesso causale che si instaura tra la
negligenza del medico e la nascita e che rileva sul diritto di
autodeterminazione della madre nella scelta di interruzione della gravidanza,
sul piano motivazionale incontra diversi ostacoli. Si scorge peraltro nel
nostro ordinamento giuridico un'incompatibilità tra l'eventuale diritto di non
nascere e la considerazione del bene della vita come bene supremo ed
indisponibile.
Su tale linea orientativa recentemente i
Giudici[71]
nel motivare sulla risarcibilità dei danni in favore della donna in conseguenza
della sussistenza del reato di lesioni gravi addebitati al medico, che aveva
omesso la diagnosi sullo stato del nascituro, hanno affermato che non sono
oggetto di particolare attenzione i danni patrimoniali astrattamente
risarcibili che riguardano le cure per la bambina, tenuto conto che la malformazione
non deriva e comunque non è riconducibile in alcun modo alla attività del
medico, né eventuali voci di danno biologico od esistenziale della bambina
potevano essere prese in considerazione dal
momento che il nostro ordinamento considera il bene della vita come primario ed
irrinunciabile a fronte del quale non è possibile lamentare un diritto a
nascere sani.
In realtà, un segnale di maggiore
apertura verso il riconoscimento in ipotesi di malpractice medica nella diagnosi prenatale, del tort wrongful life, sembra derivare da
una recente sentenza della Cassazione[72]
con la quale attraverso una analisi di carattere contrattuale, hanno offerto un
ampliamento della categoria dei soggetti protetti dal contratto ed hanno
riconosciuto anche il risarcimento del danno esistenziale da lesione di diritti
fondamentali di rilevanza costituzionale, nonché del danno alla vita di
relazione come conseguenza del trauma psichico subito con la nascita
inaspettata di un figlio portatore di handicap.
Sulla base di tale linea tracciata dai
Giudici della Cassazione, sarebbe così opportuno il riconoscimento di una
tutela piena non solo per i genitori ma anche per il nato, poiché nella
disattenzione e nella negligenza medica si scorge un'offesa alla personalità
del concepito, che è venuto alla luce in violazione dell'obbligo di protezione
e di tutela oltre che di vigilanza del medico sullo stato del nascituro.
Da tale punto di vista, l'omessa
diagnosi delle reali condizioni di salute del feto, potrebbe essere
giuridicamente suscettibile di analisi se visto come attentato alla vita
dell'individuo-concepito e non ancora nato e non come lesione del diritto
all’autodeterminazione della madre.
È il mancato riscontro delle condizioni
di salute nella vita dell'embrione che conferisce rilevanza giuridica
all’imperizia del sanitario punibile non ai sensi dell'art. 2236 c.c., che
limita la responsabilità del professionista ai soli casi di dolo o colpa grave,
bensì ai sensi dell'art. 1226 c.c. per cui il sanitario è tenuto a rispondere a
titolo anche di colpa lieve.
Per quanto concerne le voci
risarcitorie, il danno alla persona si esplica nelle due componenti di “danno
emergente” e di “lucro cessante”, in particolar modo con riferimento al profilo
del danno non patrimoniale subito dai genitori che condividono la propria vita
quotidiana con la persona offesa dal reato[73],
privati della possibilità di continuare
a vivere una vita in termini relazionali e di contatto sociale soddisfacente.
I doveri di assistenza morale e
materiale, la continua preoccupazione per una corretta tutela del soggetto,
comportano sicuramente un danno alla sfera psichica per cui da parte della
giurisprudenza delle Corti di merito si è spesso riconosciuto il diritto dei
congiunti a costituirsi in giudizio e al risarcimento dei danni cd. riflessi,
aprendo così il varco al risarcimento del cd. “danno esistenziale”.
Infatti nel caso analizzato in cui una
errata diagnosi ecografica abbia omesso di diagnosticare delle malformazioni
congenite del feto, come è accaduto in Italia con riferimento alla fattispecie
oggetto della pronuncia del Tribunale Penale di Locri, e con conseguente
nascita inaspettata di una figlia handicappata, il medico è stato condannato a
risarcire alla madre oltre che il danno biologico anche quello di carattere esistenziale.
Nella fattispecie de qua difatti sono stati provati non solo il danno biologico
provocato dalla nascita di una figlia handicappata ma anche il danno che ha
provocato una reazione ansioso-depressiva piuttosto grave della madre
inquadrandosi in un vero e proprio danno esistenziale[74],
da intendersi sia come danno esistenziale puro che come danno
biologico-esistenziale.
In conseguenza delle limitazioni subite
dai genitori della bambina, e delle crescenti
difficoltà di intrattenere relazioni sociali, in aggiunta alla
inadeguata preparazione psicologica dovuta alla mancata previsione dell'evento,
è stato riconosciuto un danno biologico-esistenziale e un danno
esistenziale puro sotto la specie della
categoria del danno che si ripercuote sulla sfera relazionale esterna.
Tale nuova categoria risarcitoria di
elaborazione dottrinale ha trovato da una parte espresso riconoscimento in
alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione, dall'altra ha incontrato una
certa resistenza da parte di coloro che ne hanno evidenziato una eccessiva
indeterminatezza e la non piena ammissibilità nel nostro ordinamento, tenuto
conto del contenuto e dei limiti posti dall'art. 2059 c.c., alla risarcibilità
del danno non patrimoniale.
La vicenda del danno esistenziale è in
realtà, una fase significativa nel cammino della dottrina verso il
riconoscimento del danno alla persona; dapprima infatti e comunque
antecedentemente all'avvento del danno biologico, la dottrina e la
giurisprudenza riconoscevano il risarcimento esclusivamente del danno che
avesse compromesso la sfera patrimoniale della vittima; nessun rilievo veniva
riconosciuto all'integrità psicofisica in sé e per sé considerata ed il
principale criterio adottato dai Giudici per il risarcimento del danno era
rappresentato dal mancato reddito di lavoro del danneggiato.
E' stata la medicina legale attraverso
la considerazione delle sollecitazioni che giungono dall'esperienza straniera,
dall'analisi dei mutamenti economico-sociali e dai confronti con gli
ordinamenti stranieri, che ha avanzato l'ipotesi che le lesioni all'infermità
psicofisica costituissero un danno che doveva essere risarcito[75],
indipendentemente dalle potenzialità della persona in termini di lavoro, di
guadagno o di reddito.
Il percorso giurisprudenziale verso il riconoscimento
del danno alla persona è giunto ad un certo risultato con la sentenza n° 233
del 30.06/11.07.2003 con la quale la Corte Costituzionale ha dato un nuovo
contributo a quello che la Corte stessa aveva definito come il “tormentato
capitolo del danno alla persona”.
Quasi contemporaneamente la Corte di
Cassazione, con le sentenze nn. 8827 e 8828 del maggio 2003, ha ridisegnato i
confini del danno non patrimoniale e del suo risarcimento, spostando l'ottica
risarcitoria dall'ambito patrimoniale a quello non patrimoniale.
La dimensione patrimonialistica non è
stata del tutto abbandonata e non potrebbe d'altra parte esserlo, vista
l'esigenza di quantificazione del danno in termini monetari, ma la dottrina ha
agito sui concetti fondamentali della struttura dell'illecito, in particolar
modo sulla nozione di giustizia del danno, sull'individuazione degli interessi
tutelabili e su una certa socializzazione del diritto del danno.
Ciò è avvenuto in quanto l'unico
referente normativo, l'art. 2059 c.c., non ha fornito un supporto univoco per
evidenziare e delimitare i contenuti che ineriscono alla definizione di danno
non patrimoniale limitandosi a dichiarare la risarcibilità di siffatto danno
nei casi stabiliti dalla legge.
La stessa perdita della possibilità di
una vita sana per errore medico-diagnostico è stata spesso qualificata come
danno non patrimoniale, ed attraverso un percorso argomentativo è stato
rivisitato il contenuto del sistema risarcitorio della categoria del danno
biologico e cioè di danno alla salute.
Ciò comporta inoltre che il danno alla
salute si inserisca in un processo patologico del nascituro, a seguito
dell'omissione di informazione nei confronti della gestante sullo stato di
salute del nascituro stesso, il che è certamente suscettibile di risarcimento.
Con sentenza della Suprema Corte del 21.03.1997 si è affermato che risponde di
rifiuto di atti di ufficio il medico di un ospedale pubblico che ometta di
riferire informazioni alla gestante riguardo alla salute del nascituro, nella
specie affetto da gravissime anomalie di origine genetica, laddove ciò possa
incidere sulla salute psichica della paziente e dello stesso nascituro, senza
che assuma rilievo il fatto delle impossibilità di procedere alla interruzione
volontaria della gravidanza.
L'obbligo di informazione fondato
sull'art. 2 della legge n. 833/1978 che ha riconosciuto all'istituto sanitario
nazionale una finalità di formazione dell'educazione sanitaria, è da ricondurre
senza remore al disposto dell'art. 328 c.p., che incrimina il rifiuto di quegli
atti che non possono per determinate ragioni essere dilazionate nel tempo.
La legge n° 833/78 infatti tutela la
salute psichica della persona umana; la legge n° 194/78 invece offre una tutela
sociale della maternità con riguardo alla situazione psichica della paziente in
gravidanza, oltre che prevedere dei supporti e delle terapie psicologiche, che
possono essere avviate antecedentemente al parto, per preparare entrambi i
genitori all'accettazione di un bambino diverso sin dal suo primo momento di
vita.
È evidente che la previsione di tali
interventi è tanto più efficace quanto più tempestiva sia l'informazione da
parte del personale medico, con riguardo alle effettive condizioni di salute
del nascituro.
Peraltro l'art. 328 c.p. attribuisce invero
una rilevanza esclusivamente al rifiuto degli atti che, per motivi di sanità,
debbono essere immediatamente posti in essere; dunque il reato si realizza nel
momento in cui si avvera la possibilità di conseguenze dannose che siano
dirette al bene giuridico della salute psicofisica.
Se in Italia ancora si discute
sull'ammissibilità o meno di una tutela da riconoscere al concepito nato, in
Europa e in particolar modo in Francia il dibattito è stato sollevato in modo
piuttosto incisivo ed è stato troncato sul nascere dal legislatore.
