La crisi dell’impresa tra insolvenza
e difficoltà - rimedi vecchi e nuovi –
il concordato stragiudiziale.
Emilio Mormino
1. Linee
guida per la soluzione della crisi dell’impresa
2. La crisi
dell’impresa - prevenzione e risanamento
3. La legge
fallimentare del 1942 – rigidità del sistema ed effetti negativi
4. Il
concordato stragiudiziale
La crisi dell’impresa coinvolge il sistema
produttivo. La grande impresa influenza negativamente, sia sotto il profilo economico,
che occupazionale il macro-sistema ma non possono esser trascurate le refluenze
negative, che viene a subire il micro-sistema.
E’ un problema che sorge ed è presente nel mondo
produttivo internazionale, che viene affrontato nei vari ordinamenti giuridici
con sistemi e rimedi diversi.
Non sembra dubitabile la necessità di affrontare ed
adeguare le vecchie norme al sistema economico, finanziario e sociale, che
velocemente si va evolvendo.
E’ un processo che, ancor più nell’ambito commerciale
ed in particolare nella disciplina dell’impresa, storicamente si ripete: la
realtà economica e sociale, ovviamente influenzata dal sistema politico,
diventa necessariamente fonte ispiratrice del diritto.
Se così non fosse verrebbe a crearsi un conflitto
tra le norme, che impongono determinati comportamenti e le necessità
economico-sociali, che suggeriscono condotte diverse ed adeguate al sempre
crescente dinamismo del fenomeno industriale e commerciale.
In buona sostanza “la regolamentazione giuridica
non può dimenticare la realtà economica e sociale”[1],
specialmente in un momento storico di costanti innovazioni.
Esempi di tale necessario adattamento si
riscontrano nei Paesi di Common Law e principalmente negli Stati Uniti, dove
nel lontano 1978 è stato riformato l’US Code, con l’introduzione del Titolo XI,
sulla riorganizzazione delle imprese in crisi.
La normativa nord-americana (Chapter XI) è stata
ritenuta la linea guida per la riforma, nei vari Paesi, della disciplina del
fallimento e della crisi dell’impresa[2].
Essa mira alla continuazione dell’attività
d’impresa, alla miglior soddisfazione possibile dei creditori ed al
mantenimento dei posti di lavoro.
Protagonista è l’imprenditore in difficoltà, che
propone ai creditori un piano di ristrutturazione (reorganisation), ove, in sintesi, vengono raffrontati i risultati
dell’accordo proposto, con quello
raggiungibile con la liquidazione fallimentare (road map).
La reorganisation
può esser proposta anche nel caso di già avviata procedura fallimentare e ciò
entro 120 giorni dalla domanda (in genere del debitore), termine entro il quale
è sospesa ogni azione dei creditori.
La magistratura ha un ruolo limitato ed esterno,
lasciando in quanto l’amministrazione
viene lasciata all’imprenditore, tranne che i creditori, scontenti della
gestione diretta, non chiedano la nomina di un curatore.
Gli amministratori, cui viene attribuito il potere
di risolvere contratti troppo onerosi (affitti, forniture, ecc.) e di eliminare
rami di azienda improduttivi, unitamente alla domanda di ammissione alla
procedura fallimentare, devono presentare una relazione (disclosure statement) ove vengono individuate le cause della crisi,
gli strumenti per superarla e le modalità di
ripianamento dei debiti.
Spetta ai creditori (divisi in categorie – similar claims -) approvare, o meno, il
piano.
Il procedimento di votazione del piano, che si
svolge davanti al Tribunale, senza necessità della presenza dei creditori, (che inviano le schede ricevute, con la
manifestazione di voto),deve constatare, per l’approvazione della reorganisation”, di una doppia maggioranza e cioè il 51% dei
votanti, che rappresentino i 2/3 dei crediti votati. In questa fase il Giudice
assume un ruolo determinante, in quanto
deve valutare, con l’aiuto di esperti, la fattibilità (feasibility) del piano, che deve essere
idoneo a realizzare gl’interessi dei creditori (best interest of creditor’s
test) e può approvarlo anche in presenza di voto negativo di una classe di creditori,
che si ritengono pregiudicati. Ciò se il Giudice ritiene giusto ed equo il
piano, secondo la ratio della procedura collettiva che mira a conseguire
l’interesse di tutti e non di alcuni
creditori (classi), cui non è riconosciuto un diritto di veto[3].
La ratio della normativa in esame, il ruolo
preponderante degli accordi tra le parti, la suddivisone dei creditori in
classi, il ruolo essenziale degli esperti e quello marginale del Giudice, serve
a meglio intendere sia l’operato di alcuni magistrati italiani illuminati, che
hanno adattato la rigida normativa alle nuove esigenze, sia, ancor più, lo
spirito ed i contenuti della riforma, attuata in parte con il D.L. 14 marzo
2005 n. 35, convertito con modificazioni nella L. 14 maggio 2005 n. 80 e quindi
in modo completo con
Va, comunque, tenuto in conto che la considerata
normativa, pur se di valenza generale nelle linee principali, non può esser
calata per intero nel nostro ordinamento, senza gli adattamenti e le
spigolature, che la rendano compatibile con il nostro complesso corpus iuris.
In ogni possibile accadimento negativo la
prevenzione è il presupposto per evitare la ricerca e l’applicazione di
necessari rimedi postumi.
Il mercato globale, caratterizzato da estrema
competitività e variabilità degli elementi esterni, pone l’impresa nella
necessità di una costante e capace vigilanza
non soltanto sul mantenimento del ritmo di crescita programmato, ma su
tutti gli elementi interni ed esterni, che si presentano come difficoltà da
superare, sia che riguardino l’intera azienda, che alcuno dei suoi settori.
La capacità gestionale consiste quindi
nell’accorgersi tempestivamente delle disfunzioni e nell’intervenire
efficacemente per eliminarle, individuando il nesso causale tra le cause da cui
derivano e gli effetti di perturbamento, che producono[4].
Può affermarsi che il costante adeguamento della
gestione aziendale alla variabilità dell’ambiente esterno e l’attività volta
all’eliminazione di inevitabili errori di programmazione e di attuazione, che
s’intersecano con i cambiamenti, rappresentano degli elementi propulsivi
dell’azienda[5].
Il difetto dell’attività di prevenzione è
imputabile ad inadeguatezza della formula imprenditoriale ed incapacità, o
negligenza gestionale, che non può che determinare l’aggravarsi delle
negatività e quindi lo stato di crisi, che si manifesta inizialmente come
“incipiente” e successivamente “grave e diffusa”. Nel primo caso le disfunzioni
hanno già interessato varie aree gestionali, ripercuotendosi sui risultati
economico-finanziari, senza però generare ancora perdite ingenti e consolidate,
che possano compromettere l’equilibrio
aziendale.
