Le società e le
associazioni sportive[1]
Nicola Andreozzi* -
Augusto Saija*
II - Le
società professionistiche
III - Le
società sportive dilettantistiche
Con il termine “società sportive” si intendono, nel linguaggio comune,
quegli Enti a base associativa che operano nel mondo dello sport.
Tale qualificazione imporrebbe, innanzitutto, di specificare, il concetto
di sport.
Una definizione la si può rinvenire dalla Carta sportiva europea del
consiglio di Europa, secondo la quale, per sport deve intendersi “qualsiasi
forma di attività fisica che, attraverso una partecipazione organizzata o meno,
abbia per obiettivo l'espressione ed il miglioramento della condizione fisica e
mentale, con la promozione della socializzazione e/o con il conseguimento di
risultati in competizioni a tutti i livelli”.
Occorre rilevare, tuttavia, che in base a detta schematica definizione
l'orizzonte entro cui circoscrivere l'attività sportiva si amplierebbe ben
aldilà di quello che è lo sport di tutti i giorni che ben conosciamo ed, al
contempo, che regole e norme da osservare rimarrebbero le medesime in un
universo di attività sportive diversificate negli obiettivi e nelle finalità.
Ritornando al concetto di società sportive occorre premettere che tale
locuzione viene utilizzata, nel gergo comune, anche con il termine di
“associazioni sportive”. Appare evidente, tuttavia, che i due concetti, dal
punto di vista giuridico, sono ben diversi[2][AS1] ,
con tutte le conseguenze che ne derivano sotto il profilo regolamentare.
Dal punto di vista civilistico, infatti, sono ammesse tanto le società,
quanto le associazioni sportive, con queste ultime sia nella forma di
associazioni riconosciute sia di quelle non riconosciute.
Le società o associazioni sportive non sono tenute a costituirsi sotto
una particolare forma giuridica, ad eccezione di quelle professionistiche ed,
in ogni caso, qualora intendano stipulare contratti con gli atleti.
La principale peculiarità delle “società sportive” in senso ampio
consiste nel porsi come soggetti tanto nell’ordinamento generale dello Stato,
quanto in quello sportivo.
La loro prima apparizione risale alla legge 426 del 16 dicembre 1942, con
la quale è stato istituito il Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI), al
quale è stato attribuito l'ampio potere di riconoscere le suddette “società”;
queste ultime dovevano essere assoggettate al CONI o, per delega, alle
federazioni sportive, per divenire, altresì, soggetti dell’ordinamento
sportivo. Il mancato riconoscimento o la non affiliazione delle società,
comportava, inoltre, quale effetto, la rinuncia alla pratica agonistica ed ai
vantaggi di ordine fiscale previsti dall’inquadramento nell’organizzazione
ufficiale.
Lo scopo di dette “società”, in linea di principio, non dovrebbe essere
di lucro; anzi, questo è stato rigorosamente vietato sino ad un recente
intervento in materia di società professionistiche[3],
di cui si dirà, in base al quale dette società hanno potuto reperire e gestire
notevoli flussi finanziari.
Come detto, però, essendo lo scopo di lucro una eccezione limitata alle
società professionistiche, per tutte le altre, nel caso di eventuali utili
conseguiti, questi dovevano essere destinati al potenziamento dell’attività
sociale o in beneficenza. L’unica autonomia residua era scegliere la loro
destinazione.
Come vedremo, ricadono sotto tale definizione soltanto quelle che
risultano affiliate a Federazioni che operano la distinzione dall’attività
dilettantistica da quella professionistica e, inoltre, stipulano contratti con
atleti professionisti.
La materia è disciplinata dalla Legge 23 marzo 1981, n. 91 recante
norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti.
L’art. 2 della citata legge definisce il c.d. professionismo sportivo ai
fini dell’applicazione delle norme ivi previste, stabilendo che sono sportivi professionisti gli atleti, gli
allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che
esercitano l'attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità
nell'ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la
qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate
dalle federazioni stesse, con l'osservanza delle direttive stabilite dal CONI
per la distinzione dell'attività dilettantistica da quella professionistica.
Sportivo professionista, dunque, è ritenuto colui il quale, riconosciuto
da una federazione sportiva della quale rispetterà il regolamento, presta la
sua attività sportiva in forma continuativa, dietro compenso derivante da un
contratto di lavoro con una società sportiva.
In base all’art. 3 della citata legge la
prestazione a titolo oneroso dell'atleta costituisce oggetto di contratto di
lavoro subordinato regolato dalle norme contenute nella presente legge.
Lo stesso art. 3, al contempo, prevede, però, alcune ipotesi in cui la
prestazione offerta dal professionista sia oggetto di contratto di lavoro
autonomo ed in particolare quando ricorra
almeno uno dei seguenti requisiti:
a) l'attività sia svolta
nell'ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra
loro collegate in un breve periodo di tempo;
b) l'atleta non sia
contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la frequenza a sedute di
preparazione od allenamento;
c) la prestazione che è
oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi otto ore
settimanali oppure cinque giorni ogni mese ovvero trenta giorni ogni anno.
Nella premessa si è accennato all’ampia libertà di scelta della forma
giuridica delle “società sportive”, salva l’ipotesi di quelle
professionistiche.
L’art.
Se una delle summenzionate forme societarie è necessaria per le società
professionistiche, le stesse, prima ancora di procedere al deposito dell'atto
costitutivo a
norma dell'articolo 2330 del codice civile, hanno necessità di ottenere l'affiliazione da una o da più
federazioni sportive nazionali riconosciute dal CONI (art.
