L’imprenditore ittico
secondo il d.lgs. n. 154 del 26 maggio 2004 *
Eva Faraci **
Al fine di chiarire e
precisare lo stato attuale della legislazione in tema di imprenditore ittico
appare necessario, preliminarmente, evidenziare l’evoluzione normativa che ha caratterizzato
il diritto della pesca in generale, ed in particolare, l’impresa ittica[1],
facendo un breve excursus che tenga conto delle ragioni che hanno
portato, in un certo senso, a far migrare il diritto della pesca dal diritto
della navigazione al diritto agrario.
Tale migrazione è stata
determinata ed indirizzata dalla evoluzione normativa intervenuta sul tema e
dall’influenza delle norme comunitarie da sempre improntate alla assimilazione,
stante il fine comune della produzione per scopi alimentari, della pesca
all’attività agricola.
Esemplare è in tal senso
l’art. 38 del Trattato di Roma secondo cui “Per prodotti agricoli
s’intendono i prodotti del suolo, dell’allevamento e della pesca”.
La copiosa normativa
intervenuta in materia di pesca nel corso degli anni è segnata dal passaggio da
una iniziale concezione della pesca quale libera esplicazione di facoltà umane,
con la conseguente prevalenza degli interessi privatistici in vista
dell’individuazione e della tutela di un vero e proprio diritto soggettivo, lo ius piscandi, ad una progressiva e
graduale pubblicizzazione della materia (esemplare in tal senso è il cammino da
un regime in cui vigeva il permesso di pesca ad uno in cui viene introdotta la
licenza di pesca rilasciata in via del tutto discrezionale dall’autorità, con
conseguente degradazione dello ius piscandi a mero interesse legittimo).
La progressiva
pubblicizzazione va necessariamente intesa anche quale effetto degli spunti
emergenti dalla normativa internazionale, in particolare dalla Convenzione
delle Nazioni Unite sul diritto del mare di Montego Bay del 1982, dalla quale
emerge la consapevolezza della esauribilità delle risorse biologiche marine e
la necessità di provvedere ad un ridimensionamento della libertà di pesca e ad
una elevazione al grado di interesse generale e pubblico delle esigenza
connesse allo sfruttamento delle risorse medesime, al fine di consentirne lo
sfruttamento ottimale ed evitarne l’impoverimento o addirittura l’esaurimento.
Anche nella legislazione
internazionale, come in quella comunitaria, emerge ed assume rilievo
preminente il fine economico- produttivo
perseguito dall’attività di pesca, ossia la produzione di organismi acquatici
da immettere sul mercato per esigenze alimentari, piuttosto che il momento
tecnico strumentale dell’utilizzazione della nave.
Oltre ad una graduale
pubblicizzazione della materia si assiste al passaggio, ai fini di un
inquadramento sistematico del diritto della pesca, dal diritto della
navigazione al diritto agrario.
Il codice della navigazione
dedica poche norme (artt. 216-223 e art. 408 reg.) all’attività di pesca,
limitandosi peraltro a regolare unicamente l’attività di pesca marittima tra le
navigazioni speciali e senza far alcun cenno alla pesca nelle acque interne,
secondo una impostazione che privilegia l’aspetto strumentale della navigazione
(il c.d. momento nautico), e si contrappone alla impostazione della normativa
comunitaria che sembra assegnare un ruolo centrale al fatto economico della
produzione per fini alimentari, al fine di giungere ad una equiparazione della
pesca all’agricoltura.
In sintesi, mentre per il
codice della navigazione e per la successiva legislazione italiana è centrale,
ai fini dell’inquadramento sistematico, il momento nautico, ciò che rileva per
la legislazione comunitaria è l’aspetto economico-funzionale della produzione
di organismi acquatici da immettere sul mercato per finalità alimentari, al
pari di quanto accade per i prodotti del suolo e dell’allevamento.
