Elvira
La Loggia**
Un saluto
a tutti gli intervenuti ed un particolare ringraziamento alla Prof. ssa Amato per avermi dato
l’opportunità di partecipare a questo interessante Convegno sulla “Nuova
Imprenditoria per lo sviluppo locale” organizzato in memoria del papà,
Bartolo Amato, imprenditore ittico, nel centenario della nascita.
Prendendo spunto dalle
mie specifiche competenze vorrei, brevemente, sottolineare come l’imprenditore
ittico ha assunto una nuova e più
consona configurazione giuridica, a seguito della sua equiparazione all’imprenditore agricolo.
Un primo determinante
contributo a questa sua diversa qualificazione, è stato dato dal legislatore
comunitario che, all’art.32 (ex 38) del Trattato della Comunità Europea,
considera, come prodotti agricoli, non solo quelli derivante dal suolo e
dall’allevamento, ma, anche, quelli della pesca, chiarendo, altresì,
nell’allegato II, come il termine “allevamento” debba considerarsi comprensivo
di tutti gli animali vivi, senza alcuna distinzione di specie.
Questo ampliamento del concetto di allevamento
verso ogni specie di animali, collegata all’indirizzo comunitario, aveva, però,
creato non poche difficoltà, sotto la
vecchia formulazione dell’art 2135 c.c..
Infatti, per il
legislatore del ’42, imprenditore agricolo era colui che esercitava una
attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura e all’allevamento
del bestiame, intendendo riferirsi, con questo ultimo termine, al c.d bestiame
da lavoro, anche perché, a quel tempo, erano sconosciuti i moderni mezzi di
lavorazione della terra, e l’attività agricola era, tradizionalmente, legata al
suolo.
In tale concetto era,
quindi, difficile inserirvi i prodotti della pesca.
Così, nel corso degli anni, una copiosa
legislazione speciale, aveva cercato di colmare le lacune della originaria
normativa codicistica, orientandosi verso una interpretazione evolutiva del
concetto di allevamento, e ricomprendendo in tale attività anche altre specie animali non tradizionalmente legate al fondo ed
allo sfruttamento della terra.
In sede di recepimento
del regolamento comunitario n.° 1619/68, il legislatore speciale aveva,
infatti, cominciato con includervi le specie avicole ( L. n.° 419/71) e quelle di allevamento, selezione ed
addestramento delle razze canine ( L. n.° 349/93), mentre la riproduzione e
l’allevamento di cavalli da corsa aveva avuto difficoltà ad inserirsi tra le
attività prettamente agricole a causa delle competenze specifiche richieste in
materia.
Seguendo questo indirizzo
voluto dalla Comunità Europea, veniva ricompresa nel concetto di allevamento,
con legge n.° 102 del 1992, anche l’acquacoltura come l’insieme di pratiche volte alla
produzione di proteine animali in ambiente acquatico, mediante il controllo
parziale o totale diretto o indiretto del ciclo di sviluppo degli organismi
acquatici.
L’acquacoltura veniva
così inquadrata nella più ampia nozione di pesca professionale ed i prodotti
della pesca considerati prettamente agricoli, estendendo anche la qualificazione agricola agli
imprenditori che svolgevano tale attività.
Sempre sotto la pressante spinta degli
orientamenti comunitari è stato, poi, emanato il d.lgs 228/2001 che,
riformulando l’art. 2135 del c.c., ha sostituito la parola “ bestiame” con
quella, molto più generica, e omnicomprensiva di “animali”, con un deciso
orientamento per un concetto più ampio di allevamento.
La norma prevede adesso
che per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali,
si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo
biologico o di una fase necessaria del
ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano, o, possono utilizzare, il fondo, il bosco o le acque
dolci , salmastre o marine.
Il fondo, quindi, non
viene più considerato il bene centrale
attorno al quale nasce e si
sviluppa l’impresa agraria, ed il collegamento funzionale tra quest’ultima ed
il fondo diventa, così, solo eventuale.
Il legislatore, infatti,
specifica che l’imprenditore “può”, ma, non necessariamente ”deve”, utilizzare
il fondo per lo svolgimento della propria attività, per cui tale requisito viene relegato ad una possibilità
meramente potenziale e non più necessaria per intraprendere l’attività
agricola.