Gli effetti derivanti dall'affiliazione restano sospesi fino
all'adempimento degli obblighi di cui all'articolo 11. Detto articolo prevede
che dette società, entro trenta giorni
dall'iscrizione nel registro delle imprese a norma dell'art. 2330 del codice civile,
devono depositare l'atto costitutivo presso la federazione sportiva nazionale
alla quale sono affiliate. Devono, altresì, dare comunicazione alla federazione
sportiva nazionale, entro venti giorni dalla deliberazione, di ogni avvenuta
variazione dello statuto o delle modificazioni concernenti gli amministratori
ed i revisori dei conti .
Infine, sempre con riferimento all’affiliazione, è previsto che la stessa
possa essere revocata dalla federazione sportiva nazionale per gravi infrazioni
all'ordinamento sportivo e che la revoca determina l'inibizione dello
svolgimento dell'attività sportiva.
Come già accennato, per le “società sportive” in generale, il fine di
lucro era rigorosamente vietato.
Tuttavia, dapprima si pose un problema con le società calcistiche
formatesi sottoforma di s.p.a. le quali, proprio in considerazione della forma
societaria scelta apparivano chiaramente in contrasto con l’assenza del fine di
lucro, proprio delle “società o associazioni sportive”.
La legge n. 91 del 1981, imponendo la forma societaria per quelle
professionistiche, ha dovuto prendere in considerazione la non remota
eventualità di un utile societario.
Era stabilito, infatti, che dette società, nell’atto costitutivo,
dovevano prevedere l’obbligo di reinvestimento degli utili conseguiti per
l’esclusivo perseguimento dell’attività sportiva.
Successivamente, è intervenuto il D.L. n. 485 del 1996, voluto fortemente
dall’ambiente calcistico, che ha portato importanti innovazioni alla disciplina
delle società professionistiche. Quella maggiore è rappresentata proprio dalla
possibilità concessa a siffatte società di avere fine di lucro.
L'art. 4 del predetto D.L. 20 settembre 1996, n. 485, convertito nella L.
18 novembre 1996, n. 586, che ha novellato parte
dell’art. 10 della L. n. 91 del 1981, dopo aver disposto che atto costitutivo deve prevedere che la società possa svolgere
esclusivamente attività sportive ed attività ad esse connesse o strumentali, ha
stabilito che lo stesso atto costitutivo preveda che una quota parte degli utili, non inferiore al 10 per cento, sia
destinata a scuole giovanili di addestramento e formazione tecnico-sportiva .
In definitiva, dunque, pur con una limitazione al reinvestimento “mirato”
degli utili, per la prima volta, è stato ammesso il fine di lucro delle società
sportive professionistiche, così consentendo alle stesse anche la possibilità
di entrare nel mercato borsistico.
La stesso intervento legislativo, proprio in considerazione,
probabilmente, dell’ammissibilità del fine di lucro ed a tutela dei soci, il
cui numero è generalmente molto elevato, ha previsto, in deroga all'articolo 2477 del codice civile, che è in ogni caso
obbligatoria, per le società sportive professionistiche, la nomina del collegio
sindacale.
Altra importante novità introdotta dal D.L. 20 settembre 1996, n. 485,
convertito nella L. 18 novembre 1996, n. 586 è rappresentata dalla disposizione
del novellato art. 12 della L. n. 91/81, in base alla quale le società di cui all'articolo 10 sono
sottoposte, al fine di verificarne l'equilibrio finanziario, ai controlli ed ai
conseguenti provvedimenti stabiliti dalle federazioni sportive, per delega del
CONI, secondo modalità e princìpi da questo approvati .
Tra le altre norme rilevanti per le società professionistiche, occorre
far menzione dell’art. 13 della legge in materia, anch’esso novellato dal
richiamato intervento legislativo, secondo cui il procedimento di cui
all'articolo 2409 del codice civile si applica alle società di cui all'articolo
10, comprese quelle aventi forma di società a responsabilità limitata; il
potere di denuncia spetta anche alle federazioni sportive nazionali.
Infine, merita un cenno la questione del fallimento delle società
sportive professionistiche.
L’assoggettabilità alla procedura concorsuale, se poteva considerarsi
discutibile prima che venisse ammesso lo scopo di lucro, con una propensione,
anche allora, alla tesi favorevole, essendo innegabile l’attività
imprenditoriale che sorregge dette società, oggi appare indiscutibile.
Esaminate ed inquadrate le società professionistiche, tutte le rimanenti
vanno annoverate tra le società dilettantistiche, le quali, appunto, sono
quelle che non intrattengono rapporti con atleti professionisti e, ancor meno,
perseguono fini di lucro.
Il legislatore italiano, pur rinunciando a fornire una definizione
normativa di “associazione sportiva dilettantistica” (la quale, pertanto, potrà
essere definita mediante un sistema di individuazione c.d. de residuo, ossia
classificando come tali quelle che non possono essere ritenute
professionistiche), alla stregua di quanto – invece – è stato fatto per quelle
professionistiche (con
L'art. 90 della legge 289/2002 (c.d. Legge finanziaria 2003), entrata in
vigore il 1° gennaio 2003, infatti, ha indicato
le peculiarità che devono possedere quegli enti che ambiscono ad essere
qualificati associazioni o società sportive dilettantistiche. In particolare,
il comma 17 del citato articolo stabilisce che “Le società e associazioni
sportive dilettantistiche devono indicare nella denominazione sociale la
finalità sportiva e la ragione o la denominazione sociale dilettantistica e
possono assumere una delle seguenti forme:
a) associazione sportiva priva di personalità
giuridica disciplinata dagli articoli 36 e seguenti del codice civile;
b) associazione sportiva con personalità giuridica
di diritto privato ai sensi del regolamento di cui al decreto del Presidente
della Repubblica 10 febbraio 2000, n. 361;
c) società sportiva di capitali o cooperativa
costituita secondo le disposizioni vigenti, ad eccezione di quelle che
prevedono le finalità di lucro”.