Oggi può dirsi che il
diritto della pesca è una disciplina caratterizzata da scarsa omogeneità,
risultando, per un verso in considerazione del momento nautico, parte del
diritto della navigazione, per altro, laddove ci si riferisca all’allevamento e
quindi all’acquacoltura, parte del diritto agrario, e per altro ancora,
assegnando ruolo preminente al fine economico della produzione per esigenze
alimentari, condizionata da norme e principi contenuti in fonti sopranazionali.
Conseguentemente,
l’inquadramento tradizionale del diritto della pesca all’interno del diritto
della navigazione, fondato sul ruolo preminente assegnato al momento nautico,
deve, per le ragioni sopra esposte, essere ripensato, specie ove si consideri
che la tendenza rappresentata dall’attribuire un ruolo centrale al fine
economico della produzione per scopi alimentari ha permeato anche la
legislazione nazionale più recente[2]
in tema di pesca e acquacoltura.
In definitiva, il diritto
della pesca può oggi inquadrarsi nell’ambito del diritto agrario, mentre
l’aspetto tecnico-strumentale dell’esercizio della nave, divenuto oggi
secondario e meramente eventuale, si pensi all’acquacoltura, rimane
disciplinato dal diritto della navigazione.
Il processo di
progressiva agrarizzazione[3]
della materia della pesca, determinato dal complesso delle ragioni
sinteticamente descritte, ha interessato in modo particolare anche la nozione
di imprenditore ittico, in tal senso da un iniziale inquadramento nell’ambito
dell’impresa commerciale si è passati ad una equiparazione, per espressa
volontà legislativa, di questo ultimo all’imprenditore agricolo[4].
Per capire questa
evoluzione, che costituisce una conseguenza quasi obbligata del passaggio, ai
fini dell’inquadramento sistematico della materia, dal diritto della
navigazione al diritto agrario e le cui principali ragioni sono state sopra
individuate, occorre dar conto delle tesi sviluppatesi prima dei decreti di
orientamento del 2001, ed in particolare del d.lgs. 226/2001.
Anteriormente
all’intervento del legislatore, per alcuni versi chiarificatore e per altri
foriero di incertezze, le tesi che si contendevano il campo sulla natura
giuridica dell’impresa di pesca erano essenzialmente volte, con esclusione di
qualche voce isolata che ne auspicava l’assimilazione all’impresa agricola, ad
inquadrare l’impresa di pesca nell’ambito della impresa commerciale, sia pure
con l’utilizzo di argomentazioni e riferimenti normativi del tutto diversi.
Il punto principale
affrontato dalla dottrina che si è occupata dell’argomento è stato quello della
natura giuridica della impresa di pesca e sebbene ci fosse sostanziale accordo,
salvo qualche voce isolata e profetica cui si è fatto cenno, sulla tesi della
commercialità, in realtà la maggioranza degli autori ne riscontrava il
fondamento normativo nell’art. 2195 n.1 c.c.[5],
includendo l’attività di pesca nell’ambito delle attività industriali , ossia
dirette alla produzione di beni o di servizi, altra dottrina invece faceva
riferimento al n. 3 della stessa norma che prevede l’attività di trasporto per
terra per acqua o per aria [6].
Questo secondo
inquadramento si fondava sulla
considerazione che l’attività di pesca non poteva includersi tra le attività
industriali, intendendosi per tali quelle dirette alla produzione di beni,
poiché l’attività industriale è tale quando crea una realtà effettuale nuova
che non si produrrebbe naturalmente, o non si produrrebbe in tal modo, e si
contrappone a quelle attività come la produzione agricola o la pesca che
rientrano tra le produzioni originarie, ossia quelle che sfruttano la
produttività originaria di un bene o fattore preesistente.
Tale impostazione,
considerando che l’attività di pesca si traduce in una mera apprensione di ciò
che già esiste ed è perfettamente creato dalla natura, ne escludeva
l’inclusione nell’ambito delle attività industriali.
In realtà così non sembra
ove la pesca si consideri globalmente e la si accosti alla acquacoltura,
laddove vi è la cura, se non in certi casi, un intervento da parte dell’uomo
nel ciclo biologico degli organismi coltivati.