Il legislatore francese infatti, a
dispetto di un indirizzo giurisprudenziale della Cassazione francese
relativamente al caso Perruche[76]
ha optato per un non riconoscimento del diritto del bambino a nascere sano, ad
avere una vita sana e a preferire la non vita in alternativa ad un'esistenza
non sana.
Nel contesto di una legge da tempo in itinere, la Loi Kouchner n. 2002-303
del 04.03.2002 intitolata "Aux
droits des malades et à la qualité du système de la santé. La solidarité envers
les personnes handicapés", il legislatore ha attuato una comparazione
tra l'omessa diagnosi delle malformazioni fetali dovute a negligenza ed
imperizia del medico e il c.d. "accident
medical, affection iatrogene, au infection nosocomiale", non dipendente
da una causa esterna accertata.
Nella premessa posta dalla norma di
legge che è rubricata sotto il titolo di "Solidarité envers les personnes handicapèes",si legge a chiare
lettere che "la personne nèe avec un
handicap du à une faute mèdicale peut obtenir la réparation de son préjudice
lorsque l'acte fautif a provoqué directement le handicap ou l'a aggravé, ou n'a
pas permis de prendre les mesures susceptibles de l'attéenuer" (art.
1)[77].
2.2. Responsabilità del medico e della struttura sanitario-ospedaliera e nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento lesivo prodotto dall’attività medico legale.
Il tema riguardante i canoni valutativi utilizzabili dal Giudice per la determinazione della sussistenza o meno del nesso causale tra la condotta negligentemente omissiva per negligenza e l'evento lesivo relativo all'attività medico-chirurgica di cui sopra, è stato oggetto di analisi in Italia con la recente sentenza 10.07/11.09.2002 n. 30328 del Supremo Collegio in ordine ai principi di formazione della prova del danno prodotto.
Non ci dilunghiamo sulla dottrina riguardante il rapporto di causalità in sede penale e sulle sue teorie che vanno dalla causalità efficiente, a quella adeguata e ad altri aspetti che formano oggetto di valutazione del Giudice, per attribuire rilevanza alla condotta del sanitario[78].
La giurisprudenza precedente della Corte di Cassazione aveva tentato di risolvere tale tematica con valutazioni talvolta contraddittorie, focalizzando l'attenzione sul quantum del parametro di probabilità tale da ritenere sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva e l'evento dannoso ai fini della responsabilità penale del medico.
Si è accennato a serie ed apprezzabili probabilità di successo[79] nel senso di individuare i corretti coefficienti di probabilità senza raggiungere una certezza o una quasi certezza al riguardo. Ne è scaturita una serie di decisioni anche del Supremo Collegio tese alla enucleazione di un criterio valido al fine di poter affermare la probabilità di tali effetti soltanto in cui ci sia la certezza di apprezzabili probabilità di successo[80], anche in termini di verosimiglianza, con esito positivo tenendo conto del rispetto della presunzione di irresponsabilità nell'accertamento del nesso causale[81].
Talvolta i Tribunali hanno ritenuto sufficienti solo alcune probabilità di successo relativamente ad un intervento chirurgico come quello di vasectomia o di sterilizzazione, così attenuando il rapporto tra condotta colposa e pregiudizio e puntualizzando più l'elemento della colpa che quello del nesso causale che in fondo richiede una indagine sulla entità del rischio. A tal proposito il disvalore della condotta deve essere elemento determinante dell'evento dannoso caratterizzando così il reato anziché di danno invece di pericolo.
è ben noto che, secondo la dottrina dominante di diritto penale, la condotta umana attiva ed omissiva è condicio sine qua non nello stabilire gli antecedenti logico giuridici che concorrono a produrre l'evento. Tale teoria peraltro si inquadrava su un paradigma condizionalistico utile ai fini di garantire un più puntuale accertamento della responsabilità penale.
Tale tendenza, in verità posta in una visione riduttiva della causalità, è stata oggetto di critica da parte della giurisprudenza che, sulla base di un concetto naturalistico della condotta omissiva, consistente nella pretesa identità strutturale tra causalità attiva ed omissiva, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., ha affermato che tale identità dovesse risultare quasi come una condizione necessaria tra gli antecedenti logici che concorressero a produrre un determinato risultato. Tuttavia questo convincimento, secondo il quale tale prospettiva potesse essere un elemento di garanzia per chi fosse sottoposto ad un accertamento della propria responsabilità, è sembrato foriero di dubbio nel caso di applicazione di tale teoria ai reati omissivi impropri.
Con una nuova svolta, in un certo senso rivoluzionaria[82], si è sostenuto che "la rilevanza causale del fatto nella produzione dell'evento dannoso deve essere accertata in termini di assoluta certezza e cioè con una probabilità confinante con la certezza" e ciò in contrasto col criterio di probabilità cui sopra si è accennato.
Le esigenze garantistiche di tutela del bene della vita, non giustificherebbero tuttavia gli orientamenti relativi all'applicazione del cosiddetto aumento del rischio, che deve sussistere evidentemente in un momento antecedente a quello della formulazione della norma donde un nuovo intervento delle Sezioni Unite in ordine alla valutazione del nesso di causalità ai sensi dell'art. 40 c.p..
In tal modo si è inteso ridimensionare il criterio di attendibilità di leggi statistiche, nascente dalla teoria della probabilità logico-razionale, dovendosi piuttosto soffermarsi su concrete circostanze che escludano i coefficienti di probabilità. In altri termini, le leggi scientifiche probabilistiche in ogni caso debbono, anche ai fini della certezza giudiziale, fondarsi su un concreto rapporto di causa-effetto e valutate dal giudice alla luce delle risultanze del caso concreto.
L'inquadramento dell'obbligazione assunta dal medico, cosiddetta obbligazione di mezzi e di risultato, ha fatto sì che l'indagine poggiasse essenzialmente sulla ripartizione dell'onere probatorio tra paziente e professionista con la conseguenza di una attribuzione di oneri probatori tra le contrapposte parti.
Sono sorti così dei correttivi delle varie teorie enunciate, sottolineando la distinzione, ai fini della ripartizione dell'onere della prova, tra interventi di facile e di difficile esecuzione. L'oggetto della prova gravante sul paziente danneggiato è risultato più o meno ampio, a seconda della natura dell'intervento, rispetto al quale il rischio di esito negativo o peggiorativo negli interventi, che non richiedono una particolare abilità professionale, è minimo, sicché spetta al professionista fornire la prova contraria riguardante l'esecuzione della prestazione in modo idoneo e provare altresì che l'esito peggiorativo sia stato causato da un sopravvenuto evento imprevisto ed imprevedibile o da altra condizione fisica del malato evidentemente non accertabile col mero criterio dell'ordinaria diligenza professionale[83].
Diversamente, nel caso di intervento di difficile esecuzione, il medico ha soltanto l'onere di provare la natura complessa dell'operazione mentre spetterà al paziente dimostrare che siano state inidonee le modalità di esecuzione, spostando quindi al paziente la prova del modo di esecuzione dell'intervento operatorio.
La dimostrazione della natura facile dell'intervento, tale cioè da non richiedere una particolare perizia, invece consente l'applicazione della norma generale in tema di responsabilità a carico dell'inadempiente come presunzione di comportamento non diligente (art. 1218 c.c.), sostanziandosi così un'inversione dell'onere della prova che consiste nel porre l'incertezza degli esiti probatori a carico del prestatore d'opera o della struttura sanitaria che risponderebbe di obbligazione di risultato[84] e non di mezzi.
Per quanto riguarda inoltre la responsabilità della struttura sanitaria, la casistica giurisprudenziale ha messo in luce come spesso il comportamento colposo del personale sanitario si trasformi in responsabilità oggettiva.
In particolare è stato precisato in tempi recenti[85] che colui il quale invochi il risarcimento di un danno alla salute, colposamente causato dalla condotta di un medico, ha l’onere di allegazione semplicemente indicando se la colpa del convenuto sia consistita in imperizia, imprudenza o negligenza, senza che sia necessaria l’allegazione degli specifici aspetti tecnici dai quali discende la responsabilità professionale di carattere paraoggettivo.
Con il raggiungimento di una tutela effettiva dei diritti assoluti lesi, il sistema della responsabilità, con riferimento al danno, ha messo in luce un’indagine giurisprudenziale sulla condotta del medico, alla luce della quale l’intera teoria della colpa e del nesso causale e dello stesso danno sia sotto il profilo sostanziale che probatorio ne esce profondamente mutata.
Negli ultimi anni a fronte dei casi di manifesta negligenza medica la posizione dei Giudici civili ha finito per allinearsi a quella dei Giudici penali sulla base del ricorso al criterio di causalità ipotetica a proposito del quale non si evidenziano più le serie ed apprezzabili probabilità di successo, ma un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica.
La Giurisdizione civile, infatti, si è resa conto che il criterio probabilistico sia lo strumento più adatto per affermare una sussistenza di nesso di causalità ogni qualvolta si ravvisi, con certezza, la colpa del medico, sul quale grava l'onere della prova.
Il criterio probabilistico è diventato uno strumento utile in situazioni in cui vi è non incertezza sulla quantificazione della condotta negligente del medico alla realizzazione dell'evento, ma sull'«an» di un comportamento colposo da parte dei sanitari.
Si è giunti quindi ad ipotizzare non
soltanto con riferimento alla nascita indesiderata ma anche in tutti i casi di
responsabilità medica, che non solo il nesso causale sussiste tra il
comportamento colposo e l'evento-danno, ma addirittura si ricava la presenza
del comportamento colposo dalla semplice assenza di dimostrazione di altri
fattori ritenuti idonei a produrre la lesione attraverso il richiamo al
criterio di probabilità scientifica.
3.1. Responsabilità dei genitori e tutela dei figli
Nell’attuale momento storico
profondamente mutato rispetto a quello in cui si inseriva il caso relativo alla
nascita di un bambino eredoluetico (Tribunale Piacenza 31.07.1950), per quanto
riguarda la tematica della responsabilità dei genitori per danno da
procreazione sono state fatte rilevanti riflessioni. In primis, uno degli
interrogativi che l'analisi del problema ha suscitato è se un genitore sul
quale gravino oneri di mantenimento del figlio, oltre che all’obbligo di
assistenza morale e materiale, possa essere chiamato a rispondere nei confronti
del figlio stesso nel caso in cui il genitore non abbia eseguito tutte le
indagini volte ad identificare delle anomalie genetiche trasmissibili al
concepito.