Quel che più conta è che, in tale forma di crisi,
non viene intaccato l’elemento fiducia (all’interno con la gestione all’esterno
con banche e fornitori) e può esser
sufficiente una soluzione nell’ambito della gestione ordinaria.
Occorrerà, comunque, individuare i fattori di perturbamento
eliminandone cause ed effetti[6] e
procedere ad una rivisitazione della formula imprenditoriale, per una sua
maggiore razionalizzazione, ed ad un “riorientamento strategico” della gestione[7].
Non così semplice è il superamento della crisi
“grave e diffusa” al fine di pervenire al risanamento ed al recupero
dell’impresa, che presuppone, oltre all’esistenza di capacità professionali,
la possibilità di reperire nuove risorse
finanziarie, indispensabili al risanamento.
La crisi “grave e diffusa” coinvolge l’azienda nel
suo complesso e conseguentemente l’individuazione delle cause e dei rimedi per
eliminarle assume maggiore complessità ed incertezza.
L’impegnativa e delicata analisi non può logicamente affidarsi agli
stessi organi amministrativi che, per incapacità o negligenza, non sono stati
in grado di risolvere tempestivamente la crisi al suo sorgere e quindi ne hanno
determinato la gravità. Ciò a prescindere dal venir meno dell’elemento fiducia,
che, in ogni caso, inficerebbe ogni resipiscenza e qualsiasi soluzione, pur se
razionale, suggerita dai vecchi amministratori.
A
prescindere quindi dalla opportuna sostituzione della gestione, lo studio delle
possibili soluzioni di risanamento va affidata ad un esperto.
Qualora la complessa analisi arrivi a conclusioni
positive, per il salvataggio dell’impresa in crisi le modalità d’intervento,
che comunque presuppongono la reperibilità di nuove finanze, sono individuate:
a) nella ristrutturazione (modifica del rapporto prodotti/mercato);
nella riconversione (innovazione di tecnologia e di marketing, ricerca di nuovi
mercati e modifica della produzione); nel ridimensionamento (modifica riduttiva
delle dimensioni e della produzione dell’azienda) e nella riorganizzazione dei
settori operativi e della gestione, in ogni caso necessaria[8].
Lo
stato di crisi
grave e diffusa
dell’impresa determina una
incapacità di assolvere regolarmente le obbligazioni assunte e quindi coincide
con lo stato di insolvenza che, ai sensi dell’art. 5 della legge fallimentare,
determina la fallibilità.
Quel che è grave è che la formulazione di un piano
di ristrutturazione (ove possibile) necessita di tempi non brevi, che non
consentono di arginare la dichiarazione di fallimento, che può esser determinata anche da una sola
istanza presentata da un piccolo creditore.
In buona sostanza, in casi similari abbastanza
frequenti, viene inevitabilmente ad aprirsi una procedura fallimentare, che si
sarebbe potuto evitare in presenza di una diversa normativa, più consone alle
sempre maggiori esigenze di salvaguardia dell’economia e dell’occupazione[9].
Nell’attesa
dell’emanazione della nuova normativa, si era ipotizzato come sufficiente,
mutuando in parte la considerata disciplina americana, prevedere per
l’imprenditore un termine di 120 giorni da una specifica sua domanda (prefallimentare) entro il quale,
da un canto venissero sospese le azioni esecutive e tanto più le istanze di
fallimento, dall’altro l’imprenditore potesse scegliere la soluzione giuridica
da seguire (accordo di ristrutturazione dei debiti, concordato stragiudiziale,
concordato preventivo o fallimento).
Tale soluzione “guidata” avrebbe consentito di
salvare, ove possibile, ed eliminando ogni rigida preclusione, realtà finanziarie
ancora meritevoli, che, come ormai riconosciuto[10]
hanno funzione di utilità sociale.
All’insegna di una preventiva e ponderata
valutazione dei presupposti per la dichiarazione di fallimento la nuova
normativa all’art.
Ci si chiede (con risposta riteniamo positiva,
dovendo viceversa rilevarsi l’incongruità della previsione cautelare e/o
conservativa) se il Tribunale possa disporre la sospensione delle azioni
esecutive, espressamente prevista con la dichiarazione di fallimento (art. 51).
La disciplina
del fallimento e delle altre procedure concorsuali, dettata dal R.D. 16
marzo 1942 n°267, è stata improntata a principi rigidi, che, pur dando una
sufficiente certezza d’interpretazione e di applicazione ha determinato guasti all’economia, sempre
più evidenti e considerevoli con il crescere dello sviluppo economico nazionale
ed internazionale (globalizzazione) e con la formazione delle grosse
concentrazioni di capitale d’investimento.
I cardini del sistema, solo da recente innovato, si
fondano sul concetto di insolvenza (art. 5) supportato dal coevo art. 2221
c.c., e su quello, moralmente ineccepibile della par conditio creditorum (art.
2741 c.c.).
Il principio dell’insolvenza è stato scolpito in
modo lapidario dal precedente legislatore, determinando, per il Giudice, il
potere-dovere di rimuovere il dissesto la dichiarazione di fallimento
L’insolvenza deve manifestarsi esteriormente come
incapacità dell’imprenditore a “soddisfare regolarmente le proprie
obbligazioni”.
L’incapacità, rilevante per la configurabilità
dell’insolvenza, deve essere oggettiva ed irriversibile, non rileva l’entità
degl’inadempimenti, né che le obbligazioni siano estranee all’attività
d’impresa. Viene altresì ritenuto insolvente l’imprenditore che adempie
ricorrendo a mezzi rovinosi, o fraudolenti (con pregiudizio della par
conditio). Non esclude lo stato di insolvenza il verificarsi di un solo
inadempimento, né l’esistenza di un patrimonio superiore al passivo, elemento
questo preso in positiva considerazione da altri ordinamenti (Uberschuldung dei
§ 207-208-213 Konkursordnung tedesca; § 69 Konkursordnung austriaca).
Per dichiarare il fallimento il Tribunale deve
accertare il manifestarsi dello stato di insolvenza anche sulla base di
presunzioni (elementi gravi, precisi e concordanti), che hanno valore di prova
(art. 2729 c.c.).
Sotto il profilo, considerato al superiore punto 2,
l’insolvenza rappresenta lo stato irreversibile della crisi grave e diffusa,
che impone la liquidazione dell’azienda, non più produttivamente recuperabile.