Sulla scorta di tale ragionamento,
la semplice cattura o raccolta del pesce non era sufficiente a fondare
l’esistenza della commercialità, che doveva però essere riconosciuta in
presenza di una pesca marittima realizzata a mezzo dell’esercizio di una nave,
poiché in tale ipotesi la navigazione per la pesca implica una attività di
trasporto per mare per fini economici, che certamente rientra tra le attività
che costituiscono possibile oggetto della impresa commerciale
La dottrina maggioritaria
respingeva le conclusioni cui perveniva tale autorevole ed affascinante
inquadramento sulla base della constatazione che la costruzione del carattere
della industrialità, che ne costituiva
il fondamento, risultava estremamente ristretta e quindi inaccettabile.
Sul punto si rilevava che
l’industrialità può ben rivenirsi nell’attività di pesca poiché la
trasformazione ed elaborazione di un bene preesistente sussiste anche quando la
trasformazione che il bene subisce non è di tipo materiale, ma è di tipo
economico e giuridico, come accade nel caso della pesca, allorquando il
complesso delle operazioni poste in essere dall’imprenditore ittico consente,
attraverso l’apprensione e l’occupazione del bene, di attribuirgli una nuova
utilità quale quella di destinazione al mercato per il soddisfacimento di
finalità alimentari.
Pertanto, prima della
assimilazione alla impresa agricola operata dal d.lgs. 226/01, non sussistevano
ostacoli di sorta ad inquadrare l’attività di pesca tra quelle industriali, e quindi
tra quelle oggetto dell’impresa commerciale ex art. 2195 n.1, e si osservava
che l’inquadramento dell’impresa di pesca tra le imprese di trasporto per mare,
di cui al n.3 della stessa norma, appariva errato sulla base della
considerazione che l’impresa di pesca non implica un trasporto in senso tecnico
di persone per mare, quanto, piuttosto, semplicemente il trasferimento per
acqua di persone o cose per l’esercizio della pesca.
In conseguenza la
disciplina applicabile diveniva quella dettata per l’imprenditore commerciale
per la pesca marittima, purché si fosse in presenza dei requisisti fissati dal
2082 c.c, mentre per l’acquacoltura e l’allevamento ittico il riferimento era
costituito dalla disciplina in tema di imprenditore agricolo.
Si è detto che una voce
profetica[7]
già allora osservava come attribuendo rilievo agli indici positivi contenuti
negli artt. 2195 e 2135 c.c., e ricorrendo all’analogia per disciplinare quelle
attività non riconducibili alle due norme, in realtà le affinità tra impresa di
pesca ed agricola risultavano maggiori di quelle tra la prima e l’impresa
commerciale, circostanza quest’ultima confermata dal legislatore del 2001, e
ribadita dal legislatore del 2004.
Invero l’assimilazione dell’imprenditore ittico
all’imprenditore agricolo è stata realizzata con il d.lgs. 2001/226 che la ha
prevista espressamente, ed era già stata annunciata con la scelta normativa
della legge del 1992 che aveva ricondotto espressamente l’acquacoltura
all’agricoltura, legge quest’ultima da intendersi oggi tacitamente abrogata per
effetto della riformulazione dell’art. 2135 c.c. operata dal d.lgs. 228/01[8].
Appare quindi chiaro ed
evidente come a seguito di tale intervento legislativo debbano definitivamente
ritenersi superate, da un lato, grazie al d.lgs. 218/2001 le problematiche
prospettate dalla dottrina, prima della l. 102 del 1992 e della successiva
riformulazione dell’art. 2135 c.c., in ordine all’inquadramento
dell’acquacoltura nell’attività agricola, e, dall’altro, in seguito al d.lgs.
226/2001, sull’espresso riconoscimento dell’impresa ittica quale categoria di
impresa avente cittadinanza nel nostro ordinamento.
Per quel che riguarda le
novità introdotte dal d.lgs.154/2004, occorre necessariamente partire
dall’esame del primo comma del novellato art. 2, contenente la nozione di
imprenditore ittico[9].