A ciò si è aggiunto un altro
interrogativo relativo all'ipotesi in cui un genitore affetto da una infezione
possa essere considerato responsabile per non avere adottato tutte quelle
attenzioni non soltanto rilevanti a livello medico-sanitario e rivolte ad
evitare che al momento del concepimento si possa trasmettere una malattia al
feto.
Gli interrogativi richiamati, che fanno
riferimento ai casi sopra richiamati di trasmissione di anomalie genetiche
ereditarie con l'atto del concepimento, di trasmissione di infezioni e di
malattie con lo stesso atto, possono ricondursi nell'ambito della
responsabilità da procreazione e, in particolar modo, possono evocare una
responsabilità da concepimento.
Sulla possibilità di ricondurre a tali
casi la responsabilità dei genitori, da parte della dottrina e della
giurisprudenza sono scaturiti numerosi dubbi. Da un lato vi è la preoccupazione
che un'ampia riconducibilità della responsabilità civile ai “torts wrongful life” possa condurre ad
una incontrollata estensione della responsabilità cosicché i genitori possano
essere chiamati a rispondere civilmente non soltanto della patologia trasmessa
ai figli a causa della minorazione, ma anche di tutto il patrimonio non
soltanto genetico ma anche morale e
culturale trasmesso ai figli.
Dall'altra parte, l'interrogativo da
parte dei giuristi è sul fatto che tale apertura possa alimentare il ricorso a
una pratica eugenetica repressiva del diritto alla riproduzione dei portatori
di disordini biologici[86].
Ciò che maggiormente grava, in
considerazione dell'acquisizione al sistema, è la configurabilità di un
illecito civile che sussisterebbe con riferimento ad un soggetto danneggiato
non ancora esistente, almeno come persona, al momento della condotta che ha
cagionato la lesione in considerazione del fatto che è soltanto dopo l'atto del
concepimento che si rende possibile definire l'identità genetica di un
individuo[87].
Dal dibattito sulla tematica sorto negli
anni ‘50, sono avvenuti vari mutamenti sul piano scientifico e socio-culturale
per cui dal mutato assetto è possibile trarre nuovi elementi di valutazione
tali da offrire un contributo alla tematica della responsabilità dei genitori
per danno da procreazione.
È infatti da evidenziare un sempre più
incisivo controllo medico sul processo generativo tale da fare assumere una
rilevanza centrale alla libera e cosciente determinazione dei soggetti, sia
sulla base dei progressi della scienza medica e della medicina, soprattutto in
termini di accertamenti diagnostico-terapeutico nella fase di sviluppo e della
formazione del feto, sia per il ruolo svolto dall'informazione sanitaria nella
fase di prevenzione delle malformazioni del bambino a seguito del concepimento[88].
A fronte del venir meno di una sorta di
immunità nelle relazioni endofamiliari, dapprima sottratti alle regole della
responsabilità civile, si è optato per una valorizzazione della tutela
costituzionale del minore, inserito in un dato contesto familiare, in ordine
allo sviluppo e alla formazione della sua personalità, che è prevalente
rispetto ad ogni altra esigenza ed interesse della vita familiare[89].
Il rapporto genitori-figli si è
incuneato così in un tessuto di rapporti affettivi in seno alla famiglia tale
da non poter giustificare delle limitazioni alla tutela della persona umana ed
alcuna offesa alla personalità e alla dignità di chi nasce col rifiuto di quei
valori fondamentali che si riferiscono allo sviluppo della persona.
Se tale è il contesto culturale su
siffatta tematica in dottrina, successivamente al caso del Tribunale di
Piacenza del 1950, sono sorti numerosi dubbi, relativamente all'apparire sulla
scena della responsabilità civile le cosiddette “nascite indesiderate” connesse
alle azioni di wrongful life
esperibili dal nato con handicap nei confronti del medico.
Si è passati così da una concezione
sacrale della vita sulla scorta di valutazioni sulla inammissibilità di una
tutela apprestata dall'ordinamento, su un giudizio di valore teso al non
riconoscimento del diritto a non esistere, invece ad una consapevole
configurabilità di un orientamento basato sulla libertà di procreare senza
limiti ed obblighi di tutela della futura esistenza, ciò implicando che il
nato, affetto da una malattia trasmessa dai genitori, potesse rivendicare
l'interesse a non nascere.
Oggi la tematica del danno da
procreazione induce ad un'analisi in una prospettiva dove la libertà della
procreazione cede il passo al diritto alla procreazione responsabile efficace
sintesi del binomio responsabilità-libertà
nell'esercizio del diritto alla procreazione.
La tutela della vita prenatale di chi è
venuto al mondo contrassegnato da una malattia trasmessa dai genitori è
rilevante sotto il profilo del riconoscimento di quel nucleo di valori
fondamentale come la dignità, la vita e la salute che l'ordinamento tutela in
capo ad ogni individuo come essere umano.
Sulla base di quanto detto sul giudizio
valutativo degli interessi contrapposti tra vita e non vita, è necessario
procedere attraverso una ricerca dell'equilibrio con i valori protetti dalla
Costituzione e sulla base delle disposizioni legislative[90].
Ciò è da considerare sulla base di un
sistema assistenziale oltre che di uno stato sociale che si faccia carico
dell'aiuto economico-assistenziale dei nati portatori di handicap sul modello
introdotto dalla Loi Kouchner, offrendo una tutela della posizione giuridica
dei genitori.
In quest'ottica di estensione della
responsabilità per danno da procreazione si ipotizza una tutela della vita
prenatale, in relazione all'interesse del soggetto alla salute, dal momento in
cui con la condotta si realizzi l'illecito.
Sotto il profilo dei danni risarcibili
appare mutato il quadro di riferimento entro il quale collocare la
responsabilità dei genitori per malattie trasmesse al nascituro.
Se negli anni ‘50 l'azione intrapresa
dal figlio nei confronti del padre naturale era tesa ad ottenere il
risarcimento sul piano economico delle spese sostenute per far fronte alla
malattia trasmessa all'atto del concepimento, oggi non è sufficiente reclamare
una tutela risarcitoria, bensì, come si può evincere dagli svariati casi
giurisprudenziali, appare sempre più opportuno reclamare il risarcimento di un
danno, che va al di là della mera sfera reddituale del soggetto, danno che si
traduce in un'offesa alla personalità del nascituro[91].
Il danno al quale si fa comunemente
riferimento in caso di azione riconosciuta a causa di accertamento di
responsabilità dei genitori nei confronti dei figli, non è un danno né
biologico poiché l'interesse leso del concepito non è né interesse a nascere
sano, né un interesse attuale alla tutela della salute, né morale bensì esistenziale in quanto
danno correlato a una lesione della personalità del concepito e che è da
provare in relazione all'incidenza della malattia sullo svolgimento della vita
del figlio all'interno e all'esterno del nucleo familiare.
3.2 I diritti del concepito: diritto di non nascere o diritto a nascere sano? La soluzione alla nascita indesiderata secondo la giurisprudenza delle corti straniere
Oltre che del caso relativo alla nascita
viziata da anomalie genetiche non cagionate da malattie trasmesse dai genitori
all'atto del concepimento, la dottrina prevalentemente straniera, si è
pronunciata sul caso del bambino, colpito da handicap cagionato da malattia non
accertata per negligenza medica, per cui si è chiesto il risarcimento del danno
derivante dalla gravidanza condotta a termine nonostante la malattia contratta
dalla madre e trasmessa al figlio durante la fase del concepimento.
Il 17 novembre 2000 la Corte Suprema di
Cassazione francese rispondeva affermativamente alla richiesta di un ragazzo
relativamente al riconoscimento di un danno da handicap subito e che si sarebbe
potuto evitare soltanto se il personale medico e il laboratorio di biologia
medica, durante il periodo di gestazione, avessero adottato la massima cura e
diligenza nel rapporto contrattuale con la madre.
Tale caso ha suscitato nell'opinione
pubblica svariate critiche e proteste di una certa intensità dando adito ad una
distinzione tra i sostenitori del diritto a non venire ad esistenza,
riconosciuto pienamente dai perruchisti e tra i fautori della difesa della vita
in sé e per sé, a prescindere da ogni handicap o malattia tale da ingenerare
nel soggetto una diminuzione od una privazione - come nel caso Perruche - delle
chance di vivere una vita sana nel pieno godimento della salute.
Secondo i cosiddetti anti perruchisti,
infatti la Corte di Cassazione aveva violato il suddetto diritto, non
osservando il principio della dignità della persona umana e soprattutto la
funzione etica ed antropologica che il diritto stesso deve assicurare.
La sentenza della Cassazione, infatti,
cagionava una considerevole degradazione del diritto della persona umana e
nella fattispecie di un ragazzo che era nato minorato fisico-psichico a causa
della malattia - la rosolia - contratta dalla madre durante la gestazione.
Infatti, quanto sopra affermato, a detta
dei sostenitori dell'orientamento contrario al diritto a non nascere, non era
permesso né dal diritto civile né dai diritti fondamentali garantiti dalla
Costituzione; l'handicap non poteva essere considerato un pregiudizio
risarcibile né la Corte di Cassazione poteva riconoscere nel risarcimento del
danno il fondamento del dovere di nascere normale e cioè sano.
Addirittura era da ipotizzarsi che la
lotta alla disabilità, alla malattia, fosse da ritenere in contrasto con la
legge nei termini in cui la promozione dell'eugenetica fosse da rapportare alla
soppressione dei malati, sulla base di una discriminazione tra persone
handicappate e persone in buona salute[92].
Il dissenso venutosi a creare sulla
esperibilità dell’azione risarcitoria nell'ambiente giuridico e soprattutto in
Francia all'indomani della sentenza Perruche, a seguito della decisione di
accoglimento della richiesta di risarcimento del danno da parte di un soggetto
handicappato, ha creato uno iato tra le Corti e i Tribunali francesi, cosicché,
a seconda che la denuncia di un bambino nato handicappato fosse diretta contro
un medico che eserciti in una struttura ospedaliera o privata e che quindi
dovrebbe rispondere dell'obbligazione da "contatto sociale" nel
momento in cui si instauri un rapporto tra la gestante e la struttura
ospedaliera, e a seconda che sia adita la giurisdizione civile o penale.
