Tutela della vita umana in
mare e difesa degli interessi dello Stato: i tentativi d’immigrazione
clandestina*
Guido Camarda**
1. Ho voluto porre
in evidenza, anche nel titolo di questo scritto, la complessità degli interrogativi
giuridici suscitati dal fenomeno dell’immigrazione clandestina via mare, con
conseguenze spesso drammatiche per gli stessi immigrati e con forti
implicazioni d’ordine etico, sociale, economico e politico per lo Stato di
destinazione, inteso nella duplice accezione di apparato e comunità.
Le difficoltà delle scelte non riguardano semplicemente il legislatore, ma
si estendono all’interprete. Da quest’ultimo dipende, frequentemente, se una
norma, che si presti a molteplici e differenti risultati ermeneutici e modalità
applicative, possa salvarsi da censure d’incostituzionalità o da
disapplicazioni caso per caso.
Il principio di conservazione della norma[1]
va tenuto nella massima considerazione, in relazione all’esigenza di armonizzazione
o almeno di non contrasto con l’intero sistema giuridico, specie con norme di
grado gerarchico superiore del medesimo ordinamento (in particolare le norme
costituzionali) o con norme di ordinamenti che, proprio sulla base della
Costituzione stessa (artt. 10-11), risultino sovraordinati. Il criterio
storico-evolutivo, insieme al criterio d’equità, può ben concorrere a
raggiungere il risultato di conservazione. Il negare, per esempio, che vi siano
forme legittime, sia pure indirette, di respingimento collettivo mette al
riparo la normativa nazionale dal contrasto con
Quanto al carattere di sovraordinazione rispetto alle discipline interne,
mi riferisco in linea generale alle norme
di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali v’è il
principio pacta sunt servanda;
tramite quest’ultimo si includono gli accordi internazionali in vigore in
Italia. Mi riferisco, inoltre, alle norme comunitarie.
Solo l’assoluta impossibilità di un risultato ermeneutico di conservazione
cui l’interprete ha il dovere di tendere, rende necessaria – in applicazione
del principio generale del primato della normativa internazionale e della
normativa comunitaria -: a) la remissione della questione di legittimità alla
Corte costituzionale, ove si sia in presenza di norma interna sopravvenuta ed
in contrasto con il diritto internazionale; b) la disapplicazione della norma
interna stessa, ove vi sia il contrasto sia con una norma comunitaria,
anteriore o posteriore che sia, o con una norma internazionale entrata
successivamente in vigore. In quest’ultimo caso, la norma interna è da
considerarsi implicitamente abrogata dal momento che, attraverso l’ordine di
esecuzione, la nuova disciplina internazionale viene a produrre effetti diretti
nell’ordinamento interno.
Ritorno ai contenuti della nostra Carta costituzionale
per sottolineare, ai fini dell’argomento, la centralità del secondo e del terzo
comma del citato art. 10: La condizione
giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e
dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese
l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione
italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le
condizioni stabilite dalla legge.
2. La prova evidente delle forti implicazioni di ordine costituzionale
presenti nel complesso normativo riguardante l’immigrazione e la condizione
dello straniero (d. lgs 25 luglio 1998 n. 286 e successive modificazioni e
integrazioni[2])
è, per così dire, in re ipsa. Esiste,
infatti, un rilevante patrimonio giurisprudenziale costituito da numerose
sentenze e ordinanze del Giudice delle leggi. In più di un caso, il legislatore
ha cercato di rimediare alle censure con novelle via via succedutesi. Per il
carattere di questo scritto prevalentemente rivolto ad aspetti
internazionalistici e comunitari (con particolare riferimento alle modalità marittime
dell’immigrazione) mi preme rilevare che attraverso l’intervento della
giustizia costituzionale sono stati tutelati (pur se implicitamente), principi
e diritti contenuti anche in tali ordinamenti.
Tra le questioni di costituzionalità più interessanti si segnalano quelle
esaminate sotto il profilo delle eventuali violazioni degli artt. 13 e 24 Cost.
Del principio della riserva di giurisdizione in tema di provvedimenti
restrittivi della libertà personale (art. 13 cost.) si è occupata diffusamente la
nota sentenza n. 105 del 2001, affermando la necessità della pienezza del
controllo giurisdizionale non solo in relazione al trattenimento dello
straniero presso i centri, ma anche in relazione all’accompagnamento
coattivo alla frontiera. Da ciò ha avuto origine l’iniziativa di modifica
dell’art. 13 del T.U. del 1998 con l’apposito riconoscimento di più ampie
competenze dell’Autorità giudiziaria.
A sua volta la sentenza n. 222 del 2004, con un’espressa pronuncia
d’incostituzionalità sotto il profilo della violazione del diritto alla difesa
(art. 24 Cost.), sottolinea l’esigenza che la normativa preveda lo svolgimento
del giudizio di convalida del provvedimento di accompagnamento alla frontiera
prima che il provvedimento stesso venga eseguito e, comunque, nel
contraddittorio con l’interessato cui dovranno essere assicurati i diritti
della difesa. Ancora una volta il legislatore è intervenuto (l. 271/2004 ) con
le relative modifiche.
Con altre pronunce (sentt. n. 353, n. 1997 e ord. 353 del 2002)
Aggiungo che, in tema di respingimento, l’art. 10 dello stesso T.U. precisa
che il respingimento (con eventuale riaccompagnamento alla frontiera) non si
applica “nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo
politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l’adozione
di misure di protezione temporanea per motivi umanitari”. E, inoltre, - dispone
l’art. 19 - “in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso
uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi
di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere
rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”.
Anche se non ricorrano le condizioni suindicate, il secondo comma del medesimo
art. 19 stabilisce che non è consentita l’espulsione, salvo che nei casi
previsti dall’articolo 13, comma 1 (motivi di ordine pubblico o di sicurezza
dello stato) nei confronti: a) degli stranieri minori di anni
diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi; b)
degli stranieri in possesso della carta di soggiorno, salvo il disposto
dell’articolo 9; c) degli stranieri conviventi con parenti entro il
quarto grado o con il coniuge, di nazionalità italiana; d) delle donne
in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui
provvedono[4].
3. Un’analisi delle principali norme di diritto internazionale impone
d’iniziare dalla Convenzione di Montego bay del 10 dicembre 1982 (UNCLOS)
perché costituisce una sorta di “carta costituzionale” per tutto il diritto del
mare. L’art. 311 dispone, infatti, che sono
salvi soltanto gli altri accordi internazionali compatibili con
Il suesposto principio di
compatibilità non entra in discussione qualora la medesima Convenzione di
Montego bay richiami e confermi espressamente accordi internazionali in vigore
o ne auspichi la stipulazione con riferimento a specifici settori.
Tra le norme che non possono
essere oggetto di deroga da parte degli Stati anche mediante accordi con altri
Stati va richiamato anzitutto l’art. 98 dell’UNCLOS, perché esso costituisce
l’applicazione del principio fondamentale ed elementare della solidarietà in
mare[5].
Ogni Stato - si legge - impone che
il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nei limiti del possibile e
senza che la nave, l’equipaggio ed i passeggeri corrano gravi rischi (non un
rischio qualunque, dunque!): a) presti assistenza a chiunque si trovi in
pericolo in mare; b) vada il più presto possibile in soccorso delle persone in
difficoltà se viene informato che persone in difficoltà hanno bisogno
d’assistenza, nei limiti della ragionevolezza dell’intervento; c) presti
soccorso, in caso di collisione (cfr. Conv. int. sull’urto di navi del 1910),
all’altra nave, al suo equipaggio ed ai passeggeri e, nella misura del
possibile, indichi all’altra nave il nome ed il porto d’iscrizione e il primo
porto del suo approdo. Il secondo comma prevede che gli Stati costieri creino e
curino il funzionamento di un servizio permanente di ricerca e di salvataggio
adeguato ed efficace per garantire la sicurezza marittima e aerea e, se del
caso, collaborino a questo fine con gli Stati vicini nel quadro di accordi
regionali.