Sul punto possono solo
sottolinearsi ed avvalorarsi, le
osservazioni formulate in dottrina, già all’indomani della emanazione del
d.lgs. 226 /2001, riguardo all’ampiezza delle possibili applicazioni della
norma.
Tale ampiezza deriva dall’utilizzo, ai fini della
descrizione dell’attività, dei verbi catturare
e raccogliere, ove il primo si riferisce agli organismi acquatici in grado
di opporre resistenza al pescatore, ed il secondo alla operazione di prelievo
di esseri viventi non dotati di funzioni motorie[10].
I punti di novità
introdotti dal recente intervento del 2004 rispetto a questo primo comma sono
essenzialmente tre: l’utilizzo del termine professionale
riferito alla pesca, per sottolineare, ove ce ne fosse bisogno, che il
pescatore amatoriale non è imprenditore, con ciò omettendo di considerare un
dettaglio non trascurabile quali i requisiti contenuti nell’art. 2082 c.c.[11]
che offre la definizione generale di imprenditore.
Inoltre si sottolinea che
anche l’esercizio in forma in forma singola o associata o societaria da luogo ad impresa ittica, con ciò fornendo una
precisazione del tutto superflua stante che nessun dubbio era stato sollevato
sul punto dai commentatori del d.lgs. 226/2001, in cui tale precisazione era
assente.
Infine vi è
l’eliminazione dell’esplicito riferimento alla attuazione degli interventi di gestione attiva, finalizzati alla
valorizzazione produttiva ed all’uso sostenibile degli ecosistemi acquatici, attività che può considerarsi certamente
connessa a quella dell’imprenditore ittico e che va qualificata, in virtù della
citata soppressione e della mancata inclusione della stessa tra le attività
connesse di cui al successivo art.3,
come una attività connessa atipica.
Passando all’esame del
comma secondo[12],
emerge con assoluta chiarezza come il
legislatore abbia, con tali riferimenti, inteso equiparare agli imprenditori
ittici le loro cooperative, qualunque fosse l’attività svolta in concreto dalle
medesime, e quindi anche quelle ad esempio dirette alla produzione di navigli e
reti, con ciò tradendo, forse quello che era lo spirito iniziale, ossia
favorire la costituzione di cooperative tra imprenditori ittici, volte sia alla
commercializzazione del pescato che all’acquisto dei beni e servizi necessari
per lo svolgimento della attività, purché rispettivamente proveniente in misura
prevalente dai consorziati o destinata, in misura prevalente ai medesimi.
Sul punto i primi commentatori del d.lgs. 154/2004
hanno auspicato una interpretazione teleologica della norma che tenga conto dei
fini sopra riferiti, ancorché essi non emergano da una prima lettura, e ciò
allo scopo di restringere entro limiti ragionevoli il campo di applicazione
della medesima.
Il terzo comma[13]
si affanna a chiarire, ove ce ne fosse bisogno, che è imprenditore anche chi
vende i propri prodotti, quasi che si potesse considerare imprenditore anche
chi produce per auto consumare, in tal modo trascurando tutte le conclusioni
negative formulate in dottrina in ordine alla possibilità di qualificare come
impresa la c.d. impresa per conto proprio.
Passando al quarto comma[14],
la assoluta inutilità delle affermazioni in esso contenute, analogamente a
quelle del successivo settimo comma, appare con tutta evidenza, in essi il legislatore
non fa altro che ribadire la necessità dell’applicazione delle leggi vigenti,
del rispetto dei contratti collettivi di lavoro e delle leggi in materia di
sicurezza sui luoghi di lavoro.
La previsione contenuta nel quinto comma[15]
non è una novità ma è soltanto una conferma della equiparazione dell’impresa
ittica a quella agricola, già contenuta nel decreto del 2001 e motivata dal
complesso di ragioni ampiamente individuate in premessa.
Il comma sesto[16]
richiama l’autocertificazione di cui alla legge in tema di sicurezza e salute
dei lavoratori marittimi a bordo delle navi mercantili da pesca nazionali.
