Strumenti di soluzione concordata della crisi
d’impresa.
Note a margine del convegno di studi sulla
“Privatizzazione delle procedure concorsuali e
tutela dei creditori”
Messina, 31 marzo 2006.
Antonio Zabbia*
Accelerazione e semplificazione delle procedure
concorsuali, ampliamento degli strumenti di soluzione concordata della crisi
d’impresa, ridimensionamento del ruolo e dei poteri dell’autorità giudiziaria,
ma anche il rafforzamento dei poteri del curatore e la valorizzazione del ruolo
del comitato dei creditori.
Questi alcuni degli aspetti più innovativi, ma
anche controversi, della recente riforma della legge fallimentare, che sono
stati oggetto di una approfondita e stimolante riflessione condotta in
occasione del convegno di studi- svolto presso l’Università degli studi di
Messina- sul tema della “Privatizzazione delle procedure concorsuali e tutela
dei creditori”.
L’analisi delle nuove norme in materia fallimentare,
autorevolmente condotta dai relatori che vi hanno partecipato, si inserisce in
quel più ampio dibattito che, in attesa dell’imminente entrata in vigore delle
nuove disposizioni, ha animato e continua opportunamente a coinvolgere tutti
gli operatori del materia commercial-processualistica, dagli esponenti del
mondo accademico, agli operatori della realtà giudiziaria.
L’incontro è stato articolato in due sessioni: nella
prima, coordinata dal Professore Concetto Costa, si sono susseguite le
relazioni dei Professori Paolo Spada, Maurizio Sciuto e Lino Guglielmucci; nella
seconda, sotto la direzione del
Professore Giuseppe Terranova, la discussione si sviluppata intorno alle
relazioni del Prof. Francesco Guerrera, del Prof. Michele Perrino e del Prof.
Girolamo Bongiorno.
Le relazioni svolte, che hanno fornito spunto a queste
brevi note, hanno sollevato le molteplici questioni nonché alcuni dei profili
più significativi della nuova disciplina che si appresta ad entrare in vigore.
Il travagliato percorso legislativo, che ha
condotto ad una profonda innovazione
della disciplina delle procedure concorsuali contenuta nel R.D. 16 marzo 1942,
n. 267, è, infatti, giunto a compimento.
Col D.Lgs. 9 gennaio 2006, n.5, pubblicato nella
S.O. n. 13 alla G.U. n. 12 del 16 gennaio 2006, il Governo ha dato attuazione
alla delega contenuta all’art. 1, comma 6, lettera a,b,c, della legge 14 maggio
2005, n. 80, varando “la riforma organica delle procedure concorsuali”.
Tralasciando di approfondire in questa sede i
diversi progetti di riforma che redatti dalle Commissioni parlamentari
succedutesi nel tempo non hanno mai visto la luce (tra questi, ad esempio, lo
schema di disegno di legge redatto dalla commissione Travisanato, istituita con
decreto ministeriale 27 febbraio 2004 dal Ministro di giustizia, che proponeva
gli interventi più innovativi), occorre, invece, rilevare che il provvedimento
legislativo citato costituisce il momento finale di un processo riformatore
sviluppatosi in due fasi successive.
Il primo intervento riformatore è stato attuato col
decreto legge 14.03.2005, n. 35, recante “disposizioni urgenti nell’ambito del
piano di azione dello sviluppo economico” (c.d. decreto sulla competitività
delle imprese), entrato in vigore il 17 marzo 2005 e convertito, con alcune
modifiche, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80.
Una scelta, quella del decreto legge quale
strumento normativo per introdurre le prime modifiche alla legge fallimentare, che
è apparsa a molti (per tutti m. arato,
il diritto fallimentare e delle societa’ commerciali, vol lxxxxi, 2006,157 e seg.)
anomala e criticabile, e che ha sollevato dubbi sulla stessa sussistenza di
quei requisiti di “necessità ed urgenza” che l’art. 77 Cost. pone quale
indefettibile presupposto per l’esercizio del potere di legiferare per decreto.
Con tale provvedimento normativo il Governo ha
apportato alcune modifiche dirette alla legge fallimentare (R.D. 267/1942).