Varie convenzioni internazionali,
tutte in vigore in Italia insieme all’UNCLOS, costituiscono un completamento
(c.d. implementation) della norma ora
citata.
In primo luogo, l’art. 10 della
Convenzione del 1989 sul soccorso in mare (e nelle acque in genere) così
dispone: Ogni comandante è obbligato,
nella misura in cui ciò non crei pericolo grave per la sua nave e le persone a
bordo, di soccorrere ogni persona che sia in pericolo di scomparsa in mare. Gli
Stati adotteranno tutte le misure necessarie per far osservare tale obbligo.
Con un rinvio (se consentito) per
ulteriori e più ampi approfondimenti ad un mio volume appena pubblicato[6],
osservo in proposito che l’obbligo in questione riguarda anche fattispecie
senza alcuna connotazione d’internazionalità, perchè la convenzione Salvage
In ogni caso sono vigenti gli
artt. 69 e 70 dello stesso codice sul “soccorso a navi in pericolo e a
naufraghi” e sullo “impiego di navi per il soccorso”. Più precisamente: l’autorità
marittima, che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio o
di altro sinistro, deve immediatamente provvedere al soccorso, e, quando non
abbia a disposizione né possa procurarsi i mezzi necessari, deve darne avviso
alle altre autorità che possano utilmente intervenire./Quando l’autorità
marittima non può tempestivamente intervenire, i primi provvedimenti necessari
sono presi dall’autorità comunale./ L’autorità marittima o, in mancanza, quella
comunale possono ordinare che le navi che si trovano nel porto o nelle
vicinanze siano messe a loro disposizione con i relativi equipaggi.
La seconda Convenzione
internazionale che viene in considerazione riguarda anch’essa la ricerca ed il
salvataggio marittimo. A differenza della Salvage 1989 i cui profili
pubblicistici s’innestano in un corpo di diritto privato uniforme,
I poteri-doveri di intervento e
coordinamento da parte degli apparati di un singolo Stato nell’area di
competenza non escludono, sulla base di tutte le norme più sopra elencate, che
unità navali di diversa bandiera possano iniziare il soccorso quando
l’imminenza del pericolo per le vite umane lo richieda.
L’enforcement a carattere penale si individua (a prescindere
dalla configurazione di altri reati) nell’art. 1158 cod. nav. (primo comma: Il comandante di nave, di galleggiante o di
aeromobile nazionale o straniero, che ometta di prestare assistenza ovvero di
tentare il salvataggio nei casi in cui ne ha l’obbligo a norma del codice, è
punito con la reclusione fino a due anni. Secondo comma: La pena è della reclusione da uno a sei
anni, se dal fatto deriva una lesione personale; da tre a otto anni, se ne
deriva la morte. Terzo comma: Se il
fatto è commesso per colpa, la pena è della reclusione fino a sei mesi; nei
casi indicati nel comma precedente, le pene ivi previste sono ridotte alla metà).
Malgrado tutto
l’apparato normativo che ho cercato di sintetizzare, sono frequenti le denunce che
si ascoltano nelle sedi più diverse circa navi che pur avendo avvistato
naufraghi o navi in grave pericolo fanno finta di nulla proseguendo per la
propria rotta[7].
Forse occorre una riflessione sul mantenimento del principio della gratuità del
soccorso in mare di persone. Tale regola (a parte le eccezioni che qui non è il
caso di richiamare) è espressamente prevista dall’art. 16 della Convenzione Salvage
1989. L’ispirazione ideale rischia di produrre un disincentivo economico,
inducendo chi sa di non essere scoperto e non è sorretto da saldi principi
etici a omettere l’intervento in soccorso. L’introduzione dell’opposto
principio di onerosità rimarrebbe, però, senza effetti positivi specie nelle
ipotesi di navi senza alcun valore e di persone prive di qualunque patrimonio.
Occorrerebbe un’ulteriore norma che preveda un fondo internazionale integrativo
a favore dei soccorritori di vite umane che in nessun altro modo riescano ad
ottenere un compenso.
4. Una particolare
considerazione merita la problematica relativa a ciò che debba intendersi per
conduzione della persona salvata in luogo
sicuro. Infatti è dal momento
dell’arrivo in tale luogo che cessano gli obblighi internazionali (e nazionali)
relativamente alle operazioni di salvataggio, che pertanto non si esauriscono
con le prime cure mediche o con la soddisfazione degli altri più immediati
bisogni (alimentazione etc.). Con l’entrata in vigore (luglio 2006) degli
emendamenti all’annesso della Convenzione SAR 1979 (luglio 2006)[8] e
alla Convenzione SOLAS 1974 (e successivi protocolli)[9] e
con le linee guida - adottate in sede IMO lo stesso giorno di approvazione
degli emendamenti alle convenzioni e protocolli - viene fatta maggiore
chiarezza sul concetto di place of safety
e sul fatto che la nave
soccorritrice è un luogo puramente provvisorio di salvataggio, il cui
raggiungimento non coincide con il momento terminale delle operazioni di
soccorso[10].
Da notare che le “linee guida” insistono particolarmente sul ruolo attivo che
deve assumere lo Stato costiero nel liberare la nave soccorritrice dal peso non
indifferente di gestire a bordo le persone salvate.
Esprimo, comunque,
l’opinione che anche prima dell’entrata in vigore di tali emendamenti poteva
pervenirsi alle medesime conclusioni attraverso un’interpretazione logico
sistematica delle normative già applicabili, cioè delle convenzioni
internazionali sopracitate. Il mio convincimento, che trova riscontro in tesi
già sostenute in dottrina[11],
riguarda in modo più evidente almeno quei numerosi casi nei quali la nave
soccorritrice - per l’avvenuto imbarco delle persone salvate - scenda al di
sotto dei limiti consentiti dalla normativa di sicurezza e non abbia comunque
sufficienti attrezzature per il vitto, l’alloggio ed i sevizi
igienico-sanitari. Si pensi inoltre ad altri casi in cui le persone salvate
abbiano necessità di urgente assistenza medico-ospedaliera.
A fronte del
suesposto quadro normativo si registrano in tutto il mondo episodi di navi che,
a seguito motivazione giuridiche le più varie addotte dallo stato costiero, non
riescono a sbarcare normalmente persone soccorse in mare.