Infine, l’ottavo comma[17]
è da interpretarsi come norma diretta alla PA che, qualora dovesse decidere di
realizzare delle concessioni di aree demaniali marittime o di zone di mare
territoriale per la realizzazione di attività di acquicoltura, dovrà prevedere
una durata della concessione che consenta di recuperare i fondi spesi per
realizzare l’iniziativa prevista sul bene concesso.
Con la nuova formulazione
dell’art. 3, che individua le attività connesse all’impresa ittica, deve dirsi
che poco o nulla è cambiato.
In primo luogo, la
elencazione ivi contenuta deve ritenersi meramente esemplificativa, e non
tassativa, specie ove si consideri che la soppressione dell’esplicito riferimento alla attuazione degli interventi di gestione
attiva, finalizzati alla valorizzazione produttiva ed all’uso sostenibile degli
ecosistemi acquatici, dapprima
contenuto impropriamente tra le attività essenziali di cui all’art.2, non
consente all’interprete di sostenere che essa non possa qualificarsi come una
attività connessa, e quindi come attività connessa atipica.
In secondo luogo,
analizzando la prima parte del primo comma del novellato art. 3 [18]
, emerge che il legislatore ha inteso
qualificare le attività connesse con l’ausilio dei criteri della prevalenza e della normalità, analogamente a quanto accaduto per l’impresa agricola
con la riformulazione dell’art. 2135 c.c..
Proseguendo l’esame della nuova normativa può
rilevarsi che mentre la lettera a) [19],
che disciplina il pescaturismo[20]
è sostanzialmente rimasta immutata, la lettera b) [21],
che individua l’ittiturismo, da luogo ad una scoperta a dir poco sconcertante,
ossia che le attività dell’acquicoltore si considerano connesse alla pesca.
Ciò emerge dall’utilizzo in sede di definizione
dell’ittiturismo, quale attività connessa all’impresa di pesca, delle locuzioni
che fanno riferimento agli ecosistemi vallivi ed alla valorizzazione degli
aspetti socio culturali delle imprese di acquacoltura.
In realtà tali attività, stante l’inclusione
dell’acquacoltura nella definizione di imprenditore agricolo, di cui al
novellato art. 2135 c.c., debbono considerarsi attività connesse all’impresa
agricola poiché tale è l’acquacoltura, nonostante manchi nel 2135 c.c. un
esplicito riferimento al c.d. turismo vallivo.
Infine per quel che riguarda la lettera c[22],
a parte alcune sottigliezze terminologiche, quali ad esempio l’eliminazione dei
termini all’ingrosso ed al dettaglio prima riferiti alla vendita, oggi si parla
in senso ampio di commercializzazione, e la soppressione dell’inciso secondo
cui la valorizzazione e la promozione deve riguardare prevalentemente i prodotti della propria attività[23],
va sicuramente criticato l’ennesimo riferimento alla acquicoltura qui contenuto
per le medesime ragioni sopra esposte.
Dall’esame del contenuto degli ultimi due commi[24],
emerge solamente un superfluo richiamo di norme.
Complessivamente, può quindi concludersi che
l’intervento del legislatore, tradottosi nella emanazione del d.lgs. 154/2004,
non ha dato i frutti sperati dalla dottrina che si è occupata di commentare i
decreti di orientamento del 2001, poiché non ha fatto altro che eliminare delle
incertezze per introdurne di altre.
Forse l’unica ed innegabile nota positiva, è la
soppressione del più rilevante tra i problemi interpretativi introdotti dal
d.lgs. 226/2001, ossia il rinvio espresso dapprima contenuto nell’art. 2 comma
quarto alla legge in tema di acquicoltura l. 102/1992, stante l’abrogazione
tacita della medesima intervenuta a seguito della nuova formulazione dell’art.
2135 c.c, che enuclea tra le attività essenziali dell’imprenditore agricolo
anche l’acquacoltura.