Il concetto di insolvenza, quale presupposto
oggettivo del fallimento, è stato oggetto d’interpretazione da parte della
giurisprudenza, che talvolta ha applicato un criterio eccessivamente rigido ed
altre volte superficiale e massimalistico, successivamente corretto dal Giudice
di legittimità[11].
Elemento che ha aggravato l’inadeguatezza
dell’impianto liquidatorio della normativa sul fallimento, vigente fino al 15
luglio 2006, è quello della complessità della procedura e dei tempi di
liquidazione e di chiusura, nonché nella sottovalutazione della fase
prefallimentare[12].
Sotto quest’ultimo profilo la nuova legge,
interpretando ed assolvendo ad una necessità di salvaguardia, ove possibile,
del capitale dell’azienda in crisi, ha dettato un apposito articolo (art. 15),
che dispone un’attenta istruttoria prefallimentare “volta all’accertamento dei
presupposti per la dichiarazione di fallimento”. Ivi è previsto il deposito di
una situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore,
l’esperimento di eventuali mezzi istruttori, anche disposti d’ufficio e la
possibile nomina dei consulenti tecnici (in precedenza venivano concessi rinvii
solo a fronte di parziali pagamenti).
In passato l’esigenza di ponderare gli elementi
della crisi anche per consentire alle parti di adottare soluzioni di
salvataggio almeno di parte del patrimonio dell’impresa è stata assolutamente
trascurata.
Soltanto ultimamente, da parte di Giudici
illuminati, sono stati forzati, con un’interpretazione evolutiva in aderenza
alle nuove maggiori esigenze, i ristretti ambiti della c.d. fase
prefallimentare, per consentire soluzioni alternative e meno traumatriche del
fallimento[13].
La riforma
della normativa del fallimento, pur se generalmente ritenuta ormai da tutti
necessaria, ha suscitato reazioni negative da parte della dottrina e,
principalmente della giurisprudenza, ciò prendendo spunto dall’inserimento di
alcune (anche se determinanti) norme sul vecchio impianto.
Ci riferiamo a quanto verificatosi dopo la c.d. mini-riforma, attuata con il D.L. 14
marzo 2005 n. 35, convertito in legge, con modificazioni dell’art.1, comma
Nella cennata circostanza si è verificata una
reazione conservatrice della ratio ispiratrice del legislatore del 1942, basata
su una concezione accentratrice dei
poteri dello stato e dei suoi organi (nella specie dell’amministrazione della
Giustizia), oggi in pieno contrasto con i principi di uno stato liberale, ove
la funzione dello stato è ritenuta di guida e non di ingerenza nell’economia[14] e nei rapporti tra privati, diritti che la
nostra Costituzione (art. 41) ritiene comprimibili solo qualora risultino in
contrasto con l’utilità sociale[15].
Per quanto riguarda la reazione dei Giudici ai
contenuti della mini-riforma è stato ravvisato un loro risentimento per
l’introdotta privatizzazione ed accelerazione delle procedure concorsuali,
nonché la “ricerca di uno spazio
valutativo non assegnato dalla legge[16].
La dottrina non ha mancato di avanzare dubbi di
applicabilità, ipotesi di conflitto con la vecchia normativa e critiche, spesso
preconcette, che peraltro non sembra abbiano tenuto nel dovuto conto, nel caso
della mini-riforma, del principio dell’abrogazione tacita.
Infatti, quando si verifica un conflitto tra norme,
quella nuova prevale sulle precedenti specialmente, nel caso verificatosi con
l’entrata in vigore dell’art. 2, comma 1
e 2 del D.L. 14 marzo 2005 n. 35, ove le norme (anche se parzialmente)
introdotte erano fondate sulla ratio innovatrice della privatizzazione
dell’istituto, ratio supportata dalla L. 14 maggio 2005 n. 80, ove è contenuta
la delega al Governo di attuare “la riforma organica della disciplina delle
procedure concorsuali”, fissandone i principi base.
Con tale legge il Governo è stato delegato ad
emanare entro 180 giorni dall’entrata in vigore della predetta L. 80/2005 (15
maggio 2005), “con l’osservanza dei principi e dei criteri direttivi di cui al
comma 6, la riforma organica della disciplina delle procedure
concorsuali".
La riforma è stata attuata in due tempi[17].
In questa sede non possiamo che limitarci a
considerare la sostanziale novità della ratio, che ha radicalmente innovato,
con una inversione di fronte, la disciplina previgente.
La si ritiene una riforma organica e coerente, pur
se perfettible, che ha spostato i punti cardinali del sistema da un canto verso
il reale interesse dell’economia e dei creditori[18]
(c.d. privatizzazione), dall’altro determinando celerità al meccanismo
giudiziario attraverso l’adozione del rito camerale, cui peraltro sono
assegnati termini brevi, ed ancora attribuendo maggiori (e dovuti) poteri al
comitato dei creditori, ed al curatore stesso, cui è affidata la gestione della
procedura (art. 31) sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei
creditori, e non più sotto la direzione del giudice delegato, cui rimane il
potere autorizzativo sugli atti di straordinaria amministrazione (art.
In buona sostanza viene deflazionata la
giurisdizione, ed incentivate le procedure, volte alla conservazione del valore
residuo dell’impresa (od alla maggior convenienza per i creditori di una
liquidazione guidata in sostituzione della più lunga e costosa liquidazione
fallimentare) (art. 160 ss. e 182 bis L. F.).
Cardine del nuovo sistema è la figura dell’esperto
e le relazioni allo stesso demandate, che assurgono, pur nella salvezza di
eventuali fondate opposizioni, valenza di veridicità e valore probatorio di
elementi essenziali posti a base di richieste e di provvedimenti giudiziari[19].
Ulteriore novità, che snellisce il sistema, è
rappresentata dall’aver dimezzato i tempi dell’azione revocatoria fallimentare
(art. 67), mentre le previste esenzioni (art. 67, comma 3) trovano motivazione
(lett. a e b) nell’interesse alla prosecuzione dell’attività d’impresa (diversamente
al presentarsi anche di una minima, reversibile crisi s’interromperebbe il
flusso economico vitale), nella salvaguardia di chi acquista (al giusto prezzo)
l’abitazione principale, dei piani di ristrutturazione (lett. c. e d), e degli
atti compiuti in esecuzione del concordato preventivo e dell’accordo omologato
ai sensi dell’art. 182 bis, nonché dei pagamenti di prestazioni strumentali
“all’accesso alle procedure concorsuali” (lett. e e g) ed infine (lett. f) a
garanzia dei corrispettivi per prestazioni di lavoro dei dipendenti e dei
collaboratori del fallito.