Nei due esempi che
mi limito a citare comincio da un caso italiano risalente al giugno 2004. La
nave Cap Anamur, battente bandiera tedesca ed appartenente ad
un’organizzazione umanitaria, aveva raccolto nelle acque del Canale di Sicilia
trentasette naufraghi immigranti clandestini, che avevano dichiarato di essere
fuggiti dal Sudan a causa della guerra civile. A
L’altro caso riguarda uno spazio
marino quasi agli antipodi. Si tratta di un soccorso dell’agosto 2001, avvenuto
in acque relativamente prossime a quelle territoriali australiane da parte di
un mercantile norvegese. Le 433 persone soccorse (afgani, indonesiani,
pakistani, iracheni, cingalesi) erano in pericolo di morte a seguito
dell’affondamento del peschereccio indonesiano che le trasportava verso
l’Australia ove avrebbero chiesto il riconoscimento dello status di rifugiati e
l’asilo. Le autorità (australiane) rifiutarono l’ingresso della nave
soccorritrice nelle acque territoriali, sostenendo che la questione riguardava
lo stato di bandiera della nave soccorritrice (Norvegia) e quello della nave
soccorsa, in cui si trovavano i clandestini prima che la nave stessa affondasse
(Indonesia). Considerato che le condizioni sanitarie a bordo peggioravano,
anche perché la nave soccorritrice poteva ospitare un massimo di cinquanta
persone, il comandante, malgrado il divieto, entrò in acque territoriali,
ottenne l’intervento di medici a bordo e fece presente che la ripresa del mare
aperto avrebbe comportato gravissimi pericoli per la sicurezza della nave e
conseguentemente per la vita di chi si trovava a bordo. Dopo circa una
settimana la vicenda si avviò a conclusione con la disponibilità neozelandese
ad accogliere i naufraghi che continuarono il viaggio a bordo di una nave
militare australiana. Anche in questo episodio il salvataggio da parte della
nave norvegese costituì l’adempimento di uno degli obblighi più elementari del
diritto internazionale. A sua volta il rifiuto dell’Australia, stato costiero
più vicino, suscitò molte proteste in campo internazionale, soprattutto da
parte della Norvegia. Si sosteneva, tra l’altro, che con il rifiuto era stata
violata
Si potrebbe, però, controreplicare
richiamando, con riferimento al diritto consuetudinario e l’art. 18
dell’UNCLOS, lo stato di necessità e obiettando che - come già rilevato - il
soccorso in mare non può certo concludersi in una nave, ma in un “luogo sicuro,
secondo le ragionevoli valutazioni del comandante”. In conclusione, non ritengo
che si possa ritenere legittimo il comportamento australiano sotto il profilo
dell’osservanza di quel principio di cooperazione da parte dello Stato previsto
anche dalla convenzione Salvage 1989.
Quanto alla possibile violazione
dell’art. 33 della Convenzione del 1951 che vieta il respingimento, si può
forse condividere l’opinione di chi fa notare che in realtà l’Australia non
riaccompagnò i richiedenti asilo ai loro Paesi d’origine con i pericoli che ciò
avrebbe comportato per gli espatriati, ma concluse un accordo di accoglienza
con
5. Dopo il richiamo a due casi
concreti, certamente non isolati e comunque molto rappresentativi della
complessità delle problematiche, occorre riprendere l’impostazione generale
muovendo dall’art. 13 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
adottata dall’assemblea generale delle Nazioni unite il 10 dicembre 1948: 1. Ogni individuo ha diritto alla
libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato./2. Ogni
individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di
ritornare nel proprio Paese.
È
evidente che non siamo in presenza di una norma internazionale con il carattere
della cogenza, ma non sembra che si possa negare a tale dichiarazione un
carattere oltre che etico-politico anche di soft law. Si tratta
com’è noto di regole giuridiche tendenziali, molte delle quali vanno sotto il
nome di raccomandazioni; regole che nessuno può considerare semplici
esercitazioni retoriche ma che, al contrario, contribuiscono a creare criteri
ermeneutici d’interpretazione del c.d. jus cogens. Nel caso in
specie, la fonte di provenienza della dichiarazione riguarda il massimo organo
di un’Organizzazione (l’ONU) in cui si riconosce la comunità internazionale,
attraverso la libera adesione dei singoli stati all’Organizzazione stessa.
Sicché ogni norma emanata dal singolo Stato che disciplini e stabilisca le
condizioni del legittimo ingresso e soggiorno dello straniero nel suo
territorio va considerata come restrizione al principio di base indicato nella
Dichiarazione universale. Tali eccezioni, vorrei precisarlo con maggiore
chiarezza, trovano peraltro fondamento giuridico-formale nel concetto di
sovranità dello Stato esercitabile in sede normativa, con i limiti cogenti
degli obblighi assunti, direttamente o indirettamente, dallo Stato stesso in
sede internazionale e comunitaria.
Almeno per quanto riguarda i Paesi
comunitari ed i relativi territori la conferma della suindicata impostazione
sistematica si può trarre dall’art. 13 del regolamento comunitario 562 del 2006
entrato in vigore il successivo 13 ottobre: 1. Sono respinti dal territorio
degli Stati membri i cittadini di paesi terzi che non soddisfino tutte le
condizioni d’ingresso previste dall’articolo 5, paragrafo 1, e non rientrino
nelle categorie di persone di cui all’articolo 5, paragrafo 4. Ciò non
pregiudica l’applicazione di disposizioni particolari relative al diritto
d’asilo e alla protezione internazionale o al rilascio di visti per soggiorno
di lunga durata./2. Il respingimento può essere disposto solo con un
provvedimento motivato che ne indichi le ragioni precise. Il provvedimento è
adottato da un’autorità competente secondo la legislazione nazionale ed è
d’applicazione immediata. Il provvedimento motivato indicante le ragioni
precise del respingimento è notificato a mezzo del modello uniforme di cui
all’allegato V, parte B, compilato dall’autorità che, secondo la legislazione
nazionale, è competente a disporre il respingimento. Il modello uniforme
compilato è consegnato al cittadino di paese terzo interessato, il quale accusa
ricevuta del provvedimento a mezzo del medesimo modello uniforme./3. Le persone
respinte hanno il diritto di presentare ricorso. I ricorsi sono disciplinati conformemente
alla legislazione nazionale. Al cittadino di paese terzo sono altresì
consegnate indicazioni scritte riguardanti punti di contatto in grado di
fornire informazioni su rappresentanti competenti ad agire per conto del
cittadino di paese terzo a norma della legislazione nazionale. L’avvio del
procedimento di impugnazione non ha effetto sospensivo sul provvedimento di
respingimento. Fatto salvo qualsiasi indennizzo concesso a norma della
legislazione nazionale, il cittadino di paese terzo interessato ha diritto a
che lo Stato membro che ha proceduto al respingimento rettifichi il timbro di
ingresso annullato e tutti gli altri annullamenti o aggiunte effettuati, se in
esito al ricorso il provvedimento di respingimento risulta infondato./4. Le
guardie di frontiera vigilano affinché un cittadino di paese terzo oggetto di
un provvedimento di respingimento non entri nel territorio dello Stato membro
interessato./5. Gli Stati membri raccolgono statistiche sul numero di persone
respinte, i motivi del respingimento, la cittadinanza delle persone respinte e
il tipo di frontiera (terrestre, aerea, marittima) alla quale sono state
respinte. Gli Stati membri trasmettono annualmente tali statistiche alla
Commissione.
Mi
limito a rilevare - proprio per quei motivi di armonizzazione dell’intero
sistema normativo ai vari livelli ordinamentali - che il recente regolamento
non si pone in contrasto o non è più “rigoroso” del T.U. 286/1998, con
particolare riferimento all’art 19; ciò perchè la norma comunitaria fa salve
non solo le disposizioni particolari relative al diritto d’asilo strettamente
inteso, ma anche le disposizioni particolari sulla protezione internazionale o
sul rilascio di visti per soggiorni di lunga durata.
Diversa
è invece la situazione di determinate categorie di stranieri (ovviamente mi riferisco
agli extracomunitari, essendo gli altri ampiamente equiparati o assimilati ai
cittadini italiani[15])
ove vogliano fare ingresso e soggiornare nel territorio d’uno Stato perché
ritengono di avere i requisiti per esercitare il diritto d’asilo o diritti ad
esso assimilabili in via temporanea o definitiva. In questi casi v’è tutta una
serie di norme internazionali cui il nostro Paese ha aderito : un vero e
proprio corpo di jus cogens integrato da norme comunitarie che
tendono a facilitarne l’applicazione.
Già nel
1951 veniva sottoscritta a Ginevra
In via di principio generale
(fatte salve, cioè, norme più specifiche o più favorevoli contenute nella
stessa Convenzione - ad es. art. 33 - e negli accordi successivi a carattere
mondiale o regionale) “Gli Stati
contraenti non espelleranno un rifugiato residente regolarmente sul loro
territorio, se non per motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico.