Il Legislatore, in particolare, è intervenuto sugli
artt. 67 e
Se per un verso il Legislatore ha mantenuto
l’impianto originario dell’istituto, conservando la tradizionale distinzione
degli atti revocabili in “atti anormali” ed “atti normali”, per altro verso ha
apportato significative modifiche circa gli stessi atti soggetti a revoca,
dimezzando la fase temporale del c.d. “periodo sospetto”, individuando nella
misura di “oltre un quarto” la
sperequazione minima tra il valore delle prestazioni necessaria ai fini
dell’applicazione della stessa norma ed ampliando i casi di esenzione
dall’azione revocatoria, che vengono per la prima volta specificatamente enucleati
ed elencati al terzo comma dell’art.67; una previsione, quella dei casi di
esenzione, che per l’ampiezza delle fattispecie previste dalla legge e per il
coinvolgimento soltanto di alcune categorie di creditori non ha mancato di sollevare dubbi circa il rispetto del
principio della parità di trattamento.
Ed ancora, nell’ambito di questo primo intervento
sulla materia concorsuale, il Legislatore ha profondamente innovato la
disciplina contenuta negli artt. 160, 161, 163, 167, 180,
L’ulteriore intervento riformatore è stato rimesso
al Governo con la delega, contenuta all’art 1, c. 6 della stessa legge di
conversione 14 maggio 2005, n. 80, da
esercitare entro 180 giorni.
Ed anche tale soluzione non ha mancato di sollevare
forti perplessità tra i primi interpreti, e per le modalità stesse con cui la
delega è stata conferita, essendo stata inserita in un maxiemendamento al
decreto legge 35/2005, poi convertito con una deliberazione delle Camere sulla
quale il Governo ha posto la fiducia, e
per stessa la genericità delle disposizioni di delega.
Approvato dal Consiglio dei Ministri lo schema di
decreto legislativo, successivamente sottoposto all’esame delle Commissioni
Parlamentari competenti, acquisiti i relativi pareri, in attuazione della
delega conferita, col D.Lgs. 9 gennaio 2006, n.5, il Governo ha dato alla luce l’attesa “riforma
organica delle procedure concorsuali”.
Il legislatore delegato, per altro, ha espressamente
differito (art.
Non è questa la sede per esporre in rassegna le
molteplici innovazioni che caratterizzano le nuove disposizioni in materia
fallimentare.
Mi preme invece richiamare alcune delle tematiche,
in principio già indicate, sulle quali
si è volta l’attenzione dei relatori.
Il filo conduttore che lega le questioni esaminate,
in armonia d’altronde con le intenzioni degli organizzatori del convegno, pare
rintracciabile in quella dimensione “negoziale” che sotto diversi profili sembra
emergere nella nuova disciplina delle procedure concorsuali.
Se il sistema concorsuale tradizionale si
caratterizzava per uno stretto controllo della procedura da parte del tribunale
fallimentare e del giudice delegato, nell’impianto della riforma tende ad
emergere una forte attenuazione del carattere giurisdizionale delle procedure
concorsuali, con un significativo ampliamento, tra l’altro, delle possibilità
di regolare la situazione di insolvenza dell’imprenditore, od anche solo di
crisi, attraverso diverse tipologie di accordi con i creditori, rispetto ai
quali il ruolo del giudice appare appunto ridimensionato ed in alcuni casi solo
eventuale.
La nuova regolamentazione in materia di accordi con
i creditori è stata introdotta già in occasione del primo intervento riformatore,
attuato col D.L. 35/2005.
Il carattere della privatizzazione delle procedure
di insolvenza e crisi dell’impresa, che permea di se il nuovo modello
concorsuale, emerge, con intensità variamente modulata, nei diversi strumenti
di composizione concordata della crisi previsti dalla Legge Fallimentare
riformata.
Appare massima nel nuovo istituto del “concordato
stragiudiziale” richiamato all’art. 67, co 3, lett.d, che prevede espressamente l’esenzione da
revocatoria per “gli atti, pagamenti e garanzie, concessi su beni del debitore,
purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire
il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il
riequilibrio della sua situazione finanziaria, e la cui ragionevolezza sia
attestata ai sensi dell’art. 2501 bis comma 4 cod. civ.”.