Si è creata così una notevole confusione
soprattutto relativamente alla soluzione di casi difficili, che mostrano
l'assenza di un orientamento chiaro e sicuro da parte del diritto positivo
francese relativamente alla denuncia di una nascita indesiderata e non voluta e
dunque, dello stesso soggetto concepito e nato handicappato.
Sono delle problematiche che attengono
non soltanto alla scienza del diritto ma anche all'etica, in quanto prendono in
considerazione ciò che riguarda la libertà individuale cioè di ogni soggetto e
che, a prescindere dalla concezione perruchista od antiperruchista, coinvolga
la persona umana.
In breve, conviene affrontare il
problema se un bambino colpito da un handicap congenito abbia o meno il diritto
di denunciare il fatto di essere nato infermo o di non essere nato affatto,
anzitutto per stabilire quale sia la condizione di validità della denuncia
presentata nei casi come quello della vicenda di Nicholas Perruche.
Infatti, perché si possa ammettere una
denuncia, il soggetto deve essere giuridicamente legittimato a sporgerla e
potrebbe essere ammessa soltanto se la qualità stessa di soggetto, da un punto
di vista ontologico, non sia contestabile.
L'analisi del caso Perruche infatti si è
volta in primis ad osservare se vi sia stato un errore, quindi un pregiudizio,
e soprattutto ad accertare se vi sia un nesso di causalità tra l'errore e il
pregiudizio e cioè se sussista un fondamento legittimo per denunciare l’errore,
prodotto da un atto di negligenza medica e che possa essere suscettibile di
risarcimento.
I medici nel caso di specie non avevano
dato prova della diligenza necessaria per valutare se l'infezione contratta
dalla madre, durante la gestazione, avesse potuto provocare nel figlio delle
anomalie o malformazioni tali da impedire una nascita sana e soprattutto se, in
caso di accertamento positivo di ciò, i medici stessi avessero potuto
consigliare la interruzione della gravidanza per i rischi connessi ad essa e
tali da comportare per la salute del feto menomazioni come sordità, cecità,
affezioni mentali, il che successivamente è avvenuto.
Da tale errore, che è stato poi oggetto
di giudizio da parte della Cassazione, il giovane Perruche, in effetti, aveva
subito un pregiudizio risultante dall'handicap risarcibile per aver cagionato
al bambino, durante tutta la sua esistenza, sofferenze fisiche e psichiche,
vincoli, privazioni, disagi di ogni genere.
Dal punto di vista degli
anti-perruchisti, tali condizioni accertate subito dopo la nascita, hanno
conseguentemente indotto i giudici alla determinazione di un danno nei termini
sopra rilevati, mettendo così in discussione il riconoscimento dello stesso
soggetto come persona con riguardo al suo valore in quanto tale.
Occorre soffermarci all’uopo sul nesso
di causalità da analizzare e cioè sulla correlazione tra l'errore e il
pregiudizio non meno rilevante in quanto la contestazione delle Corti è
consistita, in modo particolare, nel rifiuto di considerare l'errore medico
come fonte di disagio psicofisico o di attentato alla integrità psicofisica
dell'individuo, e, conseguentemente, di far gravare sul medico e sul
laboratorio la responsabilità per i gravi danni subiti dal bambino.
Tali considerazioni però hanno spinto i
giuristi a dubitare e a diffidare del fatto che l'errore medico sia la fonte
dell'handicap. L'errore medico si è rilevato in realtà nel fallimento di una
interruzione della gravidanza per la tutela della salute della madre ovvero nel
risultato negativo di un intervento di sterilizzazione; nel caso Perruche
invece, l'errore medico consisterebbe nel non avere diagnosticato o impedito
l'identificazione della malattia, ma certamente non può essere considerato come
fonte della malattia stessa nel senso che l'assenza di errore medico non avrebbe
diminuito comunque il rischio di handicap per il bambino che senz'altro è
riconducibile alla malattia contratta dalla madre.
È da rilevare inoltre che è la
circostanza che la madre del piccolo Perruche avesse deciso, dichiarandolo al
medico, di interrompere la gravidanza qualora risultasse che avesse contratto
la rosolia, a costituire spunto per attribuire comunque al personale medico una
responsabilità per omesso obbligo di informazione nei confronti della gestante.
Il ragionamento dei perruchisti è stato
volto a far gravare sui medici, che hanno la responsabilità della cura e della
tutela dei pazienti, il risarcimento sulla base del presupposto che la legge,
istituendo la libertà di aborto, conferisce alla madre il potere di
interruzione della gravidanza.
La signora Perruche aveva deciso dunque
di interrompere la gravidanza in caso di accertamento di malattia, ma la sua
scelta non era stata esercitata a causa della negligenza medica.
Inoltre la legittimità stessa del diritto
di denunciare la condotta negligente dei medici da parte del giovane Perruche è
derivata a sua volta dal mancato esercizio da parte della madre del diritto di
interrompere la gravidanza e quindi di abortire.
L'errore dei medici ha avuto come conseguenza
la nascita del bambino; in tal modo, la vita del nascituro non è stata lesa, ma
è stata per così dire conservata nella sua condizione attuale.
L'errore diagnostico nel caso Perruche e
anche nei casi ad esso assimilabili, non ha certamente causato la morte colposa
della vittima, profilo che sotto l'aspetto umano certamente scuote la
sensibilità dei giuristi, ma ha dato vita alla nascita colposa di un essere
umano, secondo l’iter logico-giuridico condotto dalla Cassazione nella sentenza
di accoglimento della richiesta di risarcimento danni.
Il danno arrecato al giovane Perruche è
un danno che investe uno dei beni giuridici più rilevanti che, oltre alla
salute, è la dignità dell'essere umano.
Nella fattispecie il mancato esercizio
del diritto di scelta di interrompere la gravidanza a causa di errore medico, è
un atto che ha impedito che una vita umana venisse soppressa, ma in ogni caso,
certamente ha provocato una lesione nella sfera psico-fisica del bambino
giuridicamente rilevante.
L'analisi, pertanto, condotta dalla
Corte si è puntualizzata sul riconoscimento della mancata tutela della vita
intesa come violazione del contratto stipulato tra la gestante e la struttura
medico-ospedaliera e, nel contempo, la Corte si è orientata per una
responsabilità extracontrattuale derivante da atto illecito perpetrato contro
la vita.
Ciò detto, indubbiamente il medico e l'intera
struttura ospedaliera devono fare i conti con due distinte richieste di
risarcimento: la prima fondata sul fatto che il mantenimento in vita sia stato
causa di un danno patrimoniale, la seconda, invece, sulla salvaguardia della
vita del neonato in quanto la lesione di un bene giuridico è stata acuita dal
fatto che con la nascita è venuta meno la possibilità di una restitutio in integrum della condizione
desiderata, fondando così la pretesa al risarcimento.
Certamente è stata la domanda di
risarcimento del bambino a suscitare un certo sgomento sotto il profilo
giuridico e umano. Una nascita che ha sottratto il neonato alla morte è stata
infatti qualificata come un danno e il bambino stesso, ormai adolescente, nella
richiesta di risarcimento del danno, si è appellato al fatto che la gestazione
dovesse essere interrotta nel momento in cui si è accertata la malattia
contratta dalla madre e ipoteticamente trasmessa al figlio, come peraltro poi è
accaduto, e che quindi si dovesse provvedere da parte dei medici alla sua
soppressione fisica.
Si sono poste in comparazione due
condizioni opposte: da una parte l'“essere”, nato minorato, portatore di
anomalie fisiche e psichiche, dall'altra “il non essere”, interpretato come
condizione più vantaggiosa e come sollievo dal danno.
A tal proposito, da parte della dottrina
e della giurisprudenza, si è chiesto se la vita personale possa essere
considerata un danno. Le stesse locuzioni wrongful
birth e wrongful life, derivate a
loro volta dall'espressione wrongful
death, che alludono alla nascita non desiderata, sono state utilizzate
nella domanda risarcitoria del bambino menomato, tesa al risarcimento del danno
cagionato dalla sofferenza quotidiana di vivere una vita non voluta.
Tale assunto, relativamente alla
soluzione del problema della vita non desiderata, alla luce della
giurisprudenza delle Corti tedesche, è stato risolto negativamente rigettando
la domanda di risarcimento per la vita non desiderata avanzata dal bambino. In
particolare, la decisione-guida della Corte di Giustizia Federale su un caso di
nascita indesiderata, non ha certamente esaurito il dibattito sulla tematica,
ma ha sottoposto al vaglio dei giuristi l'analisi di altre tematiche piuttosto
rilevanti.
Su un caso analogo, infatti, a quello
Perruche, la Corte di Giustizia nel 1986[93]
si è pronunciata a favore della domanda di risarcimento avanzata dai genitori
di un figlio nato malformato, in quanto azione fondata su una pretesa
contrattuale, mentre ha rigettato la richiesta risarcitoria del bambino
handicappato che, al contrario, rivestiva un interesse fondamentale.
I giudici hanno argomentato, infatti,
che non era configurabile un diritto all’aborto[94]
in quanto l'ordinamento giuridico tedesco non contempla il diritto a disporre
della propria vita, osservando all’uopo che la condizione psicofisica
particolare del bambino non poteva in alcun modo essere quantificabile alla
luce delle categorie giuridiche della disciplina del risarcimento.
La legittimazione attiva al
risarcimento, secondo la sentenza della Corte di Giustizia Tedesca, non ha
trovato fondamento infatti neanche nel caso in cui si trattasse di un contratto
la cui efficacia giuridica consisteva nella tutela del bambino.
Né la richiesta di risarcimento, rigettata su pronuncia della
giurisprudenza, ha orientato il ricorso all'argomento analogico per sostenere
la legittimità della richiesta dei genitori. Si è trattato infatti di riconoscere
il risarcimento ad una pretesa differente da quella di natura esclusivamente
contrattuale.
La giurisprudenza tedesca ha risolto i
dubbi relativi alla nascita non voluta, evidenziando che la vita umana è un
bene assoluto, inviolabile, e pertanto non disponibile.
Tale diritto universale appartiene anche
ai bambini non ancora nati, al momento del loro concepimento, per cui il
diritto alla conservazione in vita è diritto a che venga impedito ogni atto
volto ad ostacolare la nascita del bambino.