L’espulsione di detto rifugiato non avrà luogo se non in esecuzione di una
decisione presa conformemente alla procedura prevista dalla legge. Il rifugiato
- a meno che imperiosi motivi di sicurezza nazionale lo impediscano- dovrà
essere ammesso a fornire prove a suo discarico, a presentare un ricorso e ad
essere rappresentato a questo scopo davanti alle autorità competenti o davanti
ad una o più persone appositamente designate dalle autorità competenti. Gli
Stati contraenti concederanno ad un rifugiato nella situazione di cui sopra un periodo
di tempo ragionevole per permettergli di tentare di farsi ammettere
regolarmente in un altro Paese. Gli Stati contraenti, durante questo periodo di
tempo, potranno adottare quei provvedimenti di ordine interno che riterranno
opportuni” (art. 32 Conv.).
La norma successiva disciplina, in particolare, il divieto di espulsione o
respingimento (refoulement)
disponendo che “Nessuno Stato
contraente potrà espellere o respingere (refouler) - in nessun modo - un
rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà
sarebbero minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua
nazionalità, della sua appartenenza ad una determinata categoria sociale o
delle sue opinioni politiche. Il beneficio di detta disposizione non potrà
tuttavia essere invocato da un rifugiato per il quale vi siano gravi motivi per
considerarlo un pericolo per la sicurezza dello Stato in cui si trova, oppure
da un rifugiato il quale, essendo stato oggetto di una condanna già passata in
giudicato per un crimine o un delitto particolarmente grave, rappresenti una
minaccia per la comunità di detto Stato”.
In
ogni caso, le espulsioni collettive sono vietate dal quarto protocollo
addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo firmato a
Strasburgo il 16 settembre 1963 (cfr. art. 19.1 della Carta dell’U.E. firmata a
Nizza).
6.
Nell’ambito comunitario e nel quadro di cui all’art. 63 del testo consolidato
del trattato istitutivo della Comunità e degli artt. 18 e 19 della Carta di
Nizza, hanno particolare rilevanza la direttiva n. 9 del 27 gennaio 2003 (norme
minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri)[18],
attuata con d. lgs. n. 140 del 2005, le direttive n. 83 del 29 aprile 2004 e n.
85 del 1° dicembre 2005 (rispettivamente:norme minime sull’attribuzione a
cittadini di Paesi terzi o apolidi della qualifica di rifugiato o di persona
altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul
contenuto della protezione riconosciuta e norme minime per le procedure
applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello
status di rifugiato) ed il regolamento n. 343 del 18 febbraio 2003[19].
Quest’ultimo viene comunemente denominato Dublino II perché fa seguito ad una
convenzione internazionale firmata dagli Stati membri della Comunità europea in
quella città il 15 marzo 1990, relativamente all’individuazione dello Stato
competente per la domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri della
Comunità (lo Stato d’ingresso, regolare o meno, dello straniero nell’ambito del
territorio dell’Unione è quello competente per l’esame della domanda stessa,
indipendentemente da dove l’istanza sia stata presentata).
Alcuni
dei considerando del regolamento n. 343/2003 ne spiegano efficacemente i
contenuti e le finalità: 1) Una politica
comune nel settore dell’asilo, che preveda un regime europeo comune in materia
di asilo, costituisce un elemento fondamentale dell’obiettivo dell’Unione
europea di istituire progressivamente uno spazio di libertà, sicurezza e
giustizia aperto a quanti, spinti dalle circostanze, cercano legittimamente
protezione nella Comunità. 2) Il Consiglio europeo, nella riunione
straordinaria di Tampere del 15 e 16 ottobre
Malgrado
il regolamento Dublino II costituisca un passo avanti, uno studio pubblicato
nella primavera del 2006 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
Rifugiati (UNHCR) evidenziava la necessità di una sostanziale revisione, al
fine di assicurare meglio il rispetto dei diritti di richiedenti asilo e
rifugiati. Il rapporto dell’UNHCR è stato reso pubblico proprio mentre
Con particolare
riferimento al controllo delle frontiere comunitarie esterne e al già citato
reg. com. n. 562 del 15 marzo 2006 (Schengen borders code) va
premesso che il testo riconosce e s’ispira al convincimento che il
controllo di frontiera è nell’interesse non solo dello Stato membro alle cui
frontiere esterne viene effettuato, ma di tutti gli Stati membri che hanno
abolito il controllo di frontiera interno[20].
Il controllo di frontiera – afferma uno dei punti delle premesse - dovrebbe
contribuire alla lotta contro l’immigrazione clandestina e la tratta degli
esseri umani[21]
nonché alla prevenzione di qualunque minaccia per la sicurezza interna,
l’ordine pubblico, la salute pubblica e le relazioni internazionali degli Stati
membri. Giova forse precisare che a prescindere da quanto espressamente fatto
salvo dal medesimo regolamento stesso e già rilevato in questo scritto, nessuna
interpretazione di alcuna parte della normativa può porsi in contrasto con la
tutela dei diritti dei rifugiati e dei diritti umani in genere, nei limiti di
quanto internazionalmente riconosciuto e di quanto fa parte dei principi dello
stesso ordinamento comunitario.
7. Gli aspetti
della prevenzione del fenomeno dell’immigrazione clandestina via mare sono
particolarmente complessi perché, come s’è avuta più volte occasione di
rilevare, la legittimità e la liceità degli strumenti d’intervento trova un
limite nel diritto umanitario (anzitutto) e nei principi del diritto del mare.
Sotto quest’ultimo profilo si registra in epoca recente una significativa
evoluzione nella consapevolezza che il principio fondamentale della liberta dei
mari deve trovare nuovi e significativi contemperamenti soprattutto allo scopo
di evitare comode protezioni a chi intende compiere i più turpi mercati
mettendo a rischio la vita dei clandestini stessi.
Prescindo, per ora, dalle possibilità d’intervento offerte dal protocollo
di Palermo del dicembre 2000 o da altre specifiche convenzioni internazionali,
per limitarmi alla normativa contenuta nella convenzione di Montego bay del
1992 e più precisamente al diritto di
visita ed al diritto d’inseguimento,
disciplinati dagli artt. 110 e 111.
La prima di tali norme prevede che fatti salvi i casi di ulteriori poteri
conferiti con singoli accordi, come ho già fatto cenno, una nave da guerra che
incrocia in alto mare una nave straniera - escluse quelle che godano
dell’immunità ex 95 e 96 della
Convenzione stessa - non può fermarla a meno che non abbia serie ragioni per
sospettare che la nave stessa eserciti la pirateria, trasporti persone ridotte
in schiavitù, compia trasmissioni non autorizzate, sia priva di nazionalità o
in realtà abbia la stessa nazionalità della nave da guerra malgrado batta
bandiera straniera o rifiuti d’alzare la propria bandiera di nazionalità.
In tali casi, la nave da guerra può procedere ad una verifica dei titoli
che autorizzano l’uso della bandiera. A tale scopo una un’ imbarcazione al
comando d’un ufficiale può avvicinarsi alla nave sospetta e se dopo la verifica
dei documenti permangono ancora i sospetti, la verifica può continuare a bordo
della nave stessa con l’uso dei riguardi possibili. Tali poteri sono estesi
alle navi che esercitano un servizio pubblico.