Il piano deve quindi essere accompagnato dalla
relazione di un esperto chiamato “ad attestare la ragionevolezza del contenuto
del concordato stragiudiziale al fine di eliminare lo stato di insolvenza e di
consentirne la sua esecuzione” (cfr. m.arato,
idem, 176), certificazione che costituisce condizione per
l’esenzione da revocatoria di tutti i pagamenti previsti nel piano e compiuti
per la sua esecuzione.
Un piano, dunque, unilateralmente proposto dal
debitore, senza che sia prevista la partecipazione dei creditori, nell’ambito
di una procedura di carattere non giudiziale, dalla quale rimane estraneo un
controllo da parte dell’autorità giudiziaria volto ad accertarne l’idoneità ad
eliminare l’insolvenza.
Lo spazio per un controllo da parte degli organi
giurisdizionali si aprirebbe, si legge nel parere
sulla riforma della legge fallimentare approvato dal plenum del csm il 10-11-
Tra i nuovi strumenti volti a favorire una
soluzione concordata della crisi d’impresa si inserisce anche quello degli
“accordi di ristrutturazione dei debiti”, previsti e disciplinati all’art. 182
bis della L.Fall.
Dalla formulazione della norma non emerge in modo
chiaro se tali accordi debbano qualificarsi come “procedura autonoma rispetto
al nuovo concordato preventivo ovvero ne costituiscano una modalità di
attuazione, una sorta di concordato semplificato sul modello della prepackaged
bankruptcy americana” (b. ianniello, il
nuovo diritto fallimentare, giuffrè, 2006).
L’accordo,
che può essere stipulato con i creditori che rappresentano almeno il 60% dei
crediti, deve essere depositato dal debitore unitamente alla documentazione
relativa al concordato preventivo, e corredato da una relazione redatta da un
esperto sull’attuabilità dello stesso “con particolare riferimento alla sua
idoneità ad assicurare il pagamento dei creditori estranei”.
L’accordo diviene efficace sin dalla sua
pubblicazione nel registro delle imprese; momento dal quale la norma, in modo
censurabile sotto il profilo della tutela del diritto di difesa, fa decorrere il
termine di trenta giorni entro i quali i creditori ed ogni altro soggetto
interessato possono proporre opposizioni. Su di esse decide il Tribunale, prima
di procedere alla eventuale omologazione dell’accordo con decreto motivato.
L’operatività di tale strumento di ristrutturazione
concordata dei debiti rivela dunque una maggiore caratterizzazione
giurisdizionale, emergente soprattutto in caso di opposizioni, seppur limitata
alla fase dell’omologazione e non anche a quella del controllo dell’attuazione
dell’accordo.
Certa dottrina sembra però escludere, soprattutto
in assenza di opposizioni, che il giudizio di omologazione possa investire “il
merito delle scelte assunte dall’imprenditore e dal ceto creditorio”, (cfr. b. ianniello, idem, 416); il tribunale avrebbe solo il
potere di esercitare un controllo di legalità
formale, sulla regolarità dell’iter
procedimentale, e non sui profili sostanziali dell’accordo.
La disposizione regolatrice non specifica quali
siano le finalità di tali accordi, se strumenti aventi l’obiettivo del
salvataggio delle imprese, anche solo in crisi, o della loro liquidazione, né specifica
i presupposti, rilevando invece che l’accordo sia idoneo a consentire un rapido
risanamento dell’esposizione debitoria. Tale aspetto, per altro, finisce per
incidere sugli stessi poteri di controllo sull’accordo che il tribunale viene
ad esercitare in sede di omologazione. Ed è stato dunque rilevato che “al tribunale non interessa la
ragione per cui l’imprenditore si è deciso all’accordo, ma soltanto che questi
rispetti le condizioni di legge, demandando ai soli creditori il giudizio di
convenienza dello stesso, in una logica esclusivamente privatistica” (cfr. b. ianniello, idem, 416).