Abbiamo considerato gli aspetti negativi e talvolta
abberranti della vecchia normativa fallimentare principalmente ricadenti sui
lunghi ed a volte interminabili tempi di definizione e sull’incidenza negativa
per i creditori di una liquidazione fallimentare in vece di quella ordinaria e
ciò quale iniquo sacrificio sull’altare del rigido principio dell’insolvenza.
Non si ritiene superfluo, in proposito, evidenziare
alcuni “casi emblematici”[20].
Adesso la tanto criticata riforma è legge dello
Stato ed ogni rilievo va rivolto al suo miglioramento.
Certamente non si può tornare indietro, dove come
abbiamo considerato troviamo ombre ed ostacoli alla salvaguardia delle nuove
pressanti esigenze, che hanno indotto altri Stati europei (Spagna, Francia e
Germania) ad allinearsi alla regolamentazione nord-americana.
Il progresso non può arrestarsi ed il diritto,
abbandonando principi non più consoni, deve porre nuove regole alla cambiata
coscienza sociale e politica, che da tempo si manifesta pressante.
La privatizzazione della disciplina delle procedure
concorsuali elimina in radice gli effetti negativi dell’abrogata normativa e si
ritiene che, comunque, abbia raggiunto obiettivi ormai irrinunciabili, quali: minor
lavoro per i Giudici, con l’utile effetto di dedicarsi ad altri procedimenti,
abbreviandone i tempi di definizione; accelerazione dei tempi della procedura,
con l’adozione del rito camerale; notevole economia per l’Amministrazione
Giudiziaria e quindi per il bilancio dello Stato[21];
maggior convenienza, o minor danno, per i creditori.
Il termine “concordato stragiudiziale” è utilizzato
per indicare gli accordi intercorsi tra imprenditore e creditori al fine di
evitare il fallimento, termine che, pur se mutuato dalla normativa fallimentare
(concordato preventivo e fallimentare) non trova riscontro nella legge e
comunque, non può ricomprendersi in una disciplina unitaria[22].
Invero i contratti stipulati hanno natura
eterogenea, pur se collegati da interdipendenza[23].
Alla base dell’accordo con ciascun creditore è,
ovviamente, la convenienza soggettiva del risultato extragiudiziale rispetto a
quello ottenibile dalla liquidazione fallimentare, accordo che pertanto assume
natura giuridica diversa, come transazione, novazione, remissione parziale del
debito, cessione di azienda o di parte di essa, di crediti, ecc.
La maggior convenienza e speditezza nel risolvere
la crisi dell’impresa al di fuori delle procedure concorsuali ha determinato,
come detto, soluzioni stragiudiziali, attraverso le quali, anche superando il
dogma della par conditio, regolare in vario modo le posizioni, garantendo nei
limiti del possibile la prosecuzione dell’attività aziendale[24].
Particolare attenzione viene attribuita alla
posizione del ceto bancario, che normalmente, anche per l’ordinaria
sottocapitalizzazione delle imprese, è tra i creditori il maggiormente esposto
e, conseguentemente, determinante per l’accettazione della proposta, avanzata
dal debitore attraverso il piano, o programma di ristrutturazione[25].
Il ruolo centrale dei creditori finanziari è
determinato non soltanto dall’entità dei crediti ma anche dalla necessità di
sostenere l’impresa in crisi con l’assistenza finanziaria (nuova finanza
generalmente concessa da un pool di banche)[26].
Nell’accordo stragiudiziale, che prevede il
recupero del valore dell’azienda attraverso la sua ristrutturazione, ovvero la
sua liquidazione, nei tempi e con le modalità stabilite (allorché è stimata più
conveniente della liquidazione fallimentare) è fondamentale il programma,
predisposto dall’imprenditore, che, dopo aver analizzato le cause della crisi,
indichi i rimedi da applicare per la prosecuzione dell’attività aziendale, i
risultati ed i tempi per pervenire al risanamento dei debiti[27].
È evidente che la valutazione cambia oggetto,
ovverosia non è più la considerazione delle garanzie patrimoniali tradizionali,
bensì la capacità di ripresa produttiva e/o il miglior (rispetto al fallimento)
risultato di una liquidazione guidata[28].
Il nodo cruciale, è rappresentato dalla categoria
dei fornitori e dai creditori vari (professionisti, ecc.) che, pur
rappresentando in genere una massa creditoria di minor consistenza rispetto
alle banche, è caratterizzata dalla disomogeneità e dal numero elevato dei
componenti (oltrecchè spesso di inadeguata cultura aziendale). Ciò ha
determinato che una minoranza, o solo un creditore abbia reso impercorribile il
programma[29].
L’unico rimedio, ormai costantemente attuato, è
l’inosservanza del dogma della par conditio, giungendo a prevedere l’integrale
pagamento per alcune categorie, o per alcuni creditori[30].
Malgrado le ottimistiche statistiche[31]
sembra che la percorribilità del concordato stragiudiziale possa limitarsi non
soltanto ai casi di preminente posizione creditoria delle banche, e di
superamento della par conditio, ma principalmente allorchè sussistano nuove
disponibilità finanziarie, necessarie, quantomeno, a soddisfare integralmente i
creditori minori.
Non trascurabile effetto, che si verifica
all’interno della compagine sociale durante il periodo della ristrutturazione,
è quello della flessione dell’interesse sociale, come interesse dei soci, per
concentrarsi in quello dei creditori, divenendo questo ultimo un “interesse
sociale” alternativo[32].
La formulazione di un accorto ed articolato
programma e la sua approvazione da parte dei creditori (con sacrifici cui
partecipa la proprietà con i possibili interventi finanziari), non è di per sé
sufficiente in quanto presuppone il superamento, da parte degli amministratori
proponenti, dei rischi di coinvolgimento personale di natura penale, per aver
ritardato il fallimento (art.
La tardività con la quale normalmente viene
affrontata la crisi, cui non sembra estranea una carenza di sufficiente analisi
da parte delle banche affidanti, ha inciso sulla compiutezza del “programma”,
che certamente rappresenta un punto
chiave del meccanismo, anche in ordine alla esclusione delle responsabilità
personali dei proponenti (art.
Sotto ogni profilo è stata, quindi, manifestata
l’esigenza di una riforma normativa del fallimento e delle procedure
concorsuali che, abbandonando la tentazione di una presunta tutela dei
dipendenti e la “vocazione pubblicistico-amministrativa”,[35]
segua le esigenze pressanti del sempre più rapido e complesso evolversi del
sistema economico[36].