Tale principio ha
trovato puntuale applicazione in giurisprudenza. Cito, in particolare, una
sentenza del Tribunale di Crotone pronunciata nel 2001 con riferimento a fatti
verificatisi nello stesso anno[22]. A circa cento miglia dalla
costa e, dunque, in alto mare (per incidens, l’Italia non ha proclamato
la zona economica esclusiva ed è dubbio se si sia avvalsa del potere di
proclamare la zona contigua), il gruppo di esplorazione aeromarittima aveva
notato che si stava effettuando un trasbordo di persone da un peschereccio
all’altro. Compiuta l’operazione, la nave che aveva effettuato il trasbordo si
allontanava dalla costa italiana ma veniva raggiunta da unità della Guardia di
Finanza che, nel presupposto di mancanza di qualunque segno d’indicazione della
nazionalità e nel rispetto delle forme previste dal regime di diritto
internazionale, esercitava il diritto di visita . Permanendo l’impossibilità di
identificazione della nazionalità ed il sospetto che la nave era coinvolta in
traffico di emigranti clandestini, veniva intimato di far rotta verso la costa
italiana. Successivamente alla convalida
dell’arresto dei componenti dell’equipaggio ed allo svolgimento del processo,
gli imputati vennero condannati per il reato di cui all’art. 12, terzo comma,
del T.U. n. 386 del 1998, nel testo allora vigente.
Il Tribunale, allo
scopo di giustificare la condotta della polizia giudiziaria in ordine al
diritto di visita, richiama - oltre all’assenza di documenti d’immatricolazione
e comunque idonei ad identificare la bandiera - anche la circostanza che molti
elementi inducevano al sospetto che il peschereccio fosse coinvolto in
un’attività criminosa e più precisamente nel traffico illecito di clandestini.
È stato però esattamente osservato[23] che, sotto questo profilo, la
seconda circostanza non sarebbe stata necessaria e determinante perché l’art.
110 della convenzione di Montego bay ritiene sufficiente il fatto che la nave sia priva di nazionalità o
comunque manchino gli elementi per identificare la nazionalità stessa.
Più complessa
è la questione relativa al potere di cattura di una nave non italiana in alto
mare dopo l’esercizio del diritto di visita ed a seguito delle relative
risultanze. Può però pervenirsi alle medesime conclusioni positive in ordine
alla legittimità dell’operato dell’autorità di polizia, dal momento che la nave
priva di nazionalità è pienamente soggetta al controllo e all’interferenza in
alto mare di qualsiasi potenza marittima[24].
Quest’ultima pertanto – fatti salvi i diritti fondamentali relativi al trattamento
dell’equipaggio - può applicare la propria legge e, più in generale, esercitare
la propria giurisdizione senza il limite derivante dai poteri sovrani di un
altro Paese, al contrario di casi di navi battenti legittimamente un’altra
bandiera. Almeno sotto il profilo che rileva, il fatto commesso su nave priva
di nazionalità è equiparabile al fatto commesso su nave italiana[25].
Nella specie,
occorre ricordarlo, si era, peraltro, in presenza di comportamenti
qualificabili come criminosi, cioè di attività dirette a favorire l’ingresso di
stranieri nel territorio dello Stato e dunque di attività che presentano un
sicuro collegamento con il territorio dello Stato stesso.
Nell’ambito della
tutela degli interessi dello Stato rivierasco anche l’art. 111 dell’UNCLOS ha
particolare rilevanza. La norma prevede che l’inseguimento di una nave
straniera possa proseguire anche in alto mare, ove le competenti Autorità dello
Stato costiero abbiano seri motivi per ritenere che la nave abbia violato le
leggi ed i regolamenti dello Stato. L’inseguimento deve, però, cominciare
quando la nave straniera o una delle sue imbarcazioni si trovino nelle acque
interne, nelle acque arcipelagiche, nel mare territoriale o nell’ulteriore
spazio di dodici miglia costituente la zona contigua[26]; la prosecuzione in alto mare
è consentita solo se l’inseguimento non abbia subito interruzione prima
dell’uscita dai suindicati spazi di giurisdizione. Tuttavia, la nave che esegua
la cattura non deve essere necessariamente la stessa che ha iniziato l’inseguimento.
Più precisamente, se la nave straniera, all’inizio dell’inseguimento si trova
nella zona contigua, tale inseguimento è legittimo soltanto se la nave ha
violato i diritti protetti in tale zona attraverso norme doganali, fiscali,
sanitarie e d’immigrazione (art. 33 UNCLOS cit.). La normativa internazionale
contiene una disposizione analoga per la piattaforma continentale e la zona
economica esclusiva. L’Italia, per, non ha proclamato una propria z.e.e.
considerando, tra l’altro, le difficoltà di delimitazioni e di rispetto dei
principi di libera navigazione nel Mediterraneo; ma, secondo la mia opinione,
quest’ultima esigenza potrebbe però trovare opportune soluzioni di salvaguardia
compatibili con l’attuazione del regime della zona economica esclusiva.
Se l’inseguimento
ha successo, la nave straniera può essere condotta in un porto nazionale per
l’espletamento delle indagini e per il prosieguo giudiziario e amministrativo.
In giurisprudenza
segnalo sul punto una sentenza del Tribunale di Locri[27],
la quale pur di data non recente (1996) e pur riferitesi a fattispecie di
contrabbando (e non di immigrazione clandestina) è particolarmente rilevante
perché, nel periodo successivo all’entrata in vigore della Convenzione di
Montego bay, costituisce uno dei primi casi di applicazione in Italia dell’art.
111 dell’UNCLOS in relazione alla teoria della presenza costruttiva. Viene
ritenuto lecito l’inseguimento e la cattura anche della “nave madre” mai
entrata nelle acque sotto la giurisdizione italiana, ritenendosi sufficiente ai
fini della localizzazione del fatto costitutivo di reato e dell’inizio
dell’inseguimento unitariamente considerato la sola presenza negli spazi marini
territoriali delle imbarcazioni “gigogne”.
8. Ho avuto occasione di accennare ai
dubbi (un po’ paradossali) circa l’attuale esistenza di una zona contigua al
mare territoriale italiano. Premesso che non ho ritenuto (neppure in passato)
giustificate -secondo una valutazione di costi benefici - le ragioni politiche
di un notevole ritardo da parte dello Stato italiano nell’istituzione della
zona in questione, il paradosso consiste nel fatto che a seguito dell’entrata
in vigore della legge c.d. Bossi-Fini una norma impone alle nostre autorità di
polizia di intervenire nella zona contigua[28].
Di contro, non risulta (fatte salve verifiche per il periodo molto recente) che
in sede internazionale sia stata svolta tutta l’attività di notificazione
necessaria per rendere opponibile agli stati terzi l’istituzione della zona in
argomento con la precisazione relativa all’estensione (implicitamente ritengo
nell’estensione massima di dodici miglia oltre il mare territoriale) e con un
rispetto cautelativo dei criteri di delimitazione transfrontaliera (richiamo in
particolare il criterio della linea mediana).
La conseguenza logica è che
nell’ordinamento interno tutti gli obblighi derivanti dall’esistenza della zona
contigua sono pienamente vigenti risultando implicitamente dal citato art. 12
del T.U. come modificato dalla legge da ultimo citata, la volontà dello Stato
(e per esso del legislatore) di istituire la zona stessa o meglio (con un
approccio di tipo dichiarativo e non strettamente costitutivo) di avvalersi de
poteri previsti dalla convenzione di Montego bay in tali spazi marini. Nei
confronti della comunità internazionale, l’eventuale perdurare delle omissioni
in ordine alle formalità quanto meno di notificazione, impone, però, allo Stato
italiano, caso per caso, l’onere di provare, in occasione di eventuali
controversie, che lo Stato interessato (normalmente lo stato di nazionalità
della nave oggetto di provvedimenti anche coercitivi) era venuto, in qualunque
modo, a conoscenza dell’avvenuto esercizio della volontà dell’Italia in merito.