Analogamente la norma non definisce contenuto,
oggetto e limiti dei patti, lasciando all’autonomia delle parti ampio spazio
per la conclusione di accordi di varia natura e contenuto negoziale eterogeneo:
dalla transazione (novativa e non), al pactum
de non petendo, alla cessione dei beni ai creditori (cfr. m. arato, idem, 173).
Segno ulteriore del favor manifestato dal legislatore per l’adozione di tale strumento
di regolazione negoziale della crisi d’impresa si coglie alla luce della nuova
disciplina in materia di revocatoria fallimentare, ed in particolare della
disposizione di cui all’art.67 comma 3, lett. e, la quale prevede che gli atti,
i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione degli accordi di ristrutturazione
di cui all’art. 182 bis, sono esentati da revocatoria, purché l’accordo venga
omologato (diversamente, per i creditori rimasti estranei all’accordo, da
pagare integralmente, per i quali i pagamenti ricevuti saranno assoggettabili a
revocatoria in caso di successivo fallimento).
Tra gli interventi riformatori attuati con
La procedura è stata profondamente riformata tanto
sotto il profilo sostanziale, dei presupposti di ammissione, quanto sotto
quello procedurale, di approvazione ed attuazione della proposta.
Sotto il profilo sostanziale, il primo dato che si
palesa all’attenzione dell’interprete attiene al presupposto oggettivo della
procedura medesima, ora individuato nello “stato di crisi” e non più in quello
di “insolvenza”, previsto dalla normativa previgente.
L’ambiguità dell’espressione utilizzata dal legislatore,
accompagnata dalla mancanza di ogni intervento definitorio, ha determinato, sin
dall’entrata in vigore delle nuove norme, il sollevarsi di non pochi dubbi
sulla sua reale portata.
L’interrogativo che si sono posti già i primi
commentatori è se lo “stato di crisi”, cui fa riferimento la nuova
disposizione, debba essere inteso solo in termini di una situazione di
“temporanea difficoltà”, che precede l’insolvenza e dunque connotata da
reversibilità, o se esso debba anche comprendere l’insolvenza in senso stretto,
presupposto oggettivo del fallimento.
Tanto la dottrina, quanto la giurisprudenza hanno
formulato diverse interpretazioni della norma, manifestando apertura per
entrambe le soluzioni (cfr. in particolare, in senso favorevole all’inquadramento
dello stato di insolvenza nella “situazione di crisi”, Trib. Bari, decreto 21
nov. 2005, Trib. Pescara sent. 13 ottobre 2005; Trib. Sulmona, 6 giugno 2005;
in senso contrario, Trib. Treviso decreto 22 luglio 2005).
La questione è stata recentemente risolta dal Legislatore (art. 36, D.L. 30 dicembre
2005, n.273, convertito dalla Legge 23 febbraio 2006, n.51) che ha introdotto
un ulteriore comma all’art. 160, stabilendo espressamente che “ai fini di cui
al primo comma (individuazione delle condizioni di ammissibilità al concordato
preventivo) per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”.
Ancora considerando il profilo relativo alle
condizioni di ammissione alla procedura,
tra gli interventi di riforma deve ulteriormente registrarsi l’eliminazione
dei c.d. “requisiti di meritevolezza” che l’imprenditore doveva presentare per
accedere alla procedura.
Relativamente, poi, al suo contenuto, la proposta
di concordato perde la sua connotazione di “tipicità”, potendo adesso prevedere
“la ristrutturazione dei debiti e soddisfazione dei creditori attraverso qualsiasi forma”, e si svincola dall’obbligo
di garantire ai chirografari la soddisfazione del loro credito in misura non
inferiore al 40%, previsione scomparsa dalla nuova disposizione, che apre,
invece, alla possibilità di una “suddivisione dei creditori in classi secondo
posizione giuridica ed interessi economici omogenei”, e relativo “trattamento
differenziato tra i creditori appartenenti a classi diverse”.
Molteplici e di grande portata sono le innovazioni
che attengono ai profili procedurali del
nuovo concordato preventivo.
Non è questa, però, la sede adeguata per un
esame di tutti gli elementi di riforma che attengono alla proposizione
della domanda, al controllo di ammissibilità, nonché alla approvazione della
proposta da parte di creditori ed al giudizio di omologazione.