Si sono già evidenziati i rischi (e quindi le
remore per la sua proposizione), che il concordato stragiudiziale in passato ha
determinato sia per il proponente (che nel caso di insuccesso e successivo
fallimento poteva rispondere del reato di bancarotta semplice (art. 217, n.
Il reato in parola presuppone il dolo specifico del
debitore, consistente appunto nel favorire alcuni creditori pur consapevole
dell’eventualità di arrecare pregiudizio alla massa, elemento che, nel caso di
concordato stragiudiziale, cui normalmente non aderiscono tutti i creditori, è
in re ipsa (in quanto sussiste la consapevolezza di arrecare pregiudizio ai non
aderenti a meno che non si riesca a provare che si aveva l’intenzione e la
disponibilità di pagare integralmente i creditori dissenzienti)[38].
° ° °
La riforma organica della disciplina delle
procedure concorsuali, attuata dal D. Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, entrata in
vigore il 16 luglio 2006, non ha direttamente disciplinato il concordato
stragiudiziale, occupandosi comunque di introdurre, in seno alla disciplina
dell’innovato concordato preventivo (artt. 160 ss. L.F.), gli “accordi di
ristrutturazione dei debiti”,[39]
espressione ulteriore della c.d. “privatizzazione” dell’istituto ( art. 182 bis
L.F.).
Tuttavia, indirettamente, e non a caso, il nuovo
legislatore ha eliminato i già considerati elementi ostativi (revocatoria e
ipotizzabilità dei reati ex art. 217, comma 1 n. 4 e 216, comma
°°°
La soluzione indiretta ruota sulla figura
dell’esperto, al quale la nuova disciplina fa riferimento all’art. 67 comma 3
(esenzione della revocatoria) all’art. 161 (domanda di concordato preventivo),
all’art. 182 bis (accordi di ristrutturazione), affidandogli il delicato ed
impegnativo compito di valutare la situazione finanziaria dell’impresa e
prospettare un percorribile programma di risanamento, con una relazione che, se
positiva, determina gli effetti previsti nelle richiamate norme, ovverosia
l’esenzione dalla revocatoria, l’ammissibilità del concordato preventivo e
l’omologabilità dell’accordo di ristrutturazione dei debiti.
Vanno subito chiarite da un canto quali siano le
qualità professionali dell’esperto, richieste dalla legge, dall’altro la sua funzione
certificativa e gli effetti della stessa.
Invero la nuova legge utilizza vari termini e
requisiti per definire la figura dell’esperto:
a) Così all’art. 67, comma 3, lett. d, stabilisce
l’esenzione dalla revocatoria allorchè gli atti di disposizione siano “posti in
essere in esecuzione di un piano, che appaia idoneo a consentire il risanamento
dell’esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della
sua situazione finanziaria e la cui ragionevolezza sia attestata ai sensi dell’art.
2501 bis, quarto comma del codice civile” (fusione con indebitamento).
Tale rinvio chiarisce requisiti e funzioni
dell’esperto e le responsabilità per
danni causati dalla sua relazione.
Infatti l’art. 2501 sexies dispone che gli esperti
devono essere scelti tra i revisori contabili e le società di revisione (art.
409 bis, comma 1 c.c.) e che la relazione degli esperti “attesta la
ragionevolezza delle indicazioni” e quindi del programma (art. 2501 bis, comma
4 c.c.). Peraltro agli artt. 2501 bis, comma 2 e 3 e 2501 sexies, ult. comma,
sono indicati i contenuti, che deve avere la relazione.
Per quanto riguarda le responsabilità degli esperti
viene fatto espresso rinvio all’art. 64 c.p.c. (art. 2501 sexies, comma 6
c.c.).
b) Il ricorso per l’ammissione alla procedura di
concordato preventivo deve essere accompagnato “dalla relazione di un
professionista di cui all’art. 28, che attesti la veridicità dei dati aziendali
e la fattibilità del piano” (art. 61, comma
A sua volta l’art.
c) Infine l’ art. 182 bis L.F. prevede che
l’accordo di ristrutturazione sia correlato da “una relazione redatta da un
esperto sull’ attuabilità dell’accordo…”.
In buona sostanza nel caso sub a), in virtù del
rinvio alle norme sulla fusione, il legislatore ha previsto un esperto, con
particolari caratteristiche, nel caso sub B) un “professionista “ in possesso
dei requisiti per la nomina a curatore e nel caso sub c) ha fatto riferimento
ad un esperto, senza altra indicazione.
Tale differenziazione è stata oggetto di aspre
critiche[40]
di parte della dottrina e qualificata come “irragionevole” e “frutto di una
scritturazione a più mani non coordinata”[41].
Riteniamo che la ratio che ha ispirato il
legislatore sia stata quella di esigere dai consulenti una professionalità
diversa e mirata alla maggiore, o minore rilevanza della funzione demandata
alla relazione, con riferimento alle norme, ove è prevista[42].
Così sembra evidente che, nell’ ombrello escludente
della revocatoria fallimentare, che direttamente riguarda il concordato
stragiudiziale e la sua agevolata percorribilità ( art. 67, comma 3, lett. D) l’idoneità
del “programma “ e la sua ragionevolezza deve poter resistere alla valutazione
del Giudice, nel caso di proposizione dell’azione revocatoria. Da ciò la
necessità di un’autorevole e competente compilazione del piano, che scoraggi
tentativi strumentali.
Per quanto riguarda la relazione richiesta per
l’ammissione alla procedura di concordato preventivo sembra equo ed equilibrato
il rinvio all’art.
Il nuovo concordato stragiudiziale viene quindi a
configurarsi come un’ulteriore forma di ristrutturazione[43]
introdotta nel regime di risanamento dell’impresa, che consente a debitori e
creditori di pervenire ad un accordo stragiudiziale, eliminando gli elementi di
rischio, che ne avevano limitato la percorribilità.
Tale risultato è divenuto raggiungibile, ripetiamo,
con l’introduzione della figura dell’esperto e della portata asseveratrice
della sua relazione (art. 67, comma 3 lett. D L.F.) che non soltanto rende
ipotetica l’impugnativa dell’azione revocatoria, ma copre il proponente dai
rischi d’ imputazione di bancarotta semplice ( art.
Sono a nostro avviso non condivisibili i rilievi, e
le preoccupazioni di favorire condotte abusive, mossi da molti autori.
Rileviamo innanzitutto che è previsto che il piano
di risanamento abbia caratteri di analiticità e completezza[45]
e che ragionevolmente profili sia “il risanamento
della esposizione debitoria dell’impresa”, sia “il riequilibrio della sua
situazione finanziaria”, e quindi la continuazione dell’attività. Il richiesto
contenuto oggettivo e quindi elemento essenziale per l’esenzione.
