L’esecuzione delle sentenze del
giudice ordinario
in materia di pubblico impiego
Massimiliano Marinelli*
Secondo l’art.
63, c. 2, del D. lgs. 165 del 2001, il giudice adotta “nei confronti delle
pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi o
di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Le sentenze con le
quali riconosce il diritto all’assunzione, ovvero accerta che l’assunzione è
avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto
rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro”. La
disposizione chiarisce, in modo forse superfluo dal punto di vista strettamente
interpretativo, che le sentenze emesse dall’autorità giudiziaria nei confronti
delle pubbliche amministrazioni hanno gli stessi effetti che avrebbero se si
trattasse di provvedimenti riguardanti un privato datore di lavoro[1]
(con i poteri del quale, è il caso di rammentare, esse agiscono nella gestione
del rapporto con i loro dipendenti). Il giudice assumerà il provvedimento
adeguato alla tutela del diritto fatto valere dal dipendente, e riconosciuto
all’esito del giudizio, e cioè concretamente idoneo a soddisfare l’interesse
sotteso all’azione. Sarà dunque pronunciata, a seconda dei casi, una sentenza
meramente dichiarativa, con la quale si accerterà in positivo o negativo una
determinata situazione[2],
una sentenza costitutiva (ovvero anche modificativa o estintiva del rapporto), o
infine una sentenza di condanna, che potrà avere come contenuto il
soddisfacimento di un’obbligazione pecuniaria, ovvero anche l’attuazione di un
obbligo di fare, di consegna o di rilascio[3].
Inoltre il
giudice ordinario può direttamente costituire o estinguere il rapporto di
lavoro, mediante la sentenza, che tiene luogo rispettivamente del contratto o
dell’atto che la pubblica amministrazione ha