Sembra comunque opportuno evidenziare, seppur in
termini generali, quel profilo della procedura riformata che più volte è stato
al centro degli interventi compiuti dai relatori. Il riferimento è a quella
tendenziale attenuazione del ruolo dell’autorità giudiziaria, che ha, peraltro,
permeato di sé la più recente ed ampia “riforma organica” del sistema di
diritto concorsuale.
In particolare, dall’esame delle nuove norme emerge
una significativa riduzione dei poteri
del tribunale in ordine tanto al controllo di ammissibilità alla
procedura, quanto a quello sulla sua convenienza.
Nella disciplina previgente la procedura del
concordato preventivo si caratterizzava per una connotazione “beneficiale”,
come soluzione alternativa al fallimento per l’imprenditore insolvente che
avesse presentato particolari requisiti di “meritevolezza”. In tale contesto,
sin dal momento dell’ammissione alla procedura, un ruolo decisivo era riconosciuto
all’autorità giudiziaria, chiamata a valutare la sussistenza delle specifiche
condizioni oggettive e soggettive di ammissibilità alla procedura previste
dalla legge.
Nel nuovo modello di concordato preventivo disegnato
dal Riformatore è certo problema di non poco momento quello della corretta
determinazione della sfera di poteri del tribunale: se il tribunale, cioè,
debba limitarsi solo ad una verifica formale della domanda o se possa o debba
compiere una valutazione nel merito della sua convenienza.
Restando legati al dato testuale delle nuove
disposizioni (art.
Ed ancora nel senso della “degiurisdizionalizzazione”
della procedura in esame è la previsione che il decreto di apertura della
procedura non è soggetto a reclamo.
Assume invece un rilievo preminente “la relazione
di un professionista”, avente i requisiti per la nomina a curatore; relazione
che ai sensi dell’art. 161, co3, L.F deve accompagnare il piano e la relativa
documentazione, ed è finalizzata all’attestazione della veridicità dei dati
aziendali ed alla fattibilità del medesimo piano. Non già un semplice riassunto
del piano, ma una sorta di certificazione dell’esattezza dei dati contabili e
giudizio professionale sulla concreta riuscita della proposta di concordato;
senza obbligo, però- la legge non lo impone- di certificare che quello sia il
migliore piano possibile (cfr. m. arato, idem, 167).
Alla
relazione del professionista è dunque lasciata ogni determinazione circa
la fattibilità del piano, e quindi circa l’ammissibilità della proposta; ciò
non senza sollevare qualche perplessità, considerato che “tale attestazione non
è fornita di oggettiva affidabilità ed il soggetto al quale è demandata
l’attestazione si caratterizza solo per essere professionista nel pieno
possesso delle capacita e non interessato, almeno nelle forme tipiche
menzionate nell’art. 28. Egli non è titolare di poteri certificatori, né è
tenuto a particolari oneri deontologici, espressamente sanzionati. Né viene
introdotta alcuna norma sanzionatrice che prevenga possibili abusi per falsità
in tali attestazioni” (parere sulla
riforma della legge fallimentare, idem, 5).
Considerazioni in parte diverse pare di poter fare
relativamente al giudizio di omologazione.
Esso si apre per impulso d’ufficio, ad iniziativa
del tribunale al quale- in luogo del giudice delegato- le nuove disposizioni
(art.180 L.Fall) attribuiscono il compito di fissare l’udienza, in camera di
consiglio, per la comparizione del debitore e del commissario giudiziale, al
fine dell’omologazione del concordato.
Quali poteri sia possibile riconoscere al tribunale
in sede di omologazione non è problema di facile soluzione e meriterebbe uno
spazio di analisi ben più ampio.
Limitandosi in questa sede alla formulazione di
alcune considerazioni, possono essere messi in evidenza due diversi approcci
alle disposizioni in esame.