Da ciò consegue che, ove successivamente venisse
dichiarato il fallimento ed il curatore esercitasse l’azione revocatoria, il
difetto anche parziale dei suddetti presupposti determinerebbe
l’inapplicabilità dell’art. 67 lett. D e quindi la revoca di tutti gli atti, i
pagamenti e le garanzie concesse dall’imprenditore in esecuzione del piano[46].
Non è quindi ipotizzabile, come da alcuni
sostenuto,[47]
che la fattispecie di esenzione in argomento possa “favorire condotte abusive”,
proprio in quanto destinate successivamente a ritorcersi contro l’imprenditore,
anche sotto il profilo penale ( art. 217 e
Né sembra possa incidere negativamente sulla
positività della fattispecie il fatto che l’esperto non sia stato nominato dal
Giudice, ma dall’imprenditore in difficoltà,[48]
in quanto è di tutta evidenza e rilevanza la sorveglianza dei creditori sulla
veridicità ed efficacia delle componenti del piano (a volte i creditori stessi
impongono la scelta dell’esperto).
Tali componenti assicurano l’attendibilità della
relazione, che, in ogni caso, è suscettibile della valutazione del Giudice,
nell’eventuale azione revocatoria, intrapresa dal Curatore.
E’ stata altresì ipotizzata una debolezza, o
lacuna, nella previsione del piano, che determinerebbe il difetto di tutela dei
creditori minori. In particolare è stato
sostenuto che “ saranno le banche a pretendere (o a redigere e a far adottare)
un piano che comprenda tutte le operazioni di finanziamento e le connesse
garanzie in modo da tutelarsi in caso di esito infausto del tentativo[49].
A prescindere dal fatto che il piano deve contenere l’aggiornata situazione
patrimoniale dell’impresa (art. 2501 quarte c.c.) e quindi deve esser
ipotizzato il risanamento anche dei debiti minori (elemento questo che fa parte
della ragionevolezza, chiesta dalla norma esimente), sembra evidente che anche
le banche, per scongiurare “ l’esito infausto del tentativo”, siano indotte a
tutelare anche i crediti minori, per evitare che questi prendano l’iniziativa
per una dichiarazione di fallimento, che non conviene a nessuno.
I poteri certificativi dell’esperto vengono
bilanciati dalle gravi responsabilità poste a suo carico. A prescindere dalla
responsabilità civile (art. 2043 c.c.), già considerata, art. 2501 bis, comma
4, determina, per espresso richiamo dello stesso l’applicabilità dell’art. 2501
sexies, che al comma 6 dichiara applicabili reati a carico dei consulenti, di
cui all’art. 64 c.p.c. e cioè quelli previsti dagli art. 733 ss. c.p.[50].
Una verifica sull’adeguatezza e verità del piano
viene comunque effettuata dai creditori, con l’attenzione e professionalità che
merita la tutela dei loro interessi[51].
***
La nuova normativa ha quindi introdotto tre diversi
strumenti di gestione e superamento della crisi aziendale, che, pur aventi
identico presupposto oggettivo (superamento della crisi, in esso compreso lo
stato di insolvenza ) si distinguono per il contenuto più o meno ampio[52].
[1] Per una visione storica del fenomeno vedi G.
Ferrara in Enciclopedia del diritto,
voce Diritto Commerciale, Milano – Giuffrè.
[2] N. Segal, An
Overview of Recent Developments and Future Prospect in the United Kingdom, in
J. S. Zieged, Current Developments in International and Comparative Insolvency
Law, New York, 1994; G. Rossi, Crisi delle Imprese: la soluzione
stragiudiziale, in Riv. Società, 1996,
321 ss.
[3] Charles G. Case “Crisi dell’impresa e risanamento:
la soluzione americana”, relazione al Convegno dell’Associazione Nazionale
Commercialisti, Roma 2 febbraio 2005.
[4] C. Vergara – I processi di risanamento e di
prevenzione delle crisi aziendali, in …………….
[5] Gli elementi propulsivi dell’azienda rappresentano
nel contempo fattori fondamentali della prevenzione della crisi. Essi vengono
sintetizzati nei principi della
“tensione alla qualità” e della “creatività diffusa”.
Del primo concetto fa parte la riduzione dei costi, che determina il
miglioramento della competitività (senza flessione della qualità), il
miglioramento dei mezzi di produzione, il costante confronto fra le aree di “Ricerca e sviluppo”, “Produzione”, “Marketing” e “Controllo di
gestione”, lo sviluppo delle risorse umane e della fiducia reciproca
(C.Vergara, op. cit., p. 195; M. Modica: “Il controllo e la valutazione del
cambiamento organizzativo”, Giuffrè, Milano 1984, p. 100 e ss.).
Per creatività s’intende la capacità dell’impresa di produrre
ricchezza, rinnovando se stessa, creando nuove risorse ed un aumento di
ricchezza (output).
[6] A. Riparbelli, “Il contributo della ragioneria
nell’analisi dei dissesti aziendali”, Vallecchi, Firenze 1950, p. 200 ss.
[7] V. Coda, “La valutazione delle formula
imprenditoriale”, in Sviluppo e Organizzazione n. 82, marzo-aprile 1984; C.
Vergara, op. cit., p. 185/87.
[8] La misura dei mezzi finanziari necessari per
sopperire alle esigenze di ricostituzione del capitale di un’impresa da
risanare, scrive Coda V., Ruolo della
proprietà nei risanamenti d’imprese, in op. cit., pag. 687, sono definite:
“1) dall’ammontare dell’eventuale deficit patrimoniale accumulato dalle passate
gestioni (pari alle perdite di esercizio non ripianate meno il capitale sociale
e le riserve, palesi o nascoste); 2) dalle perdite che dovranno ancora
sostenersi prima di raggiungere il punto di pareggio; 3) dall’ammontare minimo
del capitale sociale stabilito dalla legge; 4) dall’ammontare minimo della
dotazione di mezzi propri che i terzi finanziatori (banche, fornitori)
giudicano necessario per concedere all’impresa il credito e la fiducia di cui
ha bisogno; 5) dall’eventuale esigenza di abbassare la soglia di difficoltà del
risanamento fino al livello delle capacità del management.
[9] C. Vergara, op. cit., p. 180 ss.; L. Quatri, Crisi
e risanamento delle imprese, p. 53, 54 Giuffrè, Milano 1986.
[10] De Woot P., Imprenditorialità e creatività: ruoli
tradizionali e ruoli nuovi dell’Impresa, in Strategia sociale dell’Impresa a
cura di R. Pastore e G. Piantoni; G. Etas Libri; C. Vergara, op. cit., p. 197.