Per maggiore chiarezza trascrivo
di seguito la norma già citata: La nave italiana in servizio di polizia, che
incontri nel mare territoriale o nella zona contigua, una nave, di cui si ha
fondato motivo di ritenere che sia adibita o coinvolta nel trasporto illecito
di migranti, può fermarla, sottoporla ad ispezione e, se vengono rinvenuti
elementi che confermino il coinvolgimento della nave in un traffico di
migranti, sequestrarla conducendo la stessa in un porto dello Stato.
9. Ci si domanda in quale misura
sia stato l’effettivo contributo apportato alla soluzione dei problemi in
argomento da parte della Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine
transnazionale organizzato ed il relativo protocollo contro il traffico
illecito di emigranti, entrambe aperte alla firma a Palermo il 12 dicembre 2000
ed entrate internazionalmente in vigore rispettivamente il 29 settembre 2003 ed
il 28 gennaio 2004[29].
Con particolare riferimento al
protocollo specifico, concordo nel ritenere che per la parte che qui rileva
(contrariamente ad altre parti e particolarmente a quelle che configurano
specifici reati) non vi sono novità sensibili rispetto al regime UNCLOS
sopradescritto, viene però curato il dettaglio procedurale anche sotto il
profilo della salvaguardia ambientale e rafforzato il principio di cooperazione
tra Stati.
Per facilitare comunque la
comparazione traduco nel senso gli artt. 8 e 9.
Articolo 8: Uno Stato parte che ha dei motivi ragionevoli per sospettare
che una nave - battente la propria bandiera o che sia immatricolata nei propri
registi o se nazionalità o che in realtà ha la nazionalità di quello Stato
malgrado utilizzi altra bandiera o rifiuti di alzarne una – eserciti un
traffico illecito di emigranti via mare può chiedere agli altri Stati parte di
aiutarla a por fine a tale pratica. Gli altri Stati parte ove richiesti forniscono
l’assistenza nella misura del possibile tenuto conto dei mezzi di cui
dispongono./Uno Stato parte che ha motivi ragionevoli per sospettare che una
nave -che eserciti la libertà di navigazione conformemente al diritto
internazionale e che batta la bandiera di un altro Stato o ne porti la marca
d’immatricolazione- pratichi il traffico illecito d’emigranti per mare può
comunicarlo allo Stato d’immatricolazione e, se la nazionalità è confermata,
può chiedere a quest’ultimo Stato l’autorizzazione a: a) fermare la nave
sospetta; b) esercitare il diritto di visita; c) prendere le misure appropriate nei confronti
di tale nave, delle persone e del carico a bordo nella misura in cui è stato
autorizzato./ Il tipo delle misure adottate deve essere comunicato senza
ritardo allo stato della bandiera/ Lo Stato richiesto ha il dovere di
rispondere senza ritardo alle domande sulla nazionalità della nave e sulle
autorizzazioni/ Lo Stato di bandiera può subordinare l’autorizzazione a
determinate condizioni concordate con lo Stato richiedente in conformità con il
diritto internazionale e con gli scopi specifici della convenzione. Lo Stato
parte può agire senza consenso dell’altro Stato solo per evitare un pericolo
imminente per la vita delle persone o se altri accordi bilaterali o
multilaterali lo consentono./Ogni Stato ha l’obbligo di specificare e far
conoscere agli altri, tramite il segretariato generale dell’ONU, quali sono le
autorità competenti: a fornire l’assistenza in mare nel quadro di cooperazione
nelle operazioni riguardanti le navi sospette; a fornire informazioni sulla
nave sospetta (effettività dell’immatricolazione), a concedere autorizzazioni
per l’adozione diretta di misure appropriate da parte dello Stato richiedente./
Se, infine, la nave sospetta di traffico illecito d’emigranti è priva di
nazionalità o può essere assimilata ad una nave priva di nazionalità, lo Stato
parte può fermarla e visitarla. Se i sospetti si rivelano fondati, possono
essere adottate tutte le misure appropriate conformemente al diritto interno ed
internazionale.
Articolo 9 : Uno Stato parte quando adotta
le misure di cui al precedente articolo: a) vigila sulla sicurezza e sul
trattamento umanitario delle persone a bordo; b) tiene in debito conto dell’
esigenza di non compromettere la sicurezza della nave e del carico; c) tiene in
debito conto dell’ esigenza di non arrecare pregiudizio agli interessi
commerciali o ai diritti dello Stato di bandiera o di ogni altro Stato
interessato; d) vigila, nei limiti dei propri mezzi, affinché ogni misura
adottata nei confronti della nave sia ecologicamente razionale. Quando le
ragioni delle misure adottate in applicazione dell’art. 8 si rivelino
successivamente come destituite di fondamento, la nave è indennizzata per ogni
perdita o danno eventuale, a condizione che non abbia commesso alcuna atto che
giustificasse le misure adottate. In ogni caso le misure previste vanno
eseguite in modo non recare nessun danno o ostacolo che non sia necessario allo
scopo da raggiungere. Ciò con particolare riferimento ai diritti ed obblighi
dello Stato costiero ed alle sue competenze, ai diritti ed obblighi dello Stato
della bandiera in relazione alle sue competenze ed ai controlli amministrativi,
tecnici e sociali riguardanti la nave. Ogni misura è adottata da navi ed
aeromobili militari o da altre navi in servizio pubblico debitamente abilitate
e con contrassegni che ne indichino il servizio di Stato.
In un contesto in cui non risulta
completato in modo soddisfacente il quadro di norme comunitarie (secondo le
linee ex art. 63 del Trattato
istitutivo)[30]
e di accordi internazionali sull’argomento ed in cui le norme nazionali sono
ancora, per così dire, in fase di piena sintonizzazione anche con la carta costituzionale,
la funzione di interpretazione e di adeguamento al singolo caso concreto di
regole astratte assume un ruolo centrale. Per non pervenire a risultati
applicativi aberranti occorre, di volta in volta, tener conto dei principi di
diritto umanitario, tra i quali ha una posizione eminente l’obbligo di soccorso
in mare.
Sul piano degli accordi
internazionali, il protocollo di Palermo del 2000 costituisce un significativo passo
avanti, ma v’è ancora molto cammino da percorrere soprattutto nel riesame di
alcune norme che, pur ispirandosi all’antico e giusto principio di libertà di
navigazione, in realtà, per il modo ampio e generico della loro formulazione,
finiscono con il favorire in più d’un caso non la libertà ma l’arbitrio ed il
crimine. Nel diritto internazionale del mare, i poteri degli Stati (e per essi
delle loro navi militari) riconosciuti dall’UNCLOS nelle ipotesi di pirateria
andrebbero estesi, con gli opportuni adattamenti, al traffico illecito
d’emigranti via mare, inteso come quel comportamento che - al fine di
trarre direttamente o indirettamente vantaggi finanziari o d’altro tipo
materiale - mira ad assicurare l’ingresso illecito in uno Stato da parte di chi
non ne abbia la nazionalità o la residenza (v. art. 3 lett. a prot. Palermo
cit.). Il T.U. 286/98, nel testo aggiornato del 2002 e
L’attività di prevenzione, com’è
comune convincimento, costituisce uno strumento ottimale rispetto all’uso di
strumenti repressivi ma è evidente che un’attività di prevenzione che dia
risultati soddisfacenti e duraturi non può prescindere da una piena cognizione
delle cause del fenomeno e da interventi per eliminarle, utilizzando forme di
partenariato con i Paesi terzi, allo scopo di assicurare la coerenza tra
l’azione interna ed esterna, come osserva anche il Parlamento europeo in un
documento relativamente recente[32].