Un orientamento più rigoroso, legato ad una
interpretazione letterale dell’art.180 co.4 , espresso da certa giurisprudenza (cfr. per
tutte Tribunale di Taranto decr. 1 luglio 2005) conduce a riconoscere un ruolo
prettamente “notarile” al tribunale, il quale, in caso di raggiungimento delle
maggioranze richieste all’art.177 L.F. per l’approvazione del piano di
concordato, non potrebbe rifiutare l’omologa.
Il che
potrebbe determinare seri problemi ove, intervenuta l’approvazione del
concordato da parte dei creditori, successivamente e prima dell’omologa
emergessero fatti e nuove circostanze idonee a non rendere più realizzabile il
piano concordato.
In questo quadro interpretativo, un maggiore spazio
di valutazione sussisterebbe per il tribunale nel caso in cui la proposta di
concordato avesse previsto la suddivisione dei creditori in classi omogenee.
Tale soluzione incide, infatti, sulle regole di
approvazione del concordato, prevedendo dei meccanismi tesi ad evitare che essa
si traduca in ostacolo all’attuazione del piano proposto, contro la ratio stessa della novella.
Pertanto, se il comma primo dell’art. 177 richiede
per l’approvazione della proposta che “il voto favorevole dei creditori che
rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto” sia espresso per
ciascuna classe, il comma successivo prevede anche che il tribunale possa
comunque approvare il concordato “nonostante il dissenso di una o più classi di
creditori”, purché ricorrano le condizioni specificatamente previste dalla
norma, ed in particolare: che sia “riscontrata in ogni caso la maggioranza di
cui al primo comma” (voto favorevole dei creditori che rappresentino la
maggioranza dei crediti ammessi al voto); che “la maggioranza delle classi
abbia approvato la proposta di concordato”; ed infine- ed è questo l’aspetto che qui più interessa- che
il tribunale “ritenga che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti
possano risultare soddisfatti dal concordato in misura non inferiore rispetto
alle alternative concretamente praticabili”.
In forza di tale meccanismo, c.d. del cram down, il tribunale viene investito
del potere di formulare un giudizio sulla convenienza del concordato,
attraverso una valutazione delle concrete possibilità di soddisfacimento dei
creditori appartenenti alle classi dissenzienti attraverso l’attuazione del
concordato proposto, le quali- perché possa comunque emettersi il decreto di
approvazione- non devono essere inferiori “rispetto alle alternative
concretamente praticabili” (art 180, co4).
A tal proposito certa dottrina (b. ianniello, idem, 407) osserva che “in questo modo la funzione
dell’organo collegiale fa un salto di qualità: non più organo di mero controllo
sulla regolarità delle maggioranze, ma organo volto a verificare se nel caso di
un’eventuale dichiarazione di fallimento i creditori dissenzienti troverebbero
o meno un più vantaggioso trattamento rispetto a quello concordatario”.
E pertanto,
anche ove si accogliesse la più rigorosa interpretazione dell’art. 180, prima
proposta, nell’ambito di operatività del meccanismo ora esaminato, il tribunale
ove rilevasse, all’esito dell’istruttoria nel giudizio di omologazione, la
sussistenza quelle circostanze obiettive che potrebbero non rendere più
realizzabile la proposta del debitore, potrebbe ritenere non “conveniente”, nei
termini di cui all’art 180 co.4, per i
creditori appartenenti alla classe dissenziente, il piano proposto e rifiutare,
di conseguenza, l’omologazione.
Ferme restando le considerazioni ora svolte per
l’ipotesi in cui si proceda ad una divisione dei creditori in classi, le
disposizioni in esame (art. 180), considerate in modo unitario, sono
suscettibili di una diversa interpretazione, aperta al riconoscimento di un
ruolo più incisivo del tribunale in sede di omologazione.
In primo luogo si consideri la struttura stessa del
giudizio di omologazione, che, se per quanto concerne la definizione del thema decidendum (ar 180 co 2) è
ispirato al principio dispositivo, sotto il profilo dell’acquisizione delle
prove è dominato dal principio inquisitorio.
L’art. 180
LF, infatti, attribuisce al Tribunale ampi poteri istruttori, consentendo, nel
contraddittorio delle parti, “di assumere anche d’ufficio tutte le informazioni
e le prove necessarie, eventualmente delegando uno dei componenti del collegio
per l’espletamento dell’istruttoria”; poteri che trovano una fondata
giustificazione se orientati a consentire all’autorità giudiziaria una
valutazione nel merito della convenienza della proposta di concordato.