Da ultimo va osservato che,
ai sensi dell’art. 12 della legge del 20 febbraio 2006 n. 96[25],
sono considerate attività assimilate alle attività agrituristiche le attività svolte dai pescatori
relativamente all'ospitalità, alla somministrazione dei pasti costituiti
prevalentemente da prodotti derivanti dall'attività di pesca, nonché le
attività connesse ai sensi del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 226, e
successive modificazioni, ivi compresa la pesca-turismo.
Da ciò discenderebbe una
esigenza di coordinamento tra la disciplina contenuta nell’art.3 del d.lgs. 2001/226, novellato dall’art. 6
del d.lgs. 154/2004, che, nel regolare e definire le attività
connesse alla pesca, si occupa alle lettere a) e
b) rispettivamente del
pescaturismo e dell’ ittiturismo, ed il citato art.12 della legge del 20 febbraio
2006 n. 96, secondo cui le medesime sono
assimilate alle attività agrituristiche.
Invero, la soluzione del
problema sembra essere agevole laddove si pensi che le attività di pescaturismo
ed ittiturismo, sia che le si consideri connesse alla pesca, alle condizioni di
cui al citato art. 3 del d.lgs del d.lgs. 2001/226, sia che le si inquadri come assimilate alle attività
agrituristiche, ai sensi dell’art.12
della legge
del 20 febbraio 2006 n. 96, saranno comunque soggette alla disciplina dettata per
l’imprenditore agricolo nell’art. 2135 c.c., e ciò per effetto dell’espressa
equiparazione tra l’imprenditore ittico ed agricolo contenuta nel d.lgs. 154/2004.
* Il
presente articolo riproduce, con gli opportuni aggiornamenti, il testo della relazione svolta al Seminario
Internazionale congiunto di Diritto Marittimo Palermo – Barcellona dal
titolo “La legislazione sulla pesca
marittima nell’ordinamento italiano e spagnolo”, svoltosi il 15 aprile 2005
presso il Dipartimento di diritto dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente,
Università degli Studi di Palermo.
** Dottore
di ricerca in Diritto dell’impresa, Università degli Studi di Palermo; titolare
di assegno di ricerca presso il
Dipartimento di diritto dell’economia, dei trasporti e dell’ambiente,
Università degli Studi di Palermo, avvocato del foro di Agrigento.
[1] Per una bibliografia generale. G.
Romanelli, Brevi considerazioni
sull’impresa di pesca, in Regioni e Pesca marittima (atti del convegno di
Pescara 8 giugno 1984), Milano 1985, 197 e s.; G. Righetti, Trattato di diritto marittimo, I-1,
Milano, 1987, II, 393 e ss; G. Scalfati,
Considerazioni sulla nave da pesca come
azienda, in Riv. Pesca 1965, 796 s, e
Pesca in Noviss. dig. It. XII/1965, 1180 s.; D. Gaeta,
L’impresa di pesca marittima, in Vita
notarile 1985, 155 s., e Esercizio della
nave, trasporto ed impresa di pesca, in Dir. marittimo 1990, 999 e s.;
D.F.Cagetti, Esercizio della pesca ed
impresa, in Riv. Pesca 1966 p. 497 s; G. Oppo, Sulla natura giuridica
dell’impresa di pesca, in Riv. dir. civ. 1987, II, 393 e ss; P.Masi, Oggetto
dell’impresa di pesca e registro delle
imprese, in Studium iuris 1997 p.470 s; G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, in Diritto marittimo 1985, 938 e ss.
Da ultimo L. Miccichè
e S. Moscato (a cura di ), Promozione e
commercializzazione della pesca nel bacino del mediterraneo, atti del Convegno internazionale Palermo
10-11 giugno 2005, Palermo 2005.
[2] L.102/1992, d.lgs. 2001/226, d.lgs. 2004/154. Per un commento ai recenti
decreti di orientamento si veda, in particolare, L. Costato (a cura di) , I tre “decreti di orientamento”: della pesca
e acquicoltura, forestale e agricolo, in Le nuove leggi civili commentate
2001, p. 668 e s.