Dunque, in base al predetto dato normativo, è anzitutto necessario
inserire nella ragione o denominazione sociale dell'ente che lo stesso svolga
attività sportiva (ad esempio, circolo canottieri, circolo tennistico, circolo
atletico etc) e l'ulteriore indicazione che questa attività sia espletata in
maniera dilettantistica (ad esempio, circolo canottieri associazione sportiva
dilettantistica). Si tratta, si badi bene, di una modifica necessaria per poter
godere (almeno) delle agevolazioni fiscali che vengono riservate a tali enti,
dal momento che senza detta indicazione, mancherebbe il presupposto essenziale
per il riconoscimento dell'ente quale sodalizio sportivo dilettantistico.
In secondo luogo, il predetto comma ha altresì indicato tassativamente la
forma giuridica necessaria dell'ente dilettantistico per essere considerato
tale: più precisamente, esso può rivestire la veste giuridica di associazione
(munita o meno del riconoscimento giuridico ai sensi del DPR 361/2000) ovvero
quella di società di capitali (Spa, Srl o Sapa), purché non sia perseguito lo
scopo di lucro. La possibilità, infine,
che l'ente dilettantistico possa assumere anche la forma di società cooperativa
(la disposizione originaria consentiva solamente di costituire enti associativi
ed enti societari, disciplinati dal titolo V del codice civile che, come è
noto, non contempla le cooperative, disciplinate, invece, dal successivo titolo
VI) la si deve ad un intervento successivo del legislatore che, anche al fine
di porre fine alle numerosissime critiche rivolte dagli operatori che non
comprendevano la ratio dell'esclusione di tale tipologia societaria
(considerato, tra l'altro, che erano moltissime le società sportive che
rivestivano tale forma giuridica e che la cooperativa, per sua natura, non può
avere uno scopo di lucro, quantomeno soggettivo), ha emanato il D.L 22 marzo
2004 n. 72, con il quale è stata espressamente prevista la possibilità di
utilizzare tale ulteriore forma societaria. È stato detto, peraltro, che la
predetta novità normativa abbia avuto una valenza “interpretativa” e non
“innovativa”, giacché si è ritenuto irragionevole sostenere che la possibilità
di optare per la forma giuridica della cooperativa da parte dei sodalizi
sportivi, operasse solamente a far data dall'entrata in vigore del citato D. L.
del 2004.
Il successivo comma 18 dell'art. 90 della L. 289/2002, così come
novellato dall'art. 4, D.L. 22 marzo 2004, n. 72, prevede, poi, che “ Le
società e le associazioni sportive dilettantistiche si costituiscono con atto
scritto nel quale deve tra l'altro essere indicata la sede legale”. In
difformità con il principio generale della libertà delle forme, quindi, è
prescritta la forma scritta ad substantiam anche nell'ipotesi in cui
l'ente assuma la veste giuridica di associazione non riconosciuta ex art. 36
c.c. La ragione di tale previsione, comunque, è ovvia dal momento che (come si
è detto in precedenza) occorre che la denominazione o ragione sociale dell'ente
contenga l'indicazione che lo stesso svolge attività sportiva dilettantistica.
Riguardo alle ulteriori forme dell'atto pubblico o della scrittura privata
autenticata, dovranno essere rispettati i principi sanciti dal codice civile
(come si sa, l'atto pubblico è richiesto ad substantiam per le società
di capitali e le cooperative e per le associazioni che vogliono ottenere il
riconoscimento ai sensi del DPR 361/00).
In conformità con quanto disposto dalla riforma del diritto societario[4],
entrata in vigore dal 1 gennaio 2004, infine, si deve ritenere che non occorre
che la sede sociale contenga l'indicazione esatta dell'indirizzo e del numero
civico dell'ente stesso, ma è sufficiente la sola precisazione del comune in
cui essa è ubicata (e ciò, come è noto, anche per evitare che il semplice
cambiamento del numero civico comporti l'onerosa modificazione dell'atto
costitutivo). L'atto costitutivo dovrà poi riportare la denominazione del
sodalizio sportivo e dalla stessa denominazione – come già detto – dovrà evincersi
la “finalità sportiva dilettantistica”.
Appare il caso di sottolineare che, sempre l'art. 18 richiede, al punto
b), l'espressa necessità di prevedere “l'oggetto sociale con
riferimento all'organizzazione di attività sportive dilettantistiche, compresa
l'attività didattica”. Anche in questo caso, si può notare l'intenzione del
legislatore di coordinare la nuova normativa con la novella societaria che,
adesso, all'art. 2463 c.c. in tema di Srl, prevede la specifica indicazione
dell'attività che ne costituisce l'oggetto sociale, proprio per evitare che
dietro lo schermo apparente di una società sportiva dilettantistica, che
attribuisce notevoli vantaggi fiscali, si possano realizzare finalità che nulla
hanno a che fare con l'attività sportiva.
Particolare rilevanza assumono le prescrizioni stabilite alle lettere c),
d), ed e) del predetto comma 18 dell'art. 90. Alla lettera c), infatti, si
prevede che lo statuto debba prevedere l' attribuzione della rappresentanza
legale dell'associazione. Ciò che è quasi ovvio nelle associazioni riconosciute
e non riconosciute (dove la rappresentanza viene solitamente attribuita al
presidente della stessa[5]),
richiede, invece, una particolare attenzione nel caso in cui l'ente sportivo
assuma la forma delle società di capitali nelle quali, specie a seguito della
riforma del diritto societario (in particolare nelle Srl), l'amministrazione e
la rappresentanza possono essere attribuite a più soggetti ed, in alcuni casi,
disgiuntamente o congiuntamente (artt. 2475 e 2475 bis).