In tal senso si è espressa certa dottrina (m.arato, idem, 171), rilevando
con chiarezza che “i poteri, anche istruttori di verifica attribuiti al
Tribunale ai sensi dell’art. 180, co 3 LF, indicano che l’art 180 co. 4 LF, secondo
il quale il Tribunale, se la maggioranza
di cui al comma 1dell’art. 177 è raggiunta, approva il concordato con decreto
motivato, non va interpretato quasi fosse una replica obbligata dell’esame
compiuto in sede di verifica della maggioranza per l’approvazione del
concordato ai sensi del’art. 177 LF o in sede di ammissione allorché vengono delibati
i requisiti formali di presentazione della domanda. Altrimenti non si
spiegherebbero i poteri istruttori attribuiti al tribunale e l’obbligo di
redazione del parere motivato da parte del commissario giudiziale. L’art. 180
co 4 va dunque interpretato nel senso che il presupposto necessario ma non
sufficiente per l’omologa è che la maggioranza dei creditori o delle classi sia
stata raggiunta, ma, ciononostante, il concordato poterebbe anche non essere
omologato per ragioni di merito, anche di convenienza”.
Sulla stessa via interpretativa sembra porsi la
giurisprudenza di legittimità, affermando, in una recente pronuncia, che “le
condizioni di ammissibilità e di convenienza del concordato preventivo devono
essere accertate con riferimento alla situazione esistente al momento dell’omologazione,
la quale, quindi deve essere negata ove il giudice accerti che tali condizioni,
quand’anche inizialmente esistenti, siano successivamente venute a mancare”
(Cass. Civ., sez. I, 19 marzo 2004, n.5562; Giust. Civ. Mass.,
In secondo luogo, particolare attenzione va posta
sulla figura del commissario giudiziale.
Le nuove disposizioni conservano in capo al
commissario giudiziale quegli ampi poteri di valutazione sulla proposta di
concordato che ad esso erano già riconosciuti dalla normativa previgente,
ponendo, però, alcuni problemi di coordinamento con nuove competenze ora
riconosciute dalla novella.
In particolare, ai sensi dell’art
L’art
Le riflessioni che i primi commentatori hanno
condotto su tali adempimenti del commissario giudiziale coinvolgono ancora il
tema della posizione del tribunale in sede di omologa, e conducono, anche per
questa via, a riconoscere ad esso ruolo più incisivo.
Il tribunale sarebbe dunque investito del merito
della proposta concordataria almeno sotto il profilo della sua fattibilità; che
senso avrebbe- è stato osservato-fornire al tribunale elementi di valutazione
ulteriori se l’attività di controllo di quest’ultimo riguarda solo la
completezza e regolarità della documentazione ed ancora, “non si comprenderebbe altrimenti
l’obbligo di redazione del parere motivato in capo al commissario giudiziale,
in quanto fermi restando gli aspetti di stretta regolarità e legalità della
proposta, già vagliati in sede di ammissione della procedura, si aggiungerebbe
la sola novità dell’esito della votazione che non può che essere favorevole o
contrario, circostanza quest’ultima pienamente riscontrabile dal tribunale
senza il parere del commissario. La tesi che afferma che il tribunale in
presenza del voto favorevole dei creditori dovrebbe approvare acriticamente il
concordato anche in presenza di una relazione del commissario che contesti la
fattibilità della proposta, non tiene conto degli ampi poteri attribuiti al
tribunale dalla nuova disciplina, che non avrebbero significato, e svuota di
contenuto la funzione di garanzia rappresentata dall’intervento dell’organo
giurisdizionale” (l. panzani, Requisiti previsti per la nuova procedura di
concordato preventivo, nota a Trib. Bari, decreto 21 novembre
* Dottorando in “Diritto dell’Economia, dei
Trasporti e dell’Ambiente”, Facoltà di
Economia, Università degli Studi di Palermo.
Data di pubblicazione: 5 luglio 2006.