Ai
decreti di orientamento ed al D.Lgs. n. 154 del 26/5/2004 hanno
fatto seguito tutta una serie di disposizioni aventi ad oggetto l’attività
della pesca, in particolare vanno segnalate:
D.L. n. 157 del 24/6/2004 Disposizioni urgenti per
l'etichettatura di alcuni prodotti agroalimentari, nonche' in materia di
agricoltura e pesca, in G.U. n. 147 del 25/6/2004;
L. n. 204 del 3/8/2004 Conversione
in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 giugno 2004, n. 157, recante
disposizioni urgenti per l'etichettatura di alcuni prodotti agroalimentari,
nonche' in materia di agricoltura e pesca, in G.U. n. 186 del 10/8/2004;
D.Lgs. n. 100 del 27/5/2005 Ulteriori disposizioni per la modernizzazione dei settori
della pesca e dell'acquacoltura e per il potenziamento della vigilanza e del
controllo della pesca marittima, a norma dell'articolo 1, comma 2, della legge
7 marzo 2003, n.
D.L. n.
2 del 10/1/2006 Interventi urgenti per i settori dell'agricoltura, dell'agroindustria,
della pesca, nonche' in materia di fiscalita' d'impresa, in G.U. n. 8 del 11/1/2006;
L. n.122 del
6/3/2006 Ratifica ed esecuzione dell'Accordo sulla istituzione
dell'Organizzazione internazionale per lo sviluppo della pesca in Europa
centrale ed orientale (Eurofish), con Atto finale, fatto a Copenhagen il 23
maggio
Ad esse deve aggiungersi L. n. 96 del 20/2/2006 in tema
di Disciplina dell'agriturismo, in G.U. n. 63 del 16/3/2006, il cui art.
12 individua il pesca-turismo, e implicitamente anche l’ittiturismo, quali
attività assimilate alle attività agrituristiche.
[3] G.Reale, L’evoluzione della normativa in materia di pesca: dal diritto della
navigazione al diritto agrario, in Dir. trasp. 2001, 13 s. e L’acquacoltura
nell’ordinamento giuridico italiano, Napoli, 2002.
[4] L. Costato, Il nuovo articolo 2135 del codice civile, in Studium Iuris 2001,
995 s.
[5] G. Scalfati, Considerazioni sulla nave da pesca come
azienda, op.cit, e Pesca op.cit..; D. Gaeta, L’impresa di pesca marittima, op.cit, e Esercizio della nave, trasporto ed impresa
di pesca, op.cit.; D.F.Cagetti, Esercizio
della pesca ed impresa, op.cit.
[6] G. Oppo, Sulla natura giuridica
dell’impresa di pesca, op. cit..
[7] P.Masi, Oggetto dell’impresa di
pesca e registro delle imprese, op.cit.
[8] Il d.lgs. n.228 del
[9] è
imprenditore ittico chi
esercita, in forma singola o associata o societaria, l'attività di pesca
professionale diretta alla cattura o alla raccolta di organismi acquatici in
ambienti marini, salmastri o dolci e le attività connesse di cui all'articolo
3.
[10] Sul punto si veda G. Di Giandomenico, Il diritto della pesca, op.cit.
[11]
I requisiti di cui all’art. 2082 c.c. sono la professionalità,
l’ economicità e l’organizzazione.
[12] Tale comma recita: “Si
considerano, altresì, imprenditori di cui al comma 1 le cooperative di
imprenditori ittici ed i loro consorzi
quando utilizzano prevalentemente prodotti dei soci ovvero forniscono
prevalentemente ai medesimi beni e servizi diretti allo svolgimento delle
attività di cui al medesimo comma”.