Ridondante, se non pleonastico, potrebbe apparire quanto stabilito dalla
lettera d) che richiede “l'assenza di finì di lucro e la previsione che i
proventi delle attività non possono, in nessun caso, essere divisi fra gli
associati, anche in forme indirette”. Con riguardo alla possibilità che
l'assenza di fini di lucro negli enti sportivi costituiti sotto forma di
società di capitali possa rappresentare un problema per i sostenitori della
tesi secondo cui tali tipologie societarie debbono necessariamente prevedere la
suddivisione degli utili tra i soci, si rinvia al celebre scritto del Santini[6]
con il quale l'Autore ha sostenuto, con argomentazioni logiche e condivisibili,
che la struttura societaria sarebbe neutra rispetto allo scopo perseguito, che
potrebbe perciò essere anche non lucrativo. In ogni caso, non volendo
considerare ciò come un'applicazione di un principio generale, l'espressa
previsione legislativa sarebbe idonea a ritenere tale normativa, comunque,
speciale.
La lettera e) del citato comma 18 prevede, poi, che lo statuto indichi
“le norme sull'ordinamento interno ispirato a princìpi di democrazia e di
uguaglianza dei diritti di tutti gli associati, con la previsione
dell'elettività delle cariche sociali, fatte salve le società sportive
dilettantistiche che assumono la forma di società di capitali o cooperative per
le quali si applicano le disposizioni del codice civile”. Anche in tal caso, il
legislatore si è preoccupato di coordinare la normativa speciale con quella
generale in tema di società di capitali, nelle quali la nomina degli
amministratori viene, solitamente, decisa dai soci in base alla titolarità delle azioni o quote sociali. È
stato, inoltre, eliminato il divieto – stabilito dal vecchio comma 18 lettera
a) n. 5 dell'art.
Altro precetto di sicuro interesse è quello sancito dalla lettera f) del
comma 18 della citata norma il quale dispone “l'obbligo di redazione di
rendiconti economico-finanziari, nonché le modalità di approvazione degli
stessi da parte degli organi statutari”. Ogni associazione sportiva,
pertanto, ancorché non tenuta ai fini fiscali, dovrà provvedere alla redazione
del suddetto documento, a pena della decadenza dalle agevolazioni fiscali.
Altro obbligo espressamente previsto (lettera g introdotta dall'art. 4,
D.L. 22 marzo 2004, n. 72, nel testo integrato dalla relativa legge di
conversione) è quello della previsione, nello statuto, delle modalità di
scioglimento dell'associazione, nonché l'obbligo (lettera h) della devoluzione
ai fini sportivi del patrimonio in caso di scioglimento della società e delle
associazioni. Si tratta, secondo l'opinione preferibile, di norma inderogabile,
nel senso che l'unica autonomia concessa alle parti potrebbe essere quella di
designare, affinché ne raccolga il patrimonio residuo, un ente che persegua
fini analoghi.
Degno di menzione, infine, appare il successivo comma 18 bis, il
quale dispone che “è fatto divieto agli amministratori delle società e delle
associazioni sportive dilettantistiche di ricoprire la medesima carica in altre
società o associazioni sportive dilettantistiche nell'ambito della medesima
federazione sportiva o disciplina associata se riconosciute dal CONI, ovvero
nell'ambito della medesima disciplina facente capo ad un ente di promozione
sportiva”. Il divieto sancito dal predetto comma, dunque, è più pregnante
(rispetto a quanto stabilito dal precedente n° 4 del comma 18 dell'art. 90) dal
momento che la normativa precedente, nella sua prima parte, stabiliva il
divieto soltanto nell'ambito della medesima “disciplina sportiva”.
Un'ulteriore fondamentale modifica, introdotta dalla L. 21 maggio 2004 n.
128 di conversione del D.L. 22/03/2004 n. 72 che ha riformulato, come detto, il
comma 18 dell'art. 90 della L. 289/02, è costituita dalla mancata previsione
della necessità (prevista invece dal precedente n. 7 del comma 18) di inserire
negli statuti l'obbligo di conformarsi alle norme ed alle direttive del CONI ,
nonché agli statuti ed ai regolamenti delle federazioni sportive nazionali o
dell'ente di promozione sportiva cui la società o l'associazione intende
affiliarsi.
La nuova norma, inoltre, non prevede più, neppure la necessità di
stabilire le modalità di riconoscimento ai fini
sportivi delle società e di affiliazioni ad una o più federazioni
sportive nazionali del CONI o alle discipline associate o ad uno degli enti di
promozione sportiva riconosciuta dallo stesso CONI anche su base regionale.
In conseguenza delle predette modifiche, il CONI, al fine di evitare
l'indebita fruizione delle agevolazioni fiscali anche ad associazioni e società
sportive non riconosciute da tale organo, ha ottenuto l'emanazione del D.L.
136/2004, recante disposizioni urgenti per garantire la funzionalità di taluni settori
della pubblica amministrazione, il cui art.
Alla luce di quanto sopra esposto, volendo dare una collocazione
giuridica agli enti sportivi dilettantistici, cercando di individuare le
eventuali differenze tra i vari enti, a seconda della veste giuridica che essi
assumono all'atto della costituzione (o a seguito di eventuali loro
trasformazioni), non può non riconoscersi che per gli stessi valgono le
medesime distinzioni elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza tra
associazioni e società[7].