Premesso che le migrazioni in sé
considerate fanno parte dei grandi fenomeni della storia del mondo, il problema
è combattere, invece, le forme effettivamente illecite ed i fenomeni di
criminalità (specie organizzata) connessi e nel contempo approntare, in un
quadro comunitario, strumenti normativi per una gestione organica dei movimenti
migratori (anche secondari) in positivo sotto un profilo cioè
economico-sociale, accanto alla pur necessaria legislazione di polizia (ordini,
divieti, sanzioni…).
Accanto alla figura del rifugiato
politico - con le tutele già esistenti, ma che necessitano puntuale applicazione
e perfezionamento - è stata coniata (in modo solo apparentemente paradossale e
provocatorio) l’espressione di rifugiato economico, cioè di chi, in
situazione di estrema necessità, fugge dal pericolo di morte non a causa delle
sue idee, ma della miseria e della fame.
Su questa “provocazione” non mi
pare che la comunità internazionale ed i singoli Stati abbiano già messo in
opera misure idonee e sufficienti anche se,specie recentemente, non sono
mancate iniziative e proposte soprattutto in sede comunitaria[33].
La preoccupazione per le precarie
condizioni economiche di una parte considerevole della popolazione mondiale non
ha radici meramente etiche, ma altrettante motivazioni molto pragmatiche sotto
il profilo della finalità di prevenzione del fenomeno oggetto di questo
scritto. Basta soffermarsi sul forte legame tra pace ed effettiva sicurezza,
sviluppo e diritti umani[34].
* Lo scritto,
con integrazioni e modifiche, è il testo di una relazione svolta il 18 novembre
2006 presso il Palazzo di Giustizia di Palermo nell’ambito di attività di
formazione decentrata del Consiglio Superiore della Magistratura (Ufficio dei
referenti presso
** Professore
ordinario di diritto della navigazione, Università di Palermo, Facoltà di Economia.
[1] V., tra gli
altri, Bigliazzi-Geri-Breccia-Busnelli-Natoli,
Trattato di diritto civile, I,
Torino, 1987, 65.
[2] Il T.U. a sua
volta fa ampio riferimento alla legge n. 40 del 1998. Un precedente tentativo
di disciplina organica si rinviene nel decreto legge 30 dicembre 1989 n. 416
convertito con legge 28 febbraio 1990 n. 39, che – com’è stato osservato (piantedosi, Libertà fondamentali, misure di polizia e sistema sanzionatorio nella
legislazione sull’immigrazione in www. giustizia-amministrativa.it) -
dimostra il tentativo di riconsiderare il fenomeno immigratorio come fenomeno
di ristrutturazione sociale, piuttosto che come esclusivo problema di pubblica
sicurezza secondo l’impostazione del T.U. del 1931. Modificazioni e
integrazioni sono state apportate con la legge 30 luglio 2002 n. 189 e con il
decreto legge 14 settembre 2004 n. 241 convertito con legge n. 241/2004.
La relativa
normativa regolamentare di cui al d.P.R. 31 agosto 1999 n. 394 è stata
modificata con d.P.R. 18 ottobre 2004 334.
[3] In materia v. anche Corte
cost. ord. n. 146 del 2002.
[4]
Sul rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, v. Cons. Stato VI
17 maggio 2006 n. 2868 (“Il diniego di rilascio del permesso di soggiorno, richiesto
per asilo politico, non consegue automaticamente al mancato riconoscimento
dello status di rifugiato politico.
Il questore, infatti, deve verificare se non siano vietati proprio l’espulsione
o il respingimento verso lo Stato di appartenenza a causa dei motivi ostativi
previsti dalla normativa di cui all’ art. 19, comma 1, d. lgs. n. 286 del 1998
e, quindi, se sia possibile rilasciare il permesso di soggiorno per motivi
umanitari: qualora tale verifica non sia stata effettuata si determina l’illegittimità
del provvedimento di rigetto della succitata istanza di permesso di soggiorno
per asilo politico”); v. anche Cass. n. 8423 del 2004. Aggiungo che
l’applicazione del d. lgs. n. 286 del 1998 va ora concretamente armonizzata con
il d. lgs. n. 140 del 2005, che attua la direttiva 2003/9 su “norme minime
relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli stati membri.
[5] V. Scovazzi, La tutela
della vita umana in mare, con particolare riferimento agli immigrati
clandestini diretti verso l’Italia in
Dir. int. 2005, fasc. 1, 106.
[6] camarda, Il soccorso in
mare. Profili contrattuali ed extracontrattuali, Milano, 2006, pp.
55-56, 64, 171 e ss., p. 178 e ss. e passim.
[7] Da ultimo mi
riferisco ad alcuni interventi nel corso del seminario di Palermo del 5 dicembre
2006 organizzato dall’Agenzia della Nazioni Unite per il rifugiati e dal
Consiglio italiano per i rifugiati.
[8] V. risoluzione del MSC 155
(78) del 20 maggio 2004.
[9] V. risoluzione MSC 153 (78)
del 20 maggio 2004.
[10]
V. sul concetto di place of safety,v. amplius i
punti da
6.13 An assisting ship should not be considered a place of safety
based solely on the fact that the survivors are no longer in immediate danger
once aboard the ship. An assisting ship may not have appropriate facilities and
equipment to sustain additional persons on board without endangering its own safety or to properly care for the survivors.
Even if the ship is capable of safely accommodating the survivors and may serve
as a temporary place of safety, it should be relieved of this
responsibility as soon as alternative arrangements can be made.
6.15 The Conventions, as amended, indicate that delivery to a place of safety
should take into account the particular circumstances of the case. These
circumstances may include factors such as the situation on board the assisting
ship, on scene conditions, medical needs, and availability of transportation or
other rescue units. Each case is unique, and selection of a place of safety may
need to account for a variety of important factors.
6.16 Governments should co-operate with each other with regard to
providing suitable places of safety for survivors after considering relevant
factors and risks.
6.17 The need to avoid disembarkation in territories where the
lives and freedoms of those alleging a well-founded fear of persecution would
be threatened is a consideration in the case of asylum-seekers and refugees
recovered at sea.
6.18 Often the assisting ship or another ship may be able to
transport the survivors to a place of However, if performing this function
would be a hardship for the ship, RCCs should attempt to arrange use of other
reasonable alternatives for this purpose.
[11] Trevisanut, Le Cap Anamur: profils de droit international et
de droit de la mer (2004) in Annuaire du droit de la mer, Vol. 9,
pp. 49-64, la quale, inoltre, confida nel ruolo dell’Agenzia europea per la
sicurezza marittima istituita con reg.com CE 1406/200,
[12] Va da sé che le singole
fattispecie concrete hanno particolari connotazioni che, di volta in volta,
possono condurre a conclusioni diverse. In tema di favoreggiamento di
immigrazione clandestina si veda ad esempio Cass. Pen. 28 ottobre 2003 n.
In
linea generale, però, “la commissione di un reato quale il concorso in
favoreggiamento all’ingresso di stranieri nel territorio dello Stato, può
abilitare al respingimento dallo Stato dello straniero e, in base all’art. 5,
comma 5 del d. lgs. n. 286/1998, alla revoca del permesso di soggiorno” (Cons.
Stato, sez. VI 21 settembre 2006 n. 5544).
[13] Il richiamo ai principi che
ogni legge ordinaria deve osservare potrebbe continuare ponendo in evidenza, ad
esempio, il contenuto dell’art. 6 della convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo in tema di processo equo e la correlata normativa
costituzionale in materia. Si veda anche il Patto internazionale sui diritti
civili e politici ed in particolare l’art. 14 ove, tra l’altro, si riconosce il
diritto dell’interessato ad essere presente al processo. Il Patto è stato
adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con
[14] Sul caso di cui al testo, v.
ampiamente Fornari, Soccorso di profughi in mare e diritto
d’asilo: questioni di diritto internazionale sollevate dalla vicenda della nave
Tampa in
[15] V. ad esempio
quanto afferma
[16] In sede regionale si
ricollegano alla Convenzione dell’ONU, non soltanto
[17] Il protocollo venne ratificato dall’Italia a
seguito della legge n. 95 del 1970.