Rientrano, così, in tale
contesto sia le attività vivaistiche, ortovivaistiche, che quelle di
serricoltura, e di funghicoltura, mentre ne restano fuori la
raccolta di frutti spontanei, quali funghi, bacche,
more etc.
D’altra parte anche il
progresso tecnologico aveva via via allontanato il concetto di coltivazione
dalla diretta utilizzazione del suolo.
Con la nuova formulazione
dell’art 2135 c.c. anche l’allevamento fuori fondo viene considerato come
attività agricola anche se esercitato in batteria o in capannoni, purché
consista nella cura e nello sviluppo dell’intero ciclo biologico dell’animale o
di una fase di tale ciclo.
Ciò ha escluso, ab origine che possa considerarsi
imprenditore agricolo chi acquista ed alimenta animali nella immediatezza del
loro abbattimento al solo fine di lucrare sull’aumento ponderale degli stessi.
L’acquacoltura viene,
così, ricompressa, a pieno titolo, tra le attività principali dell’imprenditore
agricolo presentando tutte le caratteristiche proprie dell’allevamento.
La materia, sulla base di tali rinnovati
criteri, ha trovato, poi, sistematica disciplina nel d.lgs 226/2001, in cui, per la prima volta, si è avuta una
definizione di imprenditore ittico, riconoscendo, tale qualifica, a chi
esercita una attività diretta alla cattura o alla raccolta di organismi
acquatici in ambienti marini, salmastri e dolci, nonché le attività a queste
connesse.
La necessità di
incrementare le produzioni di organismi acquatici di acque dolci e salmastre si
era fatta, infatti, sempre più pressante sia a livello mondiale che nel nostro
Paese dove il sempre crescente depauperamento delle risorse ittiche aveva
indotto a politiche restrittive di controllo della pesca privilegiando metodi
di pesca sostenibile.
Con l’acquacolura si
conciliano le esigenze economiche degli imprenditori con quelle di tutela
dell’ambiente e con l’accresciuto fabbisogno alimentare legato alle migliori
condizioni di vita della popolazione.
L’espressa equiparazione
dell’imprenditore ittico a quello agricolo, voluta dal legislatore speciale,
senza, però, identificarlo con lo stesso, ha avuto, poi, un duplice vantaggio:
il primo e, forse, il più rilevante, è di avere assoggettato l’imprenditore
ittico al regime di favore previsto per quello agricolo, consentendogli, così,
di godere del beneficio di non essere più sottoposto, in caso di crisi della
impresa, alle procedure concorsuali, e, quindi al fallimento.
L’attività di pesca,
infatti, come quella agricola, è soggetta ad un duplice rischio: quello,
tipicamente legato ad ogni attività di impresa, a cui sono soggetti tutti gli
imprenditori, ma anche un altro rischio, connesso, principalmente, alla
natura ed alle sue leggi, a fattori ambientali, al tempo, alla aleatorietà
delle condizioni metereologiche. Un rischio, cioè, imprevedibile.
Questo accentuato
fattore, dipendente da più elementi, ha giustificato uno statuto speciale per
l’imprenditore agricolo nei confronti di altre categorie di imprenditori, e,
quindi, ora la sua estensione anche all’imprenditore ittico, in quanto, è
proprio la precarietà della loro attività che ha determinato questo
atteggiamento protettivo del legislatore, preoccupato, non solo di incentivare
e tutelare questi particolari settori deboli dell’economia, ma anche di
renderli, in tal modo, più competitivi ed adeguati agli altri segmenti del
mercato, in linea, anche, con un preciso orientamento in tal senso a livello
comunitario.
Altro aspetto, non meno
rilevante del primo, è che la pesca, ora
regolamentata dal d.lgs 226/2001 è, ormai, anche, comprensiva della fornitura di
servizi, ( art 3) quale attività connessa a quella principale, svolta
dall’imprenditore ittico mediante l’utilizzazione di prodotti provenienti in
prevalenza dalla pesca, ovvero mediante l’utilizzo di attrezzature o risorse
dell’azienda normalmente impiegate nell’attività principale.