In particolare, ci si riferisce alla distinzione tradizionale tra enti dotati,
o meno, di personalità giuridica. I primi ( tra i quali vanno annoverate le
associazioni riconosciute ai sensi del DPR 361/2000, tutte le società di
capitali e le cooperative) godranno del requisito dell'autonomia patrimoniale
perfetta, nel senso che delle obbligazioni assunte dall'ente ne risponderà
soltanto l'ente stesso con il suo patrimonio, non potendo, i creditori della
società o dell'associazione, agire sul patrimonio degli amministratori o dei
singoli associati. Invece, i secondi (associazioni non riconosciute), avranno
pur sempre una loro autonomia patrimoniale (il patrimonio dell'ente, cioè, sarà
pur sempre distinto da quello dei singoli associati), sebbene imperfetta, nel
senso che, secondo quanto dispone l'art. 38 c.c., per le obbligazioni assunte
dalle persone che rappresentano l'associazione, i terzi possono far valere i
loro diritti sul fondo comune e (secondo l'opinione prevalente in dottrina ed
in giurisprudenza), in via accessoria ma non sussidiaria, anche sul patrimonio
delle persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione. La
circostanza che la responsabilità solidale
delle persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione abbia
carattere accessorio, ma non sussidiario, rispetto alla responsabilità primaria
dell'ente, si badi bene, significa che l'obbligazione di colui che ha agito è
configurata come una forma di garanzia ex lege, assimilabile alla
fideiussione, ma che non consente al responsabile di godere del beneficio della
preventiva escussione del fondo comune.
Per quanto concerne l'assoggettabilità al fallimento anche per le società
o associazioni sportive dilettantistiche, considerata l'assenza tipica dello
scopo di lucro, occorre risalire alle considerazioni già espresse sulle società
professionistiche proprio anteriormente all'ammissibilità della previsione
dello scopo di lucro; in particolare, la valutazione positiva derivava dalla fondamentale
circostanza dell'attività imprenditoriale svolta dalle società
professionistiche. Pertanto, aderendo a questa teoria, anche le società
sportive dilettantistiche, quando operano su modelli imprenditoriali e si
rivelano insolventi, dovrebbero essere dichiarate fallite[8].
La
dicotomia professionismo-dilettantismo pone notevoli incertezze, con tutte le
problematiche che ne derivano per l’applicazione della normativa di competenza.
Quella, probabilmente, di maggiore interesse e che ha attirato l’attenzione
degli specialisti, riguarda la natura del rapporto tra atleta dilettante e
società-associazione sportiva di appartenenza.
Non v’è
dubbio che la difficoltà deriva dallo stesso concetto di dilettantismo, che
ricomprende in sé prestazioni sportive assolutamente eterogenee tra loro ed è
molto controverso, tanto nella prassi, quanto nelle varie fonti normative che,
come in precedenza evidenziato, lo prendono in considerazione direttamente o
indirettamente.
Occorre
premettere che il concetto di dilettante necessità una preliminare distinzione
fondamentale; infatti, detto termine, nel linguaggio corrente, può intendersi
tanto in senso tradizionale, ovvero l’amateur,
colui cioè che si dedica allo sport per mera passione, come pratica salutistica
del tempo libero, per definizione assolutamente antinomica al concetto di
lavoro, quanto nel senso di atleta che svolge attività sportiva dilettantistica
che, ad onta della qualifica formale, percepisce invece compensi, spesso lauti
ed a titolo di esclusivo sostentamento.
Fatta
questa necessaria premessa, va rilevato che l’atleta è parte di due collegati,
ma distinti rapporti; da un lato, quello, di natura associativa, di
tesseramento con la rispettiva federazione; dall’altro, quello negoziale che dà
vita al vincolo con la società di appartenenza[9].
Orbene, se
nel caso del dilettante puro anche il rapporto di vincolo integra un ulteriore
rapporto associativo, essendo unico il centro di interesse e risolvendosi la
partecipazione alla gara nell’adempimento del patto che vede accomunati atleti
e società intorno al fine comune della pratica sportiva, altrettanto non può
dirsi per il dilettante retribuito.
Proprio in
tale ultimo caso, ove la misura e la rilevanza della “retribuzione” dovesse
indurre a considerare le prestazioni dell’atleta in termini di scambio con la
società che diviene controparte, e non più come apporto nel comune negozio
associativo, evidentemente, sarà necessario qualificare, in termini giuridici,
la percezione delle somme di danaro e la compatibilità con la normativa in
materia di sport dilettantistico.
In altre
parole, si tratta del fenomeno del “dilettante che lavora”, individuato con i
diversi nomi di “professionismo di fatto”, di “dilettantismo retributivo”,
ovvero di “professionismo irregolare”, che peraltro non riguarda solo il nostro Paese[10].
In Italia,
il problema, paradossalmente, è nato proprio dalla legge n. 91/1981, che
sebbene emanata allo scopo specifico di far emergere e disciplinare gli aspetti
lavoristici delle prestazioni sportive, non ha affatto disciplinato il lavoro
nello sport nella sua interezza, ma solo quello che si svolge nell’ambito delle
federazioni sportive qualificate come professionistiche; tali sono, secondo la
originaria delibera del Consiglio Nazionale del CONI del 2 maggio 1988,
soltanto
Appare
evidente che la legge apparve ben presto iniqua e discriminante nella misura in
cui, presupponendo la formale qualificazione professionistica della federazione
di appartenenza, sottraeva alla sua sfera di applicazione tutti i casi di
professionismo “di fatto”, assoggettando così a diversa disciplina rapporti di
lavoro che avrebbero, viceversa, meritato un identico trattamento per essere
contraddistinti da analogo contenuto[11].
La
questione della disparità di trattamento si è riproposta, con insistenza, sul
finire degli anni novanta quando, a cagione del vertiginoso salto di qualità di
tutta una serie di attività sportive qualificate come dilettantistiche, anche
all’interno delle stesse federazioni professionistiche, lo spazio occupato dal
professionismo di fatto è aumentato a dismisura, sino a divenire ben più ampio di
quello ufficializzato dalla legge n. 91/1981[12];
ciò anche in riferimento alle prestazioni di ulteriori figure funzionali allo
svolgimento delle predette attività quali i tecnici, i direttori sportivi e gli
assimilati.