[13]
Esso prevede: “Sono considerati,
altresì, imprenditori ittici gli esercenti attività commerciali di prodotti
ittici derivanti prevalentemente dal diretto esercizio delle attività di cui al
comma”
[14] 4. Ai fini dell'effettivo esercizio delle attività di cui al comma 1, si
applicano le disposizioni della vigente normativa in materia di iscrizioni,
abilitazioni ed autorizzazioni [...] 7. Ai
fini dell'applicazione delle agevolazioni fiscali e previdenziali e della
concessione di contributi nazionali e regionali, l'imprenditore ittico è tenuto
ad applicare i pertinenti contratti collettivi nazionali di lavoro e le leggi
sociali e di sicurezza sul lavoro.
[15]“Fatte salve le più favorevoli disposizioni di legge, l'imprenditore
ittico è equiparato all'imprenditore agricolo”.
[16]
[17] 8. Le concessioni di aree demaniali marittime e loro pertinenze, di zone
di mare territoriale, destinate all'esercizio delle attività di acquacoltura,
sono rilasciate per un periodo iniziale di durata non inferiore a quella del
piano di ammortamento dell'iniziativa cui pertiene la concessione, secondo i
principi ed i criteri per il contenimento dell'impatto ambientale ai sensi
dell'articolo 37 del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, e tenuto conto
delle linee guida adottate dal Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio.»
[18] 1. Si considerano connesse alle attività di pesca, purché non prevalenti
rispetto a queste ed effettuate dall'imprenditore ittico mediante l'utilizzo di
prodotti provenienti in prevalenza dalla propria attività di pesca,
ovvero di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate
nell'impresa ittica, le seguenti attività: [...].
[19] (a) imbarco di persone non facenti parte dell'equipaggio su navi da
pesca a scopo turistico-ricreativo, denominata: «pescaturismo».
[20] L’attività di pescaturismo era già
stata oggetto di regolamentazione normativa ad opera della legge n.41 del 17
febbraio 1982, recante il piano per la razionalizzazione e lo sviluppo della
pesca marittima, del D.M. 19 giugno
[21] (b) attività di ospitalità, ricreative, didattiche, culturali e di
servizi, finalizzate alla corretta fruizione degli ecosistemi acquatici e
vallivi, delle risorse della pesca e dell'acquacoltura, e alla valorizzazione
degli aspetti socio-culturali delle imprese ittiche e di acquacoltura,
esercitata da imprenditori, singoli o associati, attraverso l'utilizzo della
propria abitazione o di struttura nella disponibilità dell'imprenditore stesso,
denominata: «ittiturismo»;
[22] (c) la prima lavorazione dei prodotti del mare e dell'acquacoltura, la
conservazione, la trasformazione, la distribuzione e la commercializzazione,
nonché le azioni di promozione e valorizzazione.
[23] Tale concetto è peraltro già
contenuto nella prima parte della stessa norma, che individua quali attività
connesse alla pesca le attività …….non
prevalenti rispetto a queste ed effettuate dall'imprenditore ittico mediante l'utilizzo di prodotti provenienti in prevalenza
dalla propria attività di pesca, ovvero di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente
impiegate nell'impresa ittica.
[24] 2. Alle opere ed alle strutture
destinate all'ittiturismo si applicano le disposizioni di cui all'articolo 19,
commi 2 e 3, del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di edilizia, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 6
giugno 2001, n. 380, nonché all'articolo 24, comma 2, della legge 5 febbraio
1992, n. 104, relativamente all'utilizzo di opere provvisionali per
l'accessibilità ed il superamento delle barriere architettoniche, 3.L'imbarco
di persone di cui al comma 1, lettera a. è autorizzato dall' autorità marittima
dell'ufficio di iscrizione della nave da pesca secondo le modalità fissate
dalle disposizioni vigenti.».
[25] Art.12
Attività assimilate 1. Sono assimilate alle attività agrituristiche e sono
ad esse applicabili le norme della presente legge, quelle svolte dai pescatori
relativamente all'ospitalità, alla somministrazione dei pasti costituiti
prevalentemente da prodotti derivanti dall'attività di pesca, nonché le attività
connesse ai sensi del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 226, e successive
modificazioni, ivi compresa la pesca-turismo.
Data di pubblicazione: 4 maggio 2006.