Per quanto riguarda l'ipotesi di
accertamento del danno, nel caso di specie, il medico curante aveva tenuto un
comportamento negligente sia al momento della diagnosi, sia al momento in cui i
risultati degli esami clinici erano stati comunicati al paziente. Egli così era
venuto meno ai propri doveri nei confronti sia della madre che del nascituro.
Un punto fondamentale è quello di
determinare se il non accertamento della patologia del bambino abbia o meno
provocato un peggioramento della condizione del bambino stesso e dunque un danno
in senso proprio.
Secondo la giurisprudenza tedesca,
certamente, il mancato obbligo di informazione da parte del medico nei
confronti della gestante, è da sanzionare; da tale punto di vista la nascita
non programmata di un bambino è qualificabile sotto la voce di “risarcibilità
di un danno meramente patrimoniale”.
L'ordinamento giuridico tedesco,
infatti, sanziona la lesione subita a causa del comportamento negligente
tenuto, con un obbligo di risarcimento di un danno che attiene alla sfera
patrimoniale del soggetto.
La diagnosi corretta, infatti, avrebbe
condotto alla interruzione della gravidanza e il bambino non sarebbe nato; il
comportamento scorretto del medico, però, non ha certamente peggiorato la
salute del bambino, ma ha permesso che una vita, nonostante già menomata a
causa della malattia contratta dalla madre, venisse salvata.
Il ragionamento logico-giuridico dalla
Corte è stato condotto sulla base del fatto che la morte non sia da preferire
ad una condizione di vita segnata dall'handicap.
L'ordinamento giuridico non
consentirebbe di configurare in capo al medico l'obbligo giuridico di impedire
la nascita di un bambino handicappato in quanto impedire la nascita
equivarrebbe ad affermare che la vita è priva di valori e che l'integrità umana
non merita alcuna garanzia, mentre è risaputo che la vita è un bene giuridico
di grado superiore e che in quanto tale deve essere preservata.
La Corte di Giustizia Federale con la
sentenza sopra richiamata ha sottolineato che il caso non potesse essere
risolto attraverso il ricorso alle categorie tradizionali in quanto la
particolarità della tematica conduceva ad un superamento della dimensione
giuridica e trascendeva nella sfera etico-morale e quindi extragiuridica.
Con un approccio comparatistico, la Corte
ha condiviso alcune espressioni della giurisprudenza inglese, cioè si è
appellata alla fatalità dell'evento, facendo riferimento così al fatto che la
nascita del bambino è da collegare ad un evento del destino, ad una condizione
della natura[95].
Secondo il convincimento della Corte,
infatti, l'uomo deve accettare la propria vita così come essa è stata voluta
dalla natura e non ha alcun diritto di impedirne lo sviluppo e la formazione.
In un caso analogo di infezione di
rosolia contratta dalla madre, non diagnosticata, nella nota sentenza della
Corte di Appello di Londra, McKay Another v. Essex Area Health Authority and
Another, la domanda risarcitoria del bambino venne respinta con la motivazione che l'unico diritto
rivendicato dal bambino era quello a non nascere malformato e quindi il diritto
ad essere abortito; tale diritto, però non poteva essere riconosciuto, in
quanto la vita del bambino malformato sarebbe stata non degna di essere
conservata.
La Corte inglese ha evidenziato di non
possedere l'esperienza metagiuridica oltre che giuridica tale da qualificare un
danno del bambino e quindi giustificare la permanenza in vita di un bambino
malformato come evento illecito colposo.
Tra le righe della motivazione della
sentenza[96] si legge
che vi è una possibilità di mutamento di indirizzo e quindi di non optare verso
la considerazione dell’evento come illecito colposo nel caso in cui il
gravissimo stato patologico del bambino non sia diagnosticabile.
La motivazione si basava sul fatto che
la Corte ha preso in considerazione un
diritto non consolidato nel tempo e quindi non certamente consuetudinario,
ma al contrario, incentrato su una nuova tipologia d'azione nei confronti della
quale non si trovava alcun caso
documentato nelle Corti del Regno Unito o del Commonwealth.
L'unico inadempimento del quale i medici
potevano essere responsabili nei confronti della bambina, secondo la Corte,
consisteva nel comportamento negligente che le
aveva permesso di vivere anziché di non nascere in assoluto; la richiesta di
risarcimento dunque era da scorgere in una intromissione indesiderata
nell'esistenza altrui o in una vita non desiderata.
Il punto è però che il diritto
stabilisce che è illegittimo privare della vita un bambino o qualsiasi persona
subito dopo la nascita, riconoscendo una differenza tra la vita di un embrione
e la vita di coloro che sono già nati.
Da tale considerazione, che così
consentirebbe legittimamente ad un medico di fare ad un feto ciò che invece non
può legittimamente fare ad una persona già nata, non consegue tuttavia che egli
abbia l'obbligo giuridico di porre fine all'esistenza di un nascituro o che
quest'ultimo abbia diritto di morire.
La soluzione della Corte, applicabile
anche ai casi di nascita di soggetti portatori della sindrome di Down, ha risolto
dunque in modo negativo la questione di un ipotetico diritto del bambino ad
essere soppresso.
La dignità della vita è un bene
giuridico inviolabile e una mancata qualità della vita stessa non può mai
tradursi nel desiderio di non essere mai nati o peggio di essere morti.
La sentenza inglese fa riferimento,
infine, alla impossibilità della quantificazione di un danno per la pretesa
risarcitoria della bambina; da questo punto di vista è da rinvenire un punto di
incontro con la sentenza della Corte Federale Tedesca sopra richiamata.
Alla Corte, infatti, si è richiesto di
accertare e valutare la natura della lesione e la determinazione del danno.
Tale danno si è ritenuto da valutare in termini contrattuali, ma la lesione
personale del bambino non poteva essere quantificabile in termini di
risarcimento sulla base della condizione in cui il danneggiato si trovava prima
di subire la lesione e cioè di concepito.
Il danno infatti sarebbe oggetto di
valutazione in termini di “lucro cessante” oltre che di “danno emergente” e
cioè sulla base di ciò che qualitativamente con riferimento al diritto alla
salute è andato perso, ancorando così tale ragionamento alla differenza tra il
valore della vita come bambino/a normale e sano/a e il valore della vita di un
bambino affetto da grave malformazione.
La condanna dei medici al risarcimento
nell'ottica della pretesa del nascituro,
nella fattispecie, avrebbe dovuto avere riguardo alla posizione
giuridica del medico come quella di un soggetto che ha cagionato un danno,
mentre in realtà il medico si è limitato a non intraprendere le misure
necessarie ad impedire la nascita di chi è stato leso.
L'unica differenza che può essere
rilevante ai fini del risarcimento è quella costituita tra la condizione
risultante dall'essere stato partorito vivo e gravemente malformato e quella in
cui il bambino avrebbe potuto avere se la sua vita prenatale fosse stata
interrotta.
Ma come un Tribunale può valutare questa
seconda condizione quantificando così la perdita subita da un bambino?
La perdita di una speranza e di una vita
sana è stata considerata difficile da valutare per cui i Tribunali anglosassoni
sono stati costretti a fissare spesso ai fini risarcitori una somma fissa o
quanto meno determinabile con equità[97].
Si richiederebbe così una valutazione che è al di fuori della portata del
diritto, soggetta senz'altro alle opinioni personali del giudice adito e quindi
certamente non imparziale.
La giurisprudenza così si è pronunciata
negativamente in merito alla competenza di deliberare in ordine ad una
richiesta come quella avanzata dalla bambina nata malformata. La sentenza è
stata influenzata indubbiamente dal Congenital Disabilities Act del 1976[98]
che esclude i diritti derivanti da wrongful
life per tutti i bambini nati dopo
l'entrata in vigore in Inghilterra della legge 22.07.1976.
L'argomentazione riportata in sentenza
nella motivazione prende in considerazione l'assunto che i medici sottoposti a
una pressione psicologica in fattispecie simili a quella richiamata, consiglierebbero
l'aborto anche nei casi dubbi, proprio per paura di essere condannati al
risarcimento di un eventuale danno[99].
Da quanto risulta in letteratura, tale
ragionamento logico-giuridico è stato condotto anche da parte della dottrina
statunitense.
La prima sentenza riguardante la
tematica in oggetto, è stata emessa il 6 marzo 1967 dalla Supreme Court of New
Jersey[100],
relativamente al caso di una donna che si ammala di rosolia durante i primi
mesi di gravidanza e non è informata dal medico sulle possibili conseguenze che
la malattia può avere sul feto, che in realtà alla nascita presenta delle
anomalie e difetti, sia nella sfera fisica che psichica, attribuibili alla
rosolia.
La domanda di risarcimento da parte
della madre venne rigettata sulla base della motivazione secondo cui una
richiesta di indennizzo per spese e costi di mantenimento, per prendersi cura
del bambino, non era da accogliere in quanto la malformazione non era stata
causata dal medico ma dalla stessa malattia della madre, ed inoltre al tempo in
cui era verificata la vicenda, poiché l'aborto non era consentito, non esisteva
alcun mezzo per intervenire.
Per quanto concerne invece la domanda di
risarcimento del bambino, quest'ultimo non faceva valere in giudizio il fatto
che, in assenza di una condotta colposa da parte del medico, sarebbe nato privo
di malformazioni, ma la circostanza che tale condotta aveva causato la sua
nascita; dunque, egli contestava la mancata interruzione della gravidanza come
danno-evento che aveva cagionato un successivo danno-conseguenza che era da
rinvenire nella stessa nascita.
Pertanto, sulla base delle categorie
comuni della giurisprudenza inglese in materia di responsabilità civile, doveva
essere considerata, senza che avesse ciò effetti paradossali, la situazione
ipotetica in cui il bambino non fosse nato affatto.
Come più di trent'anni dopo è accaduto
con il caso Perruche, nella fattispecie richiamata, il bambino pretendeva che
la Corte si pronunciasse, nella sua valutazione, sul confronto tra un’esistenza
colpita da malformazione e una non esistenza. Tale confronto tuttavia, ad
opinione dei giudici, non era possibile[101],
in quanto non era ammissibile un riconoscimento del diritto a non nascere.
Sul punto, nel diritto statunitense, il
dibattito intorno ai casi di wronfgul
life, è stato oggetto di una serie di
sentenze che invece riconoscono la legittimità della pretesa risarcitoria del
bambino.