Si è così
tornati a sottolineare come atleti appartenenti a diverse federazioni prive di
settore professionistico (es. i pallavolisti rispetto ai cestisti), ovvero a
diversi settori della medesima federazione (es. i calciatori dei Campionati
Nazionali Dilettanti rispetto a quelli di C/2), fruiscano di trattamenti
diversi, pur ricevendo somme di denaro spesso più consistenti dei loro colleghi
ufficializzati e pur offrendo, nell’ambito di discipline sportive, svolte
egualmente sotto l’egida del CONI, prestazioni assolutamente identiche[13].
A tal proposito,
è significativo leggere quanto incidentalmente affermato dal TAR Lazio (Sezione
Terza – ter, 12 maggio 2003, n. 4103)
in un ricorso intentato da una atleta, tale Catarina Pollini contro
La realtà è
che l’impostazione legislativa è stata vista, sin dall’inizio, come
riproduttiva, nell’ordinamento dello stato, dell’antitesi
dilettantismo-professionismo, solo in origine fondata sul carattere gratuito
della prestazione dilettantistica, allorquando, nella seconda metà
dell’Ottocento, in Inghilterra, ebbero origine le moderne discipline sportive e
gli atleti assunsero la posizione di dilettanti; ciò accadeva, sia perché le
attività praticate erano per loro natura
inutilitaristiche e sia perché, appartenendo a classi socialmente
agiate, non avevano affatto bisogno di lavorare e di ricavare un reddito
sostitutivo dallo sport.
L’equivoca
disciplina formale ha finito ben presto, però, con l’entrare in rotta di
collisione con la diversa e sempre più incombente realtà, caratterizzata dalla
presenza di varie forme di
monetizzazione e, pertanto, dal superamento dell’illusoria proposizione che
ipotizzava la presenza di lavoro solo ed esclusivamente in ambito
professionistico.
Non è un
caso, del resto, che soprattutto nell’ultimo decennio, abbia trovato larga
diffusione la prassi, in ambito dilettantistico, della stipula di contratti,
variamente denominati (di ingaggio, di prestazione sportiva, di prestazione
sportiva dilettantistica, di collaborazione sportiva), ovvero elusivamente
titolati come accordo o scrittura privata, che, in concreto, risultano
articolati, quanto ai contenuti, come quelli “tipo”, frutto di contrattazione
collettiva dei professionisti ufficializzati.
Quanto
osservato circa la possibile e, comunque, assai frequente monetizzazione delle
prestazioni non ricomprese nella disciplina della legge n. 91/1981, induce
pertanto ad una prima, sicura conclusione circa l’inidoneità dello status formale di dilettante ad offrire
alcun parametro all’interprete per risolvere questioni operative al di là
dell’ambito meramente endoassociativo.
E’
significativo, al riguardo, che il termine dilettante, oggi, non esiste più
nella Carta Olimpica ed attualmente
Non può,
inoltre, ritenersi priva di significato, a livello nazionale, la circostanza
che lo Statuto del CONI, all’art. 6 lett. d), faccia uso dell’endiadi “attività
sportiva dilettantistica o comunque non professionistica”, fornendo così un
riscontro normativo alla eterogeneità e alla connotazione in negativo
dell’attuale concetto di dilettantismo.
Ritornando
al problema di cui si dibatte, un consolidato indirizzo giurisprudenziale,
risalente agli anni settanta, considera l’attività sportiva soggetta, comunque,
alla disciplina comunitaria, sulla scorta dell’unico presupposto che la stessa
sia configurabile come economica ai sensi dell’art. 2 del Trattato.
Tale filone
interpretativo, costantemente confermato nelle successive pronunce, dopo essere
stato ribadito, seppur incidentalmente, nell’arcinota sentenza Bosman del 1995 (punti 73 e 74), in cui
Nella
prima,
Nella
seconda, la stessa Corte, dopo aver constatato, al punto 16, che Kolpak, giocatore di pallamano, era
vincolato con la società di appartenenza da un contratto di lavoro, essendo
obbligato, “contro il corrispettivo di una retribuzione mensile fissa, a
fornire in forma subordinata prestazioni nell’ambito dell’attività di
allenamento e degli incontri organizzati dalla sua società e che si tratta, in
proposito, della sua principale attività professionale”, ha espressamente
considerato lo stesso, al successivo punto 21, uno “sportivo professionista”
(Sentenza 8 Maggio 2003, Deutscher – Handallbund e V c/ Maros Kolpak).
Anche
l’appartenenza al settore dilettantistico delle società che fruiscono delle
prestazioni degli atleti, al contempo appare, del resto, inidonea a precludere
più penetranti valutazioni sostanziali, sia in ambito comunitario che interno.
Devono,
infatti, considerarsi senz’altro imprese in senso tecnico, ai sensi
dell’attuale art. 48 del Trattato, le società sportive che, indipendentemente
dalla forma giuridica assunta nei Paesi di appartenenza, organizzano spettacoli
sportivi a pagamento, negoziano diritti televisivi e fanno operazioni di
sponsorizzazione e di merchandising.
Inoltre,
sono numerosi i casi, in ambito nazionale, in cui società sportive costituite
in forma di associazioni non riconosciute sono state assoggettate a fallimento
nonostante militassero in campionati non professionistici; ciò sulla scorta
della già accennata considerazione che, a quei fini, rileva esclusivamente
l’oggettiva imprenditorialità, la circostanza cioè che le stesse esercitino,
abitualmente e sistematicamente, attività di organizzazione, allestimento e
attuazione di spettacoli sportivi.
Analogamente
deve argomentarsi anche a proposito delle società sportive di capitali senza
scopo di lucro di recente previsione, posto che nel sistema vigente non vengono
in considerazione le finalità soggettive di guadagno quanto, come appena
rilevato, l’oggettiva ed astratta
attitudine a conseguire comunque un profitto[15].