[18] Nella direttiva stessa si
precisa che essa non si applica quando si applicano le disposizioni della
direttiva 2001/55/CE del Consiglio del 20 luglio 2001 sulle norme minime per la
concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di
sfollati e sulla promozione dell’ equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri
che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli
stessi.
[19] Sulle modalità
d’applicazione v. anche reg. com. n. 1560 del 2 settembre 2003. Di particolare
rilevanza sono le norme di attuazione della clausola umanitaria
(ricongiungimento familiare etc.).
[20] Nel quadro di cui al testo va
richiamata, anche se di data non recente (doc. COM 2001, 672 del) la proposta
contenuta in una comunicazione della Commissione sull’istituzione di una
Guardia di frontiera comune. Hanno costituito già una realtà le operazioni di pattugliamenti misti in mare compiuti, nell’ambito del
progetto “Nettuno”, nel Mediterraneo centrale e orientale durante il biennio
2003 e 2004; il progetto era stato approvato in sede comunitaria durante il
semestre di presidenza italiana.
[21] Sulla irrilevanza del
consenso della vittima in numerose e frequenti circostanze
(alternativamente:offerta di pagamento, uso di inganno o frode; abuso
d’autorità influenza o pressione; uso di coercizione violenza o minacce) ai
fini dell’individuazione della fattispecie di reato, si sofferma anche la
decisione quadro 2002/629/GAI del Consiglio dei Ministri GAI in data 19 luglio
2002.
In connessione con il fenomeno
che costituisce argomento di questo scritto e con le specifiche sanzioni penali
va richiamata anche la legge 11 agosto 2003 n. 228 che punisce la “tratta di
persone”. Infatti, lo stato di soggezione continuativa o l’esercizio su una
persona di poteri corrispondenti a quelli di diritto di proprietà possono
costituire talora l’evoluzione perversa dell’immigrazione clandestina.
[22] Trib. Crotone 27
settembre
[23] schiano di pepe, Diritto internazionale e traffico di migranti per
mare:alcune brevi note, nota a Trib. Crotone cit. in Dir. mar. 2003, 907.
[24] giuliano scovazzi
treves, Diritto internazionale, vol.II, Milano, 1983,
280.
[25] Nella fattispecie
di cui al testo, non vi sono invece elementi sufficienti per l’applicazione
della nota teoria della presenza costruttiva, che, in conformità a pronunce
giurisprudenziali, ritiene attuato in territorio italiano un comportamento
criminoso concorrente se la nave che lo compie (rectius l’equipaggio),
pur stando fuori dalle acque territoriali, contribuisce attivamente (di solito
a mezzo di altra nave presente nelle acque territoriali) alla commissione di un
reato, che si perfeziona negli spazi giurisdizionali dello Stato.
[26] Sulla liceità
dell’inizio dell’inseguimento nella zona contigua, v. già App. Palermo 20 marzo
[27] Trib. Locri 14
agosto
[28] Si veda anche il d.M. 14
luglio 2003 (disposizioni in materia di contrasto all’immigrazione clandestina
in G.U. n. 220 del 2003) ed in particolare l’art. 6 che trascrivo integralmente:
“1. Ferme restando le competenze dei prefetti dei capoluoghi di regione ai
sensi dell’art. 11, comma 3, del testo unico in materia di coordinata
vigilanza, nelle acque territoriali e interne italiane le unità navali delle
Forze di polizia svolgono attività di sorveglianza e di controllo ai fini della
prevenzione e del contrasto del traffico illecito di migranti. Le unità navali
della Marina militare e delle Capitanerie di porto concorrono a tale attività
attraverso la tempestiva comunicazione dell’avvistamento dei natanti in arrivo
o mediante tracciamento e riporto dei natanti stessi, in attesa dell’intervento
delle Forze di polizia. Quando in relazione agli elementi meteomarini ed alla
situazione del mezzo navale sussistano gravi condizioni ai fini della
salvaguardia della vita umana in mare, le unità di Stato presenti, informata
[29] Per l’Italia, v.
legge di autorizzazione alla ratifica n. 146 del 16 marzo 2006.
[30] La
comunicazione della Commissione del 19 luglio 2006 dal titolo “Le priorità
politiche nella lotta contro l’immigrazione clandestina di cittadini di Paesi
terzi” può costituire una solida base per le successive fasi della
normativa comunitaria sull’argomento. Già nella comunicazione sul medesimo
argomento pubblicata nel 2001,
Sull’argomento v., tra gli
altri, l’efficace quadro d’insieme di pisillo mazzeschi, Strumenti comunitari
di prevenzione e di contrasto all’immigrazione clandestina in il Diritto
dell’unione europea, 2004, fasc. 4, 723.
[31] Il Consiglio dei
Ministri il 12 ottobre
[32]
Parlamento
europeo, Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni,
9 novembre
[33]
V.
il Libro verde sull’approccio dell’Unione europea alla gestione della
migrazione economica del gennaio 2005. Come posto in evidenza dal comunicato
ufficiale, il Libro ha lo scopo di avviare un dibattito approfondito, anche con
la società civile, sulla forma più appropriata da dare alla normativa comunitaria
relativa alle condizioni di ammissione e di residenza dei cittadini di paesi
terzi che emigrano per motivi economici e sul valore aggiunto rappresentato
dall’adozione di tale quadro comune. Prescindendo dalle normative più recenti
già richiamate in questo scritto, cito, ancora in relazione a quest’ultimo
periodo, l’istituzione di una rete di informazione e coordinamento sicura
sul web per i servizi di gestione dell’immigrazione degli Stati membri
(marzo 2005),
Sul piano del
diritto internazionale, richiamo anche nel contesto delle interpretazioni
sistematiche, il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e
culturali. Il
Patto, adottato dall’Assemblea Generale il 16 dicembre 1966, entrato
internazionalmente in vigore il 3 gennaio 1976, è stato ratificato dall’Italia
il 15.09.1978 (l’ordine d’esecuzione è stato dato con legge 25.10.1977 n. 881).
Noto, invece, lo scarso interesse o comunque la scarsa sollecitudine dei Paesi
europei in genere, nella ratifica della Convenzione ONU sulla protezione dei
diritti dei lavoratori emigranti, adottata dall’Assemblea generale delle
Nazioni unite il 18 dicembre 1990 e comunque entrata internazionalmente in
vigore nel 2003, per avere raggiunto il minimo degli strumenti di ratifica, pur
non essendo intervenute le adesioni del gruppo di Paesi cui ho fatto cenno.
Quanto alle intese sui pattugliamenti misti in mare, ne va segnalata, in linea
generale, la particolare efficacia (cito ad esempio l’esperienza del progetto
“Nettuno”) relativamente al pattugliamento congiunto nel Mediterraneo centrale
e orientale nel 2003 e 2004, il progetto era stato approvato in sede
comunitaria durante il semestre di presidenza italiana.
[34]
Sul legame di cui al testo, v. amplius ed in generale, pucci di benischi, Sicurezza internazionale, sviluppo sostenibile e diritti umani: l’agenda
delle Nazioni Unite ed il ruolo dell’Italia in
Data di pubblicazione: 12 gennaio 2007.
N.d.r. per un commento dell’articolo
si segnalano gli scritti di G. Cangelosi e di G. Mancuso, vedi nelle recensioni
della rubrica “Osservatorio Euromediterraneo”
http://www.giureta.unipa.it/VolumeV2007/index.html