Il legislatore speciale, quindi, nel
regolamentare le attività connesse alla pesca, si è rifatto, per grandi linee, a
quelle che caratterizzano l’impresa agricola, e, così come avviene per l’agricoltura, le
ha distinte dalle attività
essenzialmente ittiche.
L’art 3 del citato
D.P.R.226/2001 le individua nel “pescaturismo”, consistente nell’imbarco su
navi da pesca di persone non facenti parte dell’equipaggio a scopo turistico
ricreativo, e nell’ “ittiturismo”, come attività di ospitalità, ristorazione,
di servizi, ricreative, culturali finalizzate ad una corretta fruizione degli
ecosistemi acquatici e delle risorse della pesca, esercitata da pescatori
professionisti mediante l’utilizzo della propria abitazione o struttura nella disponibilità dell’imprenditore stesso.
Tra le attività connesse
viene considerata anche la prima lavorazione dei prodotti del mare, la loro conservazione
trasformazione, distribuzione e commercializzazione al dettaglio e
all’ingrosso, nonché la promozione e valorizzazione dei i prodotti della pesca
( art 3 lett.c).
Si è avuta, così, una
diversificazione della produzione verso altri settori creando nuove opportunità
di incremento del reddito di impresa, come
del resto avviene per l’imprenditore agricolo che accanto all’attività
principale svolge anche quella di servizi,
come l’agriturismo.
Questa analitica
elencazione dei contenuti, e dei possibili modi di esplicazione delle attività
connesse, operata dal legislatore speciale, vuole essere la risposta ai
numerosi dubbi interpretativi che avevano impegnato dottrina e giurisprudenza,
sin dalla emanazione del codice del ’42, sul
significato e la portata da dare al criterio della connessione.
Le attività connesse,
infatti, sono sostanzialmente ed intrinsecamente commerciali, ma se svolte
dagli stessi soggetti che esercitano quelle principali, vengono attratte
nell’area agricola, e, quindi, ora anche nell’area ittica.
Pertanto, perché una
attività connessa possa venire qualificata come ittica, è necessaria la
presenza di due elementi: uno soggettivo, consistente nella identità del soggetto
operante che deve svolgere una delle attività tipiche della pesca;
e l’altro oggettivo, che si tratti di attività avente ad oggetto
prodotti ottenuti “prevalentemente” dall’esercizio della attività principale, o
beni e servizi forniti mediante l’utilizzazione “ prevalente” di attrezzature e
risorse dell’azienda.
Pertanto determinante, è
la contemporanea presenza di questi due elementi, dato che lo svolgimento
autonomo delle attività connesse, considerate per natura prettamente
commerciali, manterrebbe, in capo a chi le esercita, la qualifica di
imprenditore commerciale, anche per la loro intrinseca capacità di offrire un
reddito, indipendentemente da un diretto collegamento con l’attività
principale.
Il loro esercizio deve,
quindi, necessariamente, coordinarsi e porsi in funzione con questa in quanto, se il collegamento non esiste, ed esse sono, invece, autonome,
si è al di fuori dell’ambito agricolo e
della pesca, con conseguente perdita dei benefici tipicamente legati a questi
settori.
Non si richiede un
criterio assoluto di accessorietà, ma, nel bilanciamento tra attività connesse
e principali, queste ultime devono presentarsi con caratteri di prevalenza
rispetto a quelle connesse che devono, quindi, avere solo funzione integrativa.
Il confine tra attività
di pesca, e commerciale, sta proprio nel loro diverso oggetto: per cui, mentre quelle
essenzialmente ittiche, già di per sé qualificano, come imprenditore ittico,
chi le esercita, per quelle connesse, è necessaria l’esistenza del suddetto requisito
di accessorietà come legame meramente funzionale con l’attività principale.
Nel d.lgs 226/2001
vengono, altresì, indicati i principi generali delle politiche da attuare in
materia di pesca e di acquacoltura, che dovranno essere sempre ispirate a principi
di sostenibilità e responsabilità verso l’ambiente ma anche verso i
consumatori, per assicurare non solo una produzione di qualità, ma anche nuove
opportunità occupazionali attraverso l’incentivazione della multifunzionalità
delle imprese.