Ritornando
al professionista di fatto, pur regnando enorme incertezza sul trattamento da
riservarsi in concreto, anche da noi la giurisprudenza sembra, comunque,
concorde sulla necessità di riguardare l’aspetto fattuale del rapporto, negando
ogni ruolo alla eteronoma qualificazione di dilettante.
Tale
orientamento appare scolpito nell’ordinanza 18 ottobre 2001 del Tribunale di
Pescara, in cui si afferma testualmente che “la distinzione tra professionismo
e dilettantismo nella prestazione sportiva si mostra priva di ogni rilievo, non
comprendendosi per quale via potrebbe mai legittimarsi una discriminazione del
dilettante”.
In
generale, comunque, tutte le soluzioni appaiono incentrate sulla considerazione
che, sul piano del trattamento, occorre prescindere dalla qualificazione
formale privilegiando la sostanza dei rapporti, avendo come parametro esclusivo
l’economicità della prestazione.
Una volta
esclusa la presunzione di subordinazione di cui all’art. 3 della legge n.
91/1981, inoltre, ove l’attività sportiva sia remunerata a fronte di impegni e
obblighi sostanzialmente identici a quelli del professionista, dovrebbe darsi
per scontata la possibilità di ravvisare un rapporto di lavoro, necessariamente
autonomo o subordinato[16].
Da parte di
alcuni[17],
poi, si è ventilata la possibilità di applicare la legge n. 91/1981 o
direttamente[18]
o in via analogica[19],
anche ai dilettanti che lavorano, pur in difetto della qualificazione formale.
Detta tesi
ha trovato un certo seguito sia in isolate sentenze di merito degli anni
Ottanta, sia in alcuni lodi arbitrali[20]
e perfino in una recente sentenza di Cassazione (Cass. Civ. Sez. Lav. 1/8/2003
n. 11751)[21]
che ha fatto riferimento alla citata legge per un rapporto intercorso
nell’ambito della F.I.S.G. e, pertanto, al di fuori dell’ambito del
professionismo ufficializzato..
Tuttavia,
la chiara definizione dei professionisti dettata dall’art. 2, che considera
tali quelli che “conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive
nazionali” ed il divieto di applicazione analogica per le leggi speciali
imposto dall’art. 14 delle preleggi dovrebbe, senz’altro, indurre a concludere,
come ritenuto dai più, che occorra far capo, per gli specifici problemi di
trattamento del professionista di fatto, alle norme di diritto comune dettate
in linea generale per ogni rapporto di lavoro (v.da ultimo, Corte d’Appello di
Roma, 8 giugno 2005, Bonfrisco Angelo c/ F.I.G.C. e A.I.A., inedita, che ha
dichiarato non estensibili analogicamente agli arbitri, non ricompresi
nell’art. 2, le norme speciali della legge n. 91/1981).
Se così è,
però, la legge n. 91/1981 pone seri problemi di conformità al dettato
costituzionale[22],
se si considera che l’alternatività tra la tutela speciale offerta da questa
legge (applicabile ai professionisti) e quella generale codicistica
(applicabile invece ai professionisti di fatto), le cui differenze sono
tutt’altro che trascurabili (si pensi alle deroghe stabilite dai commi 8 e 9
dell’art. 4, al trattamento pensionistico ed assistenziale, nonché all’arbitrabilità
oggettiva delle controversie ex art. 412 ter
c.p.c.), risulta rimessa al Consiglio
Nazionale del CONI ( art. 2 legge n. 91/1981 e 5 lett. a) D. lgs. N. 242/1999)
e, attualmente, in virtù dei Principi Fondamentali degli Statuti delle
Federazioni Sportive Nazionali, delle Discipline Sportive Associate e delle
Associazioni Benemerite alle stesse federazioni, “mediante specifica previsione
statutaria, in presenza di una notevole rilevanza economica del fenomeno e a
condizione che l’attività in questione sia ammessa dalla rispettiva Federazione
internazionale” (Principio n. 23).
Una tale
disciplina, che consegna al gradimento delle singole federazioni – persone
giuridiche private la scelta se dotarsi o meno di un settore
professionistico rappresenta senz’altro
un regresso rispetto a quella precedente, che almeno demandava alla potestà
regolamentare del CONI, e quindi ad una fonte di diritto secondaria,
l’emanazione (di fatto mai avvenuta[23])
di direttive specifiche e non sembra affatto in linea con lo stesso principio
di uguaglianza sancito dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, oltre che con la
significativa tutela offerta dalla stessa Carta Costituzionale ai rapporti di
lavoro.
In
conclusione occorre rilevare, comunque, che il problema del professionismo di fatto
non riguarda in egual misura le varie federazioni sportive nazionali, essendo
differente la popolarità e la spettacolarità e, quindi, l’idoneità delle varie
discipline a distribuire risorse economiche ai protagonisti delle
corrispondenti prestazioni sportive, anche se tutte sono in ogni caso
interessate a non estendere l’area del professionismo ufficializzato ed a
contenere, comunque, in ambito endoassociativo ogni possibile, relativo
contenzioso.
Da quanto
esposto, appare opportuno riflettere sulla necessità di un intervento
legislativo che modifichi le attuali disposizioni normative, ormai divenute
obsolete.
La
distinzione tra professionismo e dilettantismo, probabilmente, più che alle
società dovrebbe essere riferita all’attività svolta dal singolo atleta, in
base all’accertamento delle modalità di svolgimento della stesa ed all’entità
del corrispettivo ricevuto.