[11] App. Brescia, 18 novembre
[12] Trib. Bologna 9 aprile
[13] Ci si riferisce al caso della Serafino Ferruzzi
s.r.l., ove il Tribunale, in presenza di trattative in corso, ha diluito la
fase prefallimentare per far maturare gli accordi, che sono stati raggiunti. Di
grosso rilievo è che il Tribunale non ha sindacato né il merito del concordato
stragiudiziale, che pur violava la par conditio dallo stesso giudicante
ritenuta “ principio generale derogabile dall’accordo delle parti”. Seminario
di studi sulle procedure concorsuali. Genova 15-16 marzo 1996.
[14] Trattasi del periodo in cui è stata creata
l’industria di Stato con l’istituzione dell’apposito Ministero delle
Partecipazioni Statali, e la costituzione di IRI, ENI, ed EFIM ecc. enti
pubblici economici, con fine di lucro e disciplina privatistica.
[15] Il principio della libera iniziativa economica è
un principio cardine della nostra Costituzione, pur se condizionato dalla non
contrarietà all’utilità sociale. In proposito una recente sentenza del
Consiglio di stato (C. St. 1 luglio 2002 n.°
[16] G. Fanciglia, in
Dir. Fall. 2006, Vol LXXX, p. 153 ss.
[17] ) L. 14 maggio 2005 n. 8 e D. Lgs. 9 gennaio 2006
n. 5.
[18] Il Ferrara ne “ Il Fallimento”p.74, ha sostenuto
che il fallimento è disposto nell’interesse dei creditori e serve nella
realizzazione dei loro diritti, limitando l’interesse pubblico, persecuzione
dei reati commessi dall’insolvente. Di ciò si trova conferma nella riapertura
del fallimento, cui sono legittimati soltanto i creditori.
[19] Alcuni autori, configurano nella novella un favor
verso categorie interessate (imprenditori, creditori qualificati, consulenti ed
esperti), e quindi nei loro confronti una grossa apertura di credito, che
augurano possa trovare rispondenza della realtà dei fatti – Gianvito Gannelli,
Concordato preventivo ecc., in Dir. Fall., vol.LXXX, 2005, p. 1156 ss.
[20] a) Il
Tribunale di Messina, con sentenza n. 323/1977 dichiarò il fallimento della
società di fatto tra i Sigg. X ed Y, e ai sensi dell’art.
Quel che sorprende è che la liquidazione dell’attivo fallimentare,
anche a prescindere dai due immobili acquisiti alla massa in forza del positivo
giudizio di simulazione, consente il pagamento integrale dei creditori e delle
spese in prededuzione, in esse compreso il compenso al Curatore (certamente
lauto per trent’anni di lodevole e proficuo svolgimento dell’Ufficio!).
I principi fondamentali
della normativa, insolvenza e par
conditio, sono stati appieno osservati, i creditori soddisfatti integralmente e
quindi tutto bene!!! E’ fin troppo evidente come nel caso prospettato, si sia
verificato un indubitabile danno per i creditori che dopo 30 anni riscuoteranno
solo nominalmente l’intero ammontare dei propri crediti, viceversa enormemente
falcidati dalla svalutazione e dal blocco degl’interessi (è molto probabile che
coloro che riscuoteranno, saranno gli eredi dei creditori): un danno per
l’economia e l’occupazione ed un elevatissimo ed ingiustificato costo per
l’amministrazione giudiziaria.
b) Il Tribunale di Palermo, con sentenza n. 161/2003 ha dichiarato il fallimento
della Soc. X, in amministrazione giudiziaria in forza di decreto del Tribunale
per le misure di prevenzione. Il fallimento è stato chiesto dall’Amministratore
Unico, nominato dal Commissario Giudiziale, in presenza di un’istanza di alcuni
lavoratori (ritirata nella fase prefallimentare in seguito al pagamento
effettuato dai soci della fallita società) e di alcune ingiunzioni (poi
scoperte di modesto ammontare) che, malgrado reiterate richieste dei soci, che
volevano pagare effettuando versamenti in conto capitale, mai palesate. Nella
fase prefallimentare la società si è opposta alla dichiarazione di fallimento
evidenziando: a) che quasi tutte le obbligazioni (specialmente nei confronti
del ceto bancario e finanziario) erano a medio e lungo termine; b) che la
società possedeva immobili di valore notevolmente superiore al passivo; c) che
gl’inadempimenti, di modesta entità, sarebbero stati saldati dai soci; d) che
lo stato di difficoltà della società era dovuto ad un elemento esterno
(provvedimento del Tribunale) e temporaneo; e) che occorreva mantenere
l’attività d’impresa per risolvere la crisi
salvando nel contempo l’occupazione di oltre 30 dipendenti. Nonostante
la volontà di adempiere il Tribunale, non concedendo termine per trovare
soluzioni concordate, ha dichiarato il fallimento. Da ciò consegue che i
creditori saranno soddisfatti in tempi lunghi (già sono trascorsi inutilmente
tre anni), che 30 dipendenti hanno perso il lavoro, che si è irrimediabilemte
perso il valore residuo dell’impresa e che tanto lavoro avrà il Tribunale (è
pendente, in primo grado, giudizio di opposizione alla sentenza dichiarativa di
fallimento).
[21] Una approfondita critica alla precedente normativa
sia in ordine ai risultati, che a i costi del sistema, troviamo in Borontini in
Costi del fallimento e gestione della crisi nelle procedure concorsuali,
Università Cattolica del Sacro Cuore- Centro studi finanziari, Milano, aprile
1996; Cornernelli-Pelli, Efficiecy of Bankrupty Procedury, in temi di
discussione, Banca d’Italia, n° 245, dicembre 1994.
[22] Azzolina, Il Fallimento, Vol. III, p. 1596 ss., o
UTET. In senso contrario, R. Provinciali, Il Fallimento, vol. III, p. 2522 ss.,
il quale con un laborioso tentativo di reductio ad unitatem ravvisa nel
concordato stragiudiziale “quel contratto giuridicamente idoneo ad evitare il
fallimento”. Da ciò conseguirebbe che, qualora non si eviti il fallimento,
l’atto sarebbe viziato per mancanza di causa. Si ritengono fondate le critiche
mosse a tali tesi, sia perché non individua gli elementi strutturali del
contratto, sia perché è sembrato più idoneo attribuire al proposito di evitare
il fallimento la natura di motivo o di condizione (sospensiva o risolutiva) di
efficacia degli accordi intercorsi, regolati dalle norme generali, afferenti i
vari tipi di contratto, che li compongono.