La giurisprudenza ha percorso tre fasi
principali che hanno condotto a loro volta ad indirizzi giurisprudenziali non
univoci; uno tra questi non ha riconosciuto alcun risarcimento del danno
ricollegabile, come si evince da una nota sentenza[102]
che ha riconosciuto una responsabilità per inadempimento dell'obbligo di
informazione da parte del medico della possibilità di sottoporsi ad
amniocentesi per accertare un'eventuale malformazione del feto.
Nel caso di specie il bambino è nato
portatore della sindrome di Down; alla madre non è stato riconosciuto alcun
risarcimento, in quanto la vita non è stata considerata un danno.
Nella sentenza Jacobs v. Theimer (S.
Court of Texas, 19.02.1975) relativa ad un’altra vicenda che vede una donna
ammalarsi di rosolia nei primi mesi di gravidanza, il medico, pur avendo
diagnosticato la malattia, accerta la gestante che non ci saranno conseguenze
sul nascituro. Tuttavia il bambino è nato con gravi malformazioni ed è morto
dopo pochi mesi.
Il risarcimento è stato riconosciuto
nonostante l'aborto, che, ai tempi in cui il caso si è presentato, non era
legale, e dunque, l'unica possibilità era quella di sottoporsi all'interruzione
della gravidanza in un altro Stato, diritto di scelta che è stato sottratto
alla gestante, che non ha potuto così impedire la nascita del bambino malato[103].
La medesima tematica[104]
è stata oggetto di pronuncia con sentenza della Corte di Appello di New York,
nella vicenda Park v. Chessin, in cui la domanda risarcitoria era stata accolta
sulla base della motivazione per cui ogni bambino ha diritto "to be born
as a whole, functionable human being"[105].
In altre vicende giudiziarie[106],
il giudice ha ravvisato il danno nel mancato obbligo di informazione da parte
del medico, e nella mancata conseguente preparazione dei genitori alle
malformazioni che avrebbero colpito il figlio in termini di capacità di
assistenza e di mantenimento.
Nello stesso tempo però, non è stato
riconosciuto il risarcimento del danno al bambino poiché la Costituzione
statunitense è basata sulla certezza che la vita con o senza malformazioni
abbia comunque un valore superiore alla non vita.
In altri casi, invece, da parte della
giurisprudenza[107]
si è ritenuto non logico dedurre sempre, come è stato sottolineato dalla Corte
Suprema della California, che in ogni caso una vita con malformazioni non sia
da preferire ad una non vita proprio in virtù dell'attribuzione al diritto alla
vita, dei principi o dei valori della inviolabilità e dell'assolutezza.
Sulla base di quanto affermato,
nell'attribuzione di valore assoluto al bene giuridico della vita, non si
scorge una significativa differenza tra i sistemi giuridici di Common Law e di
Civil Law, se non nel ragionamento e nei metodi di analisi giuridica usati; la
difformità di opinione, la mutevolezza delle pronunce giurisprudenziali,
evidenziano infatti una certa confusione nel tenta-
tivo di analizzare il problema della nascita non
desiderata e del suo risarcimento, ma nulla dicono in ordine ad una possibile
soluzione univoca del problema, lasciando irrisolti diversi interrogativi e
incrementando i dubbi non soltanto negli operatori del diritto, ma anche
pertanto in coloro che sono portatori di situazioni giuridiche soggettive
e quindi i genitori, parti attrici
delle vicende giudiziarie, e i bambini, oggetto della lesione subita.
Nel diritto moderno si è avvertita la
necessità di studiare l'individuo nella sua concretezza e di accordare alla
persona una protezione ed una tutela effettiva, per cui il diritto vivente,
oggi, estende la sua portata a considerazioni non soltanto di natura giuridica
ma anche biologica, morale e sociale.
Si dà corso difatti a processi a mezzo dei
quali, con il concorso della biotecnologia, il diritto tende a distinguere
nascita ed esistenza del soggetto, in una dimensione e in una funzione
antropologica.
Nel momento in cui un giudice è chiamato a pronunciarsi su un caso
di nascita indesiderata, sorge il problema. Basti pensare ad una sentenza del
1998 della Corte di Appello di Aix-en-Provence che ha respinto la richiesta di
risarcimento dei danni da parte di un disabile sin dalla nascita così
preferendo la non vita piuttosto che una condizione di handicap.
Da ciò si è sviluppata un’indagine del
problema che spesso mostra di non essere in relazione con il diritto vigente,
per cui sorgono dubbi da parte sia dalla giurisdizione di merito che di
legittimità nella misura in cui, al di fuori della sfera giuridica, si sconfini
nell'etica, nella religione, nella sociologia.
Ma è proprio nelle nuove e diverse
modalità di studio delle problematiche che oltrepassano l’area del diritto e
che pertanto rientrano nella sfera metagiuridica, che si nota un vero e proprio
malessere stanti le innumerevoli contraddizioni che si manifestano tra chi è
favorevole al riconoscimento del diritto del nascituro ad esistere, anche se
non sano, e tra chi invece non si muove a favore di tale riconoscimento in
quanto ritiene che sia più apprezzabile e quindi preferibile una vita sana,
normale, priva di handicap piuttosto che una vita malsana e comunque normale e
dunque non degna di essere vissuta.
Sembra necessario infine porre un
interrogativo di fondamentale importanza al fine di fugare ogni equivoco e cioè
esiste un diritto a non nascere?
All’uopo preliminarmente occorre
richiamare una pronuncia della Corte di Cassazione Civile, III Sezione Civile –
6 maggio/29 luglio 2004 n. 14488.
Si trattava di una richiesta di
risarcimento danni per la nascita di una bambina affetta da beta talassemia
eterozigote.
La madre lamentava che il sanitario, pur
prescrivendo per la gestante accertamenti per la gravidanza, sull’errato
presupposto della mancata talassemia del coniuge, non aveva avvertito circa i
rischi per la nascitura, che a seguito del parto risultava affetta da
talassemia maior, dati i caratteri ereditari di entrambi i genitori. Pertanto i
genitori decisero di esperire azione volta al risarcimento dei danni nei
confronti del medico e della compagnia assicuratrice chiamata in causa da
quest’ultimo.
La Cassazione al riguardo motivava la
pronuncia deducendo la responsabilità del medico con riguardo
all’evento-nascita collegabile alla condotta colposa del professionista che non
aveva informato la gestante in ordine all’eventuale patologia della figlia;
inoltre la Suprema Corte condannava il sanitario al risarcimento del danno non
soltanto a favore della madre della bambina
ma anche del padre, scorgendo nel rapporto tra il medico e la paziente un contratto ad effetti
protettivi nei confronti dei terzi[108].
Le ultime pronunce giurisprudenziali
dunque non rappresentano un quid pluris
rispetto al recente passato. In particolare, la citata sentenza n. 14488 del
2004[109]
non fa altro che confermare il principio secondo il quale lo scopo primario di
tutela della personalità psico-fisica della donna secondo i dettami della legge
n. 194/78, è insito in un percorso normativo che si pone nettamente a favore
della vita del nascituro.
Se
la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, il diritto a non
nascere sarebbe privo di titolare sino alla nascita del soggetto il che sarebbe
una evidente contraddizione.
La
contrattualizzazione del rapporto gestante - paziente operata in tempi recenti
tramite il ricorso alla categoria del contratto con effetti protettivi del
terzo di origine tedesca incontra non poche difficoltà non riuscendo così a
risolvere la problematica relativa alla condotta del medico ritenuta omissiva
nel momento in cui sia mancata l’esecuzione del suddetto contratto.
Va
infine posto in evidenza il problema all’esistenza o meno di un diritto di
“eutanasia prenatale” scorgendosi l’esigenza di determinare se sia o meno
lecita, come sopra evidenziato, una condotta che possa avere come effetto la
mancata nascita del concepito e se questa possa essere fonte di un danno
ingiusto.
La
Corte Suprema di Cassazione, consapevole della entità di tale dibattito
dottrinale, ha ribadito l’inammissibilità dell’aborto eugenetico, non essendo
concepibile nel nostro ordinamento giuridico, alla luce di quanto sopra
affermato, un diritto a non nascere.
* Dottorando di ricerca in Diritto dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente presso l’Università degli studi di Palermo.
[1] Trib. Milano, sez. VII, 20/10/1997, con nota di M. Bona, Filiazione indesiderata e risarcimento del “danno da bambino non voluto”, in Danno e responsabilità, 1999, 1, 82 ss. e in Resp. civ. e prev. 1998, 1145, con nota di M. Gorgoni.
[2] Cass. sez. IV Pen., 13 novembre 2000 n. 11625 in Corriere Giuridico, n. 3 del 2001, pag. 348, con nota di P. Morozzo Della Rocca secondo il quale il concepito costituisce un “già e non ancora”, rispetto al quale si tende a porre l’accento talvolta sul “già” e altre volte sul “non ancora”.
[3] Olivier Cayla e Yan Thomas, Il diritto di non nascere, Giuffrè Editore, Milano 2004, pag. VIII e ss. con considerazioni introduttive di Busnelli.
[4] Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli 2000, pag. 153 e ss..
[5] Ex pluribus, Sent. Trib Padova, 9.8.85, che costituisce il “leading-case” in materia. Nel caso di specie fu accolta la domanda di risarcimento del danno ad una minorenne che si era infruttuosamente sottoposta ad un’interruzione volontaria della gravidanza. Il danno fu riconosciuto e determinato in relazione ai costi di mantenimento e di educazione del figlio; il Tribunale ha fondato il diritto al risarcimento sul presupposto che era stato violato il diritto all’autodeterminazione in materia procreativa, causato dall’inadempimento dell’obbligo di informazione da parte del medico.
Così Trib. Cagliari, 23.2.95; App. Bologna, 19.12.91, che hanno accordato il risarcimento del danno sulla base della nascita, conseguente ad inadempimento del medico, in un momento non desiderato.
[6] Cass., Sez. Un., 1.7.2002 n. 9956 secondo la quale il complesso ed atipico rapporto tra la struttura sanitaria ed il paziente (partoriente) non si risolve nella fornitura di prestazioni di natura alberghiera e quindi di vitto ed alloggio ma consiste nella messa a disposizione di personale medico e paramedico, dell’apprestamento di medicine ed attrezzature necessarie a garanzia del diritto alla salute del paziente.
Contra: Cass. n. 2678/1998, che scorge nel rapporto contrattuale tra sanitari e paziente soltanto una mera obbligazione strictu sensu terapeutica.