Con il d.lgs, 228/2001, che ha riformulato
l’art 2135 c.c., e con il d.lgs. 226/2001
con cui è stata regolamentata l’attività di pesca, appare evidente un
allargamento del campo di applicazione dello statuto agrario e del trattamento
preferenziale riservato all’impresa agricola, ora estesa anche a quella ittica.
Così il legislatore
accomunando, in una visione integrata, agricoltura, acquacoltura e pesca, ha
voluto estendere il concetto di agricoltura oltre i confini tradizionali,
inserendovi tali nuovi settori che hanno punti di contatto con la materia,
dando forma ad una figura di imprenditore dinamico, in linea con gli
orientamenti comunitari in materia.
L’acquacoltura e la
maricoltura, con il loro crescente sviluppo in alternativa alla pesca c.d.
tradizionale, diventano, ora, un nuovo modo di concepire l’impresa ittica: il
diffondersi di questa pratica ha, infatti, consentito e consentirà di
migliorare non solo le prospettive economiche ed occupazionali del settore, ma
anche di evitare il costante depauperamento delle risorse marine, riducendo, in
tal modo, l’impatto negativo sull’ambiente.
Nell’ambito di queste
attività viene favorito l’ammodernamento delle strutture, lo sviluppo
occupazionale del settore, la tutela dell’ambiente, la qualità del prodotto, e
la tutela del consumatore.
Il nostro legislatore
intervenuto, recentemente, ancora in materia, con il d.lgs n.° 154/2004,
relativo alla modernizzazione del settore della pesca e dell’acquacoltura, ha
meglio specificato, all’art 6, che l’attività di pesca professionale, diretta
alla cattura o alla raccolta di organismi acquatici in ambienti marini,
salmastri o dolci, e quelle connesse, possono essere svolte, sia in forma
singola che associata o societaria.
Per quanto riguarda le
attività connesse, già disciplinate dal D.lgs 226/2001 il citato D.Lgs 154/2004 ne ha meglio
specificato il contenuto.
Per l’ittiturismo l’art.
7, lett. b) stabilisce che può essere finalizzato sia all’ospitalità in case di
pescatori professionisti all’uopo ristrutturate, sia ad attività ricreative
didattiche, culturali e di servizi, per una corretta fruizione degli ecosistemi
acquatici e vallivi, delle risorse della
pesca e dell’acquacoltura, e potranno essere offerti ai turisti anche prodotti
della pesca, così come avviene per l’agriturismo.
Per pescaturismo, l’art 7 lett.a),
la normativa, prevede la possibilità, per gli operatori del settore, di
ospitare, a bordo delle proprie imbarcazioni, previa autorizzazione
dell’autorità marittima, persone diverse dall’equipaggio, per lo svolgimento di
attività turistico-ricreative, realizzando, così, un ulteriore modo per
divulgare la cultura del mare.
Le escursioni lungo le coste, l’osservazione
della attività della pesca, la ristorazione a bordo, avvicinano, infatti, il
grande pubblico al mondo della pesca professionale, valorizzando, al tempo
stesso, l’ambiente costiero ed il diffondersi della cultura marinara.
La normativa estende,
poi, ( art 6 com 2 d.lgs 154/2004) la qualifica di imprenditore ittico anche
alle cooperative ed ai consorzi quando utilizzano, “prevalentemente”, prodotti
dei soci, ovvero forniscono ai medesimi beni e servizi.
L’avere ricompreso tali
cooperative nella categoria degli imprenditori ittici, ha evitato, ab origine,
questioni interpretative sulla loro qualificazione, così come era avvenuto per
quelle agricole.
Le cooperative, infatti,
sostituendosi ai singoli soci
produttori, svolgono, per loro conto, attività di trasformazione e di alienazione del prodotto.
Così, senza la suddetta estensione, l’autonoma
personalità giuridica dell’organismo societario, facendo venire meno quella
identità soggettiva, che, come abbiamo detto, è condizione necessaria per la
qualificazione delle attività connesse, avrebbe ricondotto le cooperative nella
area commerciale.