[23] G. Ferrara jr., Il Fallimento, p. 600, Milano,
Giuffrè.
[24] P. Guerra, Ristrutturazione del debito e
assistenza finanziaria all’impresa: il c.d. consolidamento dei crediti bancari,
in Banca, borsa, ecc, 1995, I, p. 807.
[25] Il ricorso, sempre maggiore, al concordato
stragiudiziale è stato attribuito da un canto, all’inadeguato sistema normativo
ed all’incapacità del legislatore, protrattasi per decenni, di affrontare
adeguatamente la crisi dell’impresa, dall’altro
alla tendenza del sistema capitalista a privatizzare il diritto
fallimentare, vedi G. Rossi, Crisi delle imprese: la soluzione stragiudiziale,
in Riv. Soc. 1996, p. 321 ss.
[26] Vien fatto notare come le banche affrontano la
crisi dell’impresa a seconda della sua gravità, pervenendo in un momento
iniziale di difficoltà al c.d. consolidamento, che può assumere varie forme:
dilazione dei pagamenti dell’intera esposizione, stralcio degli interessi e/o
di parte del capitale, rinegozziazione (mutui fondiari); trasferimento dei beni
sociali, conversione delle azioni, o quote, in capitale sociale, da conferire a
newco appositamente costituite (a seguito della sentenza Cass. 10 dicembre 1992
n.
[27] P. Guerra, op. cit., che sottolinea la necessità
per il sistema bancario di dotarsi di uno staff adeguato ad effettuare una
esatta valutazione del programma.
[28] P. Guerra, op. cit., il quale auspica una
incentivazione delle banche nel ruolo di merchant
bank.
[29] I piccoli creditori, in particolare, sono portati
al dissenzo o per volontà punitiva (con modesto sacrificio) o per tentare di
ricevere un prezzo più elevato.
[30] G. Rossi, op. cit., p. 330; P. Guerra, op. cit.,
p. 810.
[31] P. Guerra, op. cit., p. 814.
[32] G. Rossi, op. cit., p. 328
[33] G. Rossi, op. cit., p. 324, 325.
[34] La relazione degli esperti sull’attuabilità
dell’accordo, diventa con la nuova normativa
un elemento essenziale del meccanismo, che, unitamente all’esenzione
dell’azione revocatoria (art. 67 comma 3, lett. A) rende percorribile,
eliminando i rischi evidenziati, le soluzioni stragiudiziali della crisi.
[35] Miseramente fallita con la “legge Prodi”, che, a
prescindere dai divieti assistenziali imposti dalla C.E., si è rilevata di
“sterile inutilità” (G. Rossi, op. cit., p. 331).
[36] Alcuni autori (G. Rossi, op. cit., p. 326-327), in
assenza dell’attesa riforma, hanno immaginato che la magistratura, attraverso
una interpretazione evolutiva del non più adeguato sistema normativo, potesse
attuare le nuove esigenze. Tale ottimistica tesi si è ispirata ad alcune
decisioni, quale quella adottata nel caso della Serafino Ferruzzi s.r.l., che
certamente sono espressione di una moderna cultura giuridica e consapevolezza
del ruolo (aderenti allo spirito della norma, teoricamente intesa come la
regola migliore immaginabile in un certo momento storico) ma che, certamente,
non determinano la certezza di generale applicazione, ma sono dirette e
destinate a determinare pericolose disparità di trattamento. In buona sostanza
l’intervento del legislatore è insostituibile (G. Rossi, op. cit., p. 326-327).
[37] Santi Frascaroli, Effetti della composizione
stragiudiziale dell’insolvenza, Padova 1995.
[38] Ci si chiede se il successivo pagamento dei
dissenzienti con la stessa percentuale degli aderenti venga a ledere la par
conditio, configurando il reato, ovvero se tale ipotesi ne sia esimente, pur se
la par conditio viene prefigurata dal debitore e non verificata dal Giudice.
[39] Già in vigore ai sensi dell’art.
[40] M. Ferro, nuovi strumenti di regolazione
dell’insolvenza e la tutela giudiziaria delle intese fra debitore e creditori :
storia italiana della timidezza competitiva, in Fallimento, 2005, 595.
[41] G. Verna, Sugli accordi di ristrutturazione ex art.
182 bis L.F., in Fallimento, 2005, p. 874. L’ autore fra l’altro, limita la
responsabilità dell’esperto nei ristretti limiti previsti dall’art. 2043 c.c.,
tesi che, come approfondiremo in seguito, non tiene conto di altre più pesanti
sanzioni, che rafforzano il corretto e professionale compito dell’esperto.
[42] In tal senso M. Caffi, Considerazioni sul nuovo
art. 182 bis L.F. in Fallimento, 2005, p. 878.
[43] G.Giannelli, Concordato preventivo, accordo di
ristrutturazione dei debiti, piani di risanamento dell’impresa …, in Fallimento
2005, 1171, 1172.
[44] Viene infatti a mancare l’elemento soggettivo del
reato e cioè il dolo specifico, consistente nell’intezione di favorire alcuni
creditori con la consapevolezza di poter arrecare pregiudizio alla massa.
[45] A. Nigro – Commento all’art. 67 pp. 376-
[46] In tal senso anche Santangeli F., Commentario al
Nuovo Fallimento, p. 287 ss., Milano, Giuffrè, maggio 2006.
[47] A. Nigro, op. cit.
[48] Santangeli, op. cit., p. 289; Zanichelli, La nuova
disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Commentario
all’art. 67/d, UTET, 2006.
[49] Zanichelli, op. cit. Per converso va notato che le
regole preposte alla concessione del credito, che le banche sono tenute ad
osservare, impongono la previsione di rientro dalle esposizioni accordate con
mezzi ordinari di pagamento, riscontrati esistenti (o di certa prevedibilità),
mentre l’acquisizione di garanzie va valutato come elemento accessorio di
supporto.
[50] Va in proposito aggiunto un’ulteriore riflessione:
qualora l’esperto incorresse in false attestazioni o dichiarazioni, le stesse
si ritorcerebbero contro l’imprenditore, che incorrerebbe nel reato previsto
all’art.
[51] A proposito della valenza delle consulenze non
sembra sussistere una concreta differenza di credibilità tra le consulenze,
disposte dal Giudice, e quelle che assistono un imprenditore nei piani di ristrutturazione,
destinati al confronto con i creditori (soggetti direttamente interessati).
Peraltro non può negarsi che in tal ultimo caso sovviene la presunzione
dell’interesse del debitore a superare (con il consenso dei creditori) la
crisi, nominando un esperto di non discutibile ed elevata qualificazione
professionale.