[7] Tribunale Padova 9 agosto 1985 in Nuova Giur. Civ. Comm., 1986, I, pag. 115, con nota di P. Zatti, e in Foro It. 1986, I, c. 1995 con nota di V. Zeno Zencovich, Responsabilità e risarcimento per mancata interruzione della gravidanza.
R. Breda, Wrongful birth, in Critica del danno esistenziale, a cura di G. Ponzanelli, Padova 2003, pag. 118.
[8] Sentenza Cass. 8 luglio 1994, n. 6494 relativamente al comportamento negligente del medico che non ha informato la gestante prima che fosse dimessa dall’ospedale, della necessità di attendere il risultato dell’esame per avere la certezza dell’esito positivo dell’intervento interruttivo.
[9] Sentenza Cass. 8 luglio 1994, n. 6494.
[10] Gorgoni, I danni alla persona, in Il danno risarcibile, a cura di G. Vettori, vol. 1°, Cedam.
[11] La Corte di Appello di Cagliari con pronuncia del 12.11.1998, statuisce che la struttura sanitaria da cui dipende il medico che ha eseguito l’intervento, è tenuta al risarcimento dei danni a favore della gestante ove risulti provato il danno alla salute o il serio pericolo per essa.
[12] Rossetti, Errore, complicanza e fatalità: gli incerti confini della responsabilità civile in ostetricia e ginecologia, in Danno Resp. 2001, pag. 14 e ss..
[13] Bianca, Commentario alla legge 25.05.1978 n. 194, Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, a cura di C.M. Bianca e F.D. Busnelli, in Nuove leggi civili commentate, 1978, pag. 1593.
[14] Venezia, Corte di Appello 23.07.1990.
[15] De Matteis, La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, Padova 1995.
[16] Cass. 24.03.1999 n. 2793.
[17] B. Edelman, La personne en danger, Parigi, 1998.
[18] Ceccherini Loi Santilli, L’art. 32 nella giurisprudenza costituzionale, in “Tutela della salute” a cura di Busnelli e Breccia, Milano 1978.
Bessone, Rocco, Diritto soggettivo alla salute ed applicabilità diretta dell’art. 32 della Costituzione, in Pol. Dir. 1974.
[19] Vedi Foro It., 1979, I, 2302, con nota di Lener ; Giur. it., 1980 fasc. 5 con nota di Salvi; Giust. civ., 1980, I, 357 con nota critica di Piga.
[20] Cerqueti, Genesi ed evoluzione del risarcimento dei danni da lesione del diritto alla salute e di altri diritti della personalità, in Vita not., 2003, I, Parte III, LIII.
[21] AA.VV., Un bambino non voluto è un danno risarcibile?, a cura di A. D’Angelo, in L’alambicco del comparatista, Collana diretta da M. Lupoi, Milano 1999; P. G. Monateri, La marque de Cain, La vita sbagliata, la vita indesiderata e le reazioni del comparatista al distillato dell’alambicco. R. De Matteis, Danno esistenziale e procreazione,pag. 135 e ss, 2004
[22] Vedi Trib. Padova, 9.08.1985 con nota di Zatti in Nuova giur. civ. comm. 1986, 1, 115; Trib. Cagliari, 22.02.1995, in Nuova giur. civ. comm. 1995, 1, 1107.
R. De Matteis, La responsabilità medica. Il sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1995, con riferimento alla ipotesi di responsabilità della struttura sanitaria per violazione dell’obbligo di informazione del paziente in un’ipotesi in cui il medico, responsabile dell’intervento non era stato individuato. Vedi R. De Matteis, Consenso informato e responsabilità del medico, in D. Resp. 1986, 215.
[23] Trib. Piacenza, 31.07.1950, in Foro it. 1951, I, 1987.
[24] Vincenzo Zeno-Zencovich, La responsabilità per procreazione, in Giur. it., 1986, pag. 113 e ss..
[25] M. Palmieri, Sulla responsabilità civile per infermità trasmesse alla prole mediante la generazione, in Justitia, 1953, 26.
L. Mengoni, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, in Riv. Trim. Dir. e Proc. Civ., 1982.
G. Galli, L’interruzione volontaria della gravidanza, Milano 1978.
[26] Ex
pluribus, Comment, Wronful life and a
Fundamental right to be born healthy: Park v. Chessin, Becker v. Schwartz,
27, Buf. L. Rev. 537, 1978. Sic. Comment, Wronful
life and Wronful Birth Causes of Action: Auggestions for a Consistent Analysis,
63, Marq. L. Rev. 611, 1980, “Wrongful life“: The
right Not to Be Born, 54 Tul. L. Rev. 480, 1980.
[27] Appellate Court of Illinois, 3.4.1963, in 190 NE, 2ª ed., 849, v. Mangini, Un nuovo caso di "danno di procreazione", Riv. dir. civ., 1964, II, 609.
[28] Sul punto vedi V. Zeno-Zencovich, op. cit., che osserva che nella sentenza la questione essenziale è data dal nesso causale tra la condotta illecita e l'evento dannoso, e cioè secondo il principio della regolarità causale tra gli eventi.
[29] D'Angelo, Wrongful birth e Wrongful life negli ordinamenti inglese ed australiano, pag. 155 e ss.
[30] District Court Alabama, 21.03.1994, Basten, v. United States of America, in Un bambino non voluto è un danno risarcibile?.
[31] Supreme
Court of California, 3.5.1982, Turpin v.
Sortini e Court of Appeals of California, 11.6.1980, Curlender v. Bio-Science Laboratories.
[32] Decisione della Corte Suprema americana sul caso Roe v. Wade del 1972 con cui è stata riconosciuta la legittimità costituzionale della interruzione della gravidanza entro i primi tre mesi.
[33] Appello Venezia, 23.7.1990 in Riv. It. Med. Leg. 1991, 1321 con commento di Zanchetti, Il danno ingiusto conseguente alla mancata interruzione della gravidanza, Appello Bologna, 12.12.1991, in Arch. Civ. 1992, 295 e in Dir. Fam. 1993, 1081 con commento di Cei, La tutela della salute e il padre del concepito.
[34]
M. Bona, Filiazione indesiderata e risarcimento del danno da bambino non voluto,
in Danno e resp. 1999, 1, 82 ss.; Cass. Civ. 8.7.1994 n. 6424 con nota di
Gorgoni in Resp. Civ. e Prev. 1994, 1029, Il
diritto di programmare la gravidanza e risarcimento del danno per nascita
intempestiva.
[35] Tribunale di Milano 14.5.1998 in Resp. Civ. Prev. 1998, 1623, con nota di Maglione, Libertà di autodeterminazione e consenso informato all'atto medico: un'importante sentenza del Tribunale di Milano.
[36] Cassazione 8.7.1994 n. 6494, Cg. 1995, 91.
[37] Tribunale di Cagliari 23.5.1995; App. Bologna 19.12.1991; Tribunale di Verona 15.10.1990.
[38] Sic, Cass. 8.7.1994 n. 6464.
[39] Cfr. Bverfg, I Sez., 12 novembre 1997, in Danno e Responsabilità 1998, 419, con nota di Brunetta D'Usseaux.
[40] Castronovo, Danno biologico, cit. pag. 43 ss.; Ponzanelli, Il risarcimento del danno meramente patrimoniale nel diritto italiano, in Danno e Responsabilità, 1998, pag. 729; Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, Torino 1996.
[41] Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, Sentenza 30 ottobre 2003, in Diritto e Giustizia, n. 23, 12 giugno 2004, pag. 74 e ss.
[42] Orrù, Tribunale di Cagliari 23.2.1995, in Nuova Giurisprudenza Civile Comm. 1995, 1, pag. 1107 e in Resp. Civ. 1995, pag. 599 con nota di Gorgoni, Riv. It. Med. Leg. 1996, pag. 945, Nuovi spunti in tema di danno derivante dal fallimento di interruzione volontaria della gravidanza.
[43] Cass .Civ 1-12-1998 n. 12195, in Foro it. 1999, 77, ed, in particolare, la decisione dei Giudici di legittimità che si sono pronunciati a favore della risarcibilità dei danni alla salute subiti non soltanto dalla madre ma anche dal padre del bimbo nato con grave handicap, questi ultimi configurabili come danni riflessi alla lesione del diritto della madre ad interrompere la gravidanza; G. Criscuoli, Ragionevolezza e consenso informato del paziente, in Ras. Dir. Civ. 1985, 480.
[44] Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., Napoli, 2153 ss..
[45] B.G.H. 8 luglio 1994.
[46] B.G.H. 25 febbraio 1992, che riguarda un caso di interruzione di gravidanza senza esito positivo; la Corte tedesca non ha accolto la richiesta di risarcimento delle spese di mantenimento del bambino. Le suddette spese infatti che i genitori hanno affrontato a seguito della nascita del bambino non sono stati giudicati come comportanti un danno risarcibile.
[47] Trib. Busto Arsizio 17.07.2001, in R.C.P. 2002, pag. 441 e ss..
[48] Sul punto vedi F. Bilotta, La nascita non programmata di un figlio e il conseguente danno esistenziale, in Resp. Civ. e Prev., 2002, pag. 446 e ss..
[49] M. Bona: Vasectomia e il diritto alla procreazione cosciente o responsabile: la questione (risolta) della liceità penale e civile, in D.R. n. 1/1999, pag. 88 e ss..
[50] G. Criscuoli, Il problema del risarcimento del danno da procreazione "non programmata": le risposte della giurisprudenza di common law, in Ras. Dir. Civ. 1987, 442-464, laddove si distingue da parte dell'illustre autore tra wrongful birth e wrongful life.
[51] Favale, Genitori contro volontà e risarcimento per i danni da nascita, commento a Bundesgerichthof, sez. VI, 15.02.2000, in Dan. e Resp. 2001, pag. 481-489.
[52] Princigalli, Quando la nascita non è un lieto evento. Una nuova frontiera nell'errore medico, in Riv. Crit. Dir. Priv. 1984, 833 e ss., Navarretta, Il diritto a nascere sani e la responsabilità del medico, in Resp. Civ. Prev. 1990, 1059.
[53] De Cupis, I diritti della personalità, Milano 1982, pag. 117; Introna, La sterilizzazione consensuale senza necessità terapeutica, costituisce lesione personale gravissima, in Riv. It. Med. Leg. 1981, 526; Coviello, La sterilizzazione in relazione alla salute e alla dignità della persona, in Dir. Fam. e Pers. 1980, pag. 905 e ss..