Pertanto con la
riformulazione dell’art 2135 c.c.,( che ha esteso la qualifica di imprenditore
agricolo anche alle cooperative) e con la previsione del richiamato art 6 com 2
del d.lgs n.°154/2004, che ha assimilato le cooperative all’imprenditore
ittico, viene superato il momento della sussistenza o meno della identità
soggettiva, e, quindi, la loro ricomprensione nell’area ittica non potrà essere
messa in discussione, così come era avvenuto, in passato, per le cooperative
agricole.
Conseguentemente,
l’attività di queste società, pur presentandosi con caratteri di impresa
diversa ed autonoma da quella della produzione, non potrà essere qualificata
commerciale, anche se i prodotti utilizzati non proverranno, esclusivamente,
dai soci, avendo, tale ultima norma (art 6 d.lg 154/2004), introdotto il
criterio della “prevalenza”, e non quello della “esclusività”. Criterio, questo
che viene, anche, previsto per la prestazione di beni e servizi, con una
evidente apertura verso un nuovo modo di concepire l’attività di cooperazione,
e la relativa loro qualificazione giuridica.
Possiamo, quindi, dire
che ora, in una visione globale di modernizzazione e razionalizzazione dei
settori agricolo e della pesca, viene agevolata la multifunzionalità delle
aziende, con la attribuzione di più ampi poteri agli operatori, non soltanto
nello svolgimento delle tradizionali attività, ma, anche, con apertura verso
altri servizi, per favorire lo sviluppo occupazionale, e l’insediamento, e la permanenza dei giovani in zone poco
sviluppate.
In questa più ampia
ottica, vanno, pertanto, inquadrati pescaturismo e ittiturismo: attività
queste, che hanno raggiunto, negli ultimi anni, un sempre crescente interesse
tra gli appassionati del mare, offrendo,
al tempo stesso agli operatori del settore, l’opportunità di operare su
nuove realtà, creando anche alternative forme di lavoro, soprattutto per i
giovani.
Le attività connesse, con la diversa
configurazione giuridica dell’imprenditore ittico, hanno acquistato rilevanza
economica di sostegno alla pesca, dando valida risposta ai problemi a questa
legati, riconvertendo anche gli operatori del settore ed arginando, così,
l’esodo occupazionale specialmente in periodi di crisi, e nell’alternarsi delle
stagioni.
La moderna impresa ittica
dovrà, pertanto, da un lato realizzare la
diversificazione delle attività produttive e, dall’altro, favorire più stretti rapporti tra turismo e
tradizioni marinare, in una visione che vuole l’impresa ittica, non solo proiettata
verso una maggiore produttività, ma, anche, verso la conoscenza e la
valorizzazione dell’ambiente costiero.
Il ruolo affidato alle
attività alternative, come il pescaturismo e l’ittiturismo, le attività
ricreative, e culturali a queste connesse, la valorizzazione dei prodotti
tipici e la loro vendita diretta, l’espansione dell’industria di
trasformazione, e la incentivazione della piccola pesca costiera, può
consentire una concreta svolta di modernizzazione del settore, puntando su una
produzione di qualità, più che di quantità, nell’ottica, soprattutto, di tutela
dell’ambiente e del consumatore.
La multifunzionalità
dell’impresa ittica consentirà, così, non solo di risanare vecchi borghi
marinari in località isolate, ristrutturando abitazioni tipiche dei pescatori
per favorire l’ittiturismo in quelle zone, ma potrà anche dare vita ad una nuova economia,
incrementata proprio da queste forme di turismo, con piani di intervento,
mirati a rivitalizzare quelle zone, attraverso l’apertura verso altri servizi.
Coordinare le diverse
attività di pesca, pescaturismo,
ittiturismo, acquacoltura con l’obiettivo di creare nuove opportunità di
reddito e di occupazione, ma anche uno sviluppo quanto più possibile compatibile
con l’ambiente e l’ecosistema in generale, potrà arginare il fenomeno dell’
esodo dei giovani dai luoghi dove sono nati e cresciuti, alla ricerca di altre, ed alternative forme
di guadagno.