De iure condendo, si potrebbe, ad esempio, azzardare una
figura di atleta professionista mutuandone parzialmente la definizione da
quella utilizzata per l’imprenditore e, pertanto, considerare tale colui il quale presta professionalmente la
propria attività sportiva (prestazione atletica) per fini economici; ciò a
prescindere dalla scelta della singola Federazione di qualificarla come professionistica
ed a prescindere, come detto, dalla circostanza (a questo punto irrilevante) se
la società di appartenenza sia essa professionistica o meno.
Al
contempo, adottando la distinzione sopra proposta e trasferendo l’attributo
“professionistico” all’atleta piuttosto che alla società, non si vede più quali
possano essere gli ostacoli che si frappongono all’ammissione dello scopo di
lucro anche per le società diverse da quelle oggi ritenute “professionistiche”.
[24] A Nicola Andreozzi
va attribuita la stesura dei paragrafi I e II del presente lavoro , ad Augusto
Saija quella del paragrafo III, mentre il paragrafo IV, riferendosi ad un
problema di coordinamento delle analisi svolte, ad entrambi.
[1] A Nicola
Andreozzi va attribuita la stesura dei paragrafi I e II del presente lavoro ,
ad Augusto Saija quella del paragrafo III, mentre il paragrafo IV, riferendosi
ad un problema di coordinamento delle analisi svolte, ad entrambi.
* Dottorando di ricerca in Diritto dell’Economia dei
Trasporti e dell’Ambiente presso l’Università degli Studi di Palermo.
* Dottorando di ricerca in Diritto dell’Economia dei
Trasporti e dell’Ambiente presso l’Università degli Studi di Palermo.
[2] Per una
distinzione tra associazione e società, vedi amplius GALGANO, Il negozio giuridico, in Trattato
di Diritto Civile e Commerciale, già diretto da A. cicu e F. Messineo e
continuato da L Mengoni, p. 184; COSTI, Fondazione e impresa, in Riv.
Trim. Dir. Pubbl., 1968, p 15 ss.
[3] Legge 23
marzo 1981 n. 91, art. 10.
[4] D. Lgs
6/2003.
[5] Art. 36,
comma 2, c.c.
[6] SANTINI, Il
tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali, in Riv. Dir.
Civ., 1963, I, p. 51 ss.
[7] DI SABATO, Manuale
delle società, 1992, Torino, p. 32 ss.
[8] Vedi infra,
pag. 19.
[9] DE
SILVESTRI A., Il contenzioso tra
pariordinati nella Federazione Italiana Gioco Calcio, in Rivista di
diritto sportivo, 2000, p. 520 ss.
[10] LOMBARDI
P., Il vincolo degli atleti nel diritto
dello sport internazionale, in AA.VV Vincolo sportivo e diritti
fondamentali, Pordenone, 2002, p. 97 ss.
[11] VIDIRI G., La disciplina del
lavoro sportivo autonomo e subordinato in Giustizia civile, 1993, p.
210;
[12] BELLAVISTA
A., Il lavoro sportivo professionistico e
l’attività dilettantistica, in Rivista giuridica del lavoro e della
previdenza sociale, 1997, p. 524 ss.;
[13] TOGNON J., Il
rapporto di lavoro sportivo: professionisti e falsi dilettanti, in Rivista giuslavoristi.it., 2005, pp.
9-10; CROCETTI BERNARDI, Rapporto di lavoro nel diritto sportivo,
in Digesto della Discipline Privatistiche Sezione commerciale,
Aggiornamento 2, UTET, Torino 2003, pp. 757 ss.; DE SILVESTRI A., La riforma del calcio dilettantistico in
tema di vincoli e di accordi economici, in AA.VV Vincolo sportivo e diritti fondamentali,
Pordenone, 2002, p. 37 ss.
[14] amplius MUSUMARRA L., La qualificazione degli sportivi
professionisti e dilettanti nella giurisprudenza comunitaria, in Rivista
di diritto ed economia dello sport, 2, 2005, p. 39 ss.
[15] FORMICA P.,
Impresa sportiva : il fallimento delle
associazioni non riconosciute, in Rivista di diritto sportivo, 1995, p. 798
ss.
[16] VALORI G., Il diritto nello sport – Principi, soggetti,
organizzazione, Giappichelli, Torino, 2005, pp. 200-201; SPADAFORA M.T., Diritto del lavoro sportivo, Giappichelli,
Torino, 2004, p. 62;
[17] MERCURI L.,
Sport professionistico (rapporto di
lavoro e previdenza sociale), in Novissimo Digesto italiano,
Appendice, Utet, Torino, 1987, p. 519;
[18] REALMONTE
E., L’atleta professionista e l’atleta
dilettante, in Rivista di diritto sportivo, 1997;
[19] ICHINO P., Il lavoro subordinato: definizione e
inquadramento (artt. 2094-2095), in Il codice civile commentario
diretto da P. Schlesinger, Milano, 1992, pag. 100.
[20] CROCETTI
BERNARDI E., Le discriminazioni nei
confronti degli atleti stranieri, in AA.
VV, Vincolo
sportivo e diritti
fondamentali, Pordenone, 2002, pp.
89-90;
[21] In Mass.
Giur. It., 2003,
[22] PESSI R., Decisioni dei giudici sportivi e diritto del
lavoro, in Gli effetti delle decisioni dei giudici sportivi, a cura
di C. Franchini, Giappichelli, Torino, 2004, p. 36.
[23] amplius CROCETTI BERNARDI E., Le discriminazioni nei confronti degli
atleti stranieri, in AA. VV, Vincolo sportivo e diritti fondamentali,
Pordenone, 2002, pp. 136-137.
Data di pubblicazione: 4 agosto 2006.
[AS1]Per una distinzione tra associazione e società, vedi amplius GALGANO, Il negozio giuridico, in Trattato di Diritto Civile e Commerciale, già diretto da A. cicu e F. Messineo e continuato da L Mengoni, p. 184---- AS, 30/05/2006, 18.13 ----