[54] Dogliotti, La Corte Costituzionale riconosce il diritto alla identità sessuale, in Giur. It. 1987, I, 235 e ss.; Mazzoni, La bioetica ha bisogno di norme giuridiche, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ. 1998, 285 e ss..
[55] Costanza, Informazione del paziente e responsabilità del medico, in Giust. Civ. 1986, I, 1436; Romano, Considerazioni in tema di responsabilità
contrattuale del medico per violazione del dovere di informazione, in Giur. It. 1987, I, 1, 1135.
[56] A. D’Adda, I nuovi assetti del danno alla persona: dal danno biologico al “danno esistenziale” in Resp. civ. e prev., 2002, pagg 357–359.
[57] Sherlock contro Stilwater Clinic (Supreme Court Minnesota 14.10.77), noto caso di un uomo che diviene padre per l’ottava volta a seguito di fallito intervento operatorio.
[58] Sic, Tribunale di Roma, 13.12.1994 in D.F. 1995, 662; Cass.1.12.1998 n. 12195 in G.I. 1999, I, 2038 e Trib. Perugia 7.9.1998 in Foro it. 1999, I, 1804.
[59] Cassazione 10.5.2002 n. 6735.
[60] Cass. 1.12.1998 n. 12195.
[61] Zatti, Diritti dell'embrione e capacità giuridica del nato, in Riv. Dir. Fam. 1997, 107.
[62]
Pinori, Contratto con effetti protettivi a favore del terzo e il diritto a
nascere sano, in Giur. it. 1995,
I, 1, 317.
[64]
Cass. 22.11.1993 n. 11503 in Giur. it.
1994, I, 1, 1550 con nota di Carusi, Responsabilità
contrattuale ed illecito anteriore alla nascita del danneggiato;
Con riferimento al caso della morte del genitore all'epoca in cui il nascituro era soltanto concepito ma attraverso un procedimento di interpretazione estensiva, vedi Cass. pen. sez. IV, 13.11.2000, in R.C.P. 2001, 327 con nota di Miotto, Il danno del nascituro e (molto) altro in una pronuncia della Cassazione Penale: un'occasione per riflettere sulla svolta giurisprudenziale in tema di struttura dell'illecito civile.
[65] Ferrando, Libertà, responsabilità, procreazione, Padova 1999, 229.
[66] Busnelli, Prima della nascita: quid iuris?, Bioetica e diritto privato (frammenti di un dizionario), Torino 2001.
[67] Carnelutti, Nuovo profilo dell'istituzione dei nascituri, Foro it., 1954, IV vol..
[68] G. Gambino, Diagnosi prenatale. Scienza etica e diritto a confronto, Ed. Scientifica Italiana, Napoli 2003, pag. 125 e ss..
[69] G. Gambino, op, cit., pag. 139.
[70] Tribunale di Roma 13.12.1994.
[71] Tribunale penale Locri 05.10.2000 in R.C.P. 2001, 409, con nota di Ziviz, Danno biologico e danno esistenziale: sovrapposizioni e parallelismi.
[72] Cassazione 10.05.2002.
[73] L. Lenti, Famiglia e danno esistenziale, in Il danno esistenziale, cit. 255-264; G.B. Petti, Il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale alla persona, Torino 1999.
[74] Vedi anche Cass. sez. I civ. 10.01.2000/07.01.2000 n. 7713.
[75]
De Cupis, Il valore economico della persona umana, in R. Trim. Proc. Civ. 1956, pag. 1264 e ss..
[76] Cass. Ass. Clen. 17.11.2000, in J.C.P., 2000, II, 10438; sic Cass. Ass. Clen. 13.07.2001, in J.C.P., 2001, II, 10601.
[77] Così R. De Matteis, Danno esistenziale e procreazione, pag. 135 e ss., 2004.
[78]
Cass. Pen. Sez. Unite, Sentenza n. 30328
depositata l'11.09.2002, che testualmente motiva: "Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio
controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o
di una legge scientifica - universale o statistica -, si accerti che,
ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva
dell'evento hic et nunc, questo non
si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato me in epoca
significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.
La conferma
dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale non può essere
dedotta automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge
statistica, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto,
sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza disponibile, così che,
all'esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l'interferenza
di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa al
conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria
dell'evento lesivo con «alto o elevato grado di credibilità razionale» o
«probabilità logica».
L'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del giudizio".
[79] Zeno-Zencovich, La sorte del paziente. Irresponsabilità del medico per l'errore diagnostico, Cedam 1994;
Vedasi anche: Stella, Leggi specifiche e spiegazioni causali nel diritto penale, Milano 2000.
[80] Cass. 12.05.1983 in Cassazione Penale 1984, 1142.
[81] Cacace, L'omissione del medico e il rispetto della presunzione di innocenza nell'accertamento del nesso causale, in Danno e resp., 195-205.
[82] Cass. Sez. IV Pen. 28.11.2000, in Dir. Pen. Proc. n. 3/2002, 311 e ss..
[83] Cass. Civ. 16.11.1988 n. 6220, in Giust. Civ. Mass. 1988, 1490.
[84] Adragna, Osservazioni sull'evoluzione giurisprudenziale circa l'applicabilità dell'art. 1226 c.c. al contratto d'opera contrattuale, in Giur. Cass. GC 65.
[85] Cassazione Sez. III Civ., sentenza 7 novembre 2003– 19 maggio 2004, n. 9471.
[86] Liserre, In tema di danno prenatale, in R.D.C. 2002, I, 97. Cfr. al riguardo anche cenni di Carnelutti, op. e loc. cit.
[87] Carusi, op. cit.
[88] Baldini - Cassano, Persona, biotecnologie e procreazione, Milano 2002, 59 e ss..
[89] Busnelli - Patti, Danno e responsabilità civile, Torino 1997, 277.
[90] Princigalli, Nascere infermo o non nascere: quale tutela per il nuovo nato?, in R.C.D.P. 2001, 675.
[91] Vedi art. 2059 c.c. in linea con i recenti orientamenti giurisprudenziali.
[92] C. Labrusse - Riou e B. Mathieu, La vie humaine comme prejudice?, in Le Monde, 24 novembre 2000.
[93] B.
G. H. Z. 86, 240, 347 e ss..
[94] Olg
München in N. J. W. 1981, 2012 e ss..
[95] Stevenson,
The Weekly Law Report, 1982, 904.
[96] Stevenson,
op. cit..
[97] Vedi
Bentham v. Gambling.
[98] Direttiva
della Law Commission in Law Commission
Report in Injuries to Unborn Children,
1974.
[99] G.
G. Sarno, Tort Liability for Wrongfully
Causing One To Be Born, in American
Lae Reports, Cases and Annotations,
83, 15 e ss.;
H.
Teff, The Action for "Wrongful
Life" in England an the United States, in International and Comparative Law Quarterly, 34, 423 e ss..
[100] Gleitman
v. Cosgrove, 227 A. 2 d 689, 22 A. L.R.3 d 1411(New Jersey).
[101] Faerber,
Wrongful life, 47 e ss..
[102] Azzolino
v. Dingfelder, Supreme Court of North Car., 10.12.1985.
[103] In altre sentenze, è stata invece riconosciuta la legittimità della pretesa risarcitoria del bambino. Ad esempio, così si è pronunciata la Corte Suprema della California nei casi Turpin v. Sortini e Curlender v. Bio-Science Laboratories; al medesimo risultato e cioè di riconoscimento pieno alla domanda risarcitoria del bambino, si è giunti attraverso l’orientamento seguito dalla Corte Suprema del New Jersey, relativamente al caso Procanik v. Cillo e al caso Roe v. Wade U.S. Supreme Court.
[104] Per quanto riguarda invece la sentenza della Corte Suprema della Pennsylvania, Speck v. Finegold, non è stato riconosciuto alcun diritto al risarcimento, sulla base che non sussiste una possibilità di scelta di non essere partoriti e che comunque il riconoscimento di un tale diritto andrebbe contro uno dei compiti fondamentali dello Stato che è la tutela della vita umana. Ad esempio: Corte Suprema dell'Alabama, Elliot v. Brown, 361, So. 2 d 546, Alabama, 1978.
[105] Park
v. Chessin, 387, N.Y. S. 2 d, 204.
[106] Corte Suprema del New Jersey, Gleitman v. Cosgrove, 227, A. 689.
[107] Vedi Corte Suprema della California op. cit.
[108] Cass.Civ. 22.05.-1.12.1998 n. 12195 in Guida al diritto n. 8/1999 pag. 73 in cui rileva tralaltro la questione se il danno patito da un congiunto possa in via indiretta estendersi all’altro coniuge; App. Lecce 11-3-2000 secondo cui la responsabilità del medico è da valutare ai sensi dell’art.1176, II comma e non a norma dell’art.2236 c.c.
[109] Cfr. anche Sent. Trib. Reggio Calabria 31/3/2004 in Danno e resp. 2005 con nota di A.L. Bitetto, Wrongful birth”: Diritti dei genitori e assistenza tempestiva al figlio disabile” pronuncia che estende l’area della tutela risarcitoria nei confronti di entrambi i genitori. Tale pronuncia rileva soprattutto per l’obbligazione contrattuale del medico di effettuare le opportune indagini diagnostiche prenatali al fine di prevenire e curare la patologia genetica al fine di circoscrivere i danni per il concepito; Sent. Trib. di Palermo 3/3/2003 in Danno e resp., 2003, 671, con nota di Carbone, Responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto; Cass. 10 maggio 2002 n. 6735 in Foro It., 2002, I, 3115, con nota di Simone, Nascita indesiderata: il diritto alla scelta preso sul serio;
Contra, Cass. Civ. 24 marzo 1999, n. 2793 in Danno e resp., 1999, 766 con nota di M. Gorgoni, Interruzione volontaria della gravidanza tra omessa informazione e pericolo per la salute della partoriente, secondo cui l’inadempimento dell’obbligo di informazione della paziente di per sé non è giuridicamente rilevante ai fini del risarcimento del danno, nel caso in cui la paziente non dia prova della sussistenza delle condizioni previste dall’art. 6 della L. n. 194/78.
Data di
pubblicazione: 20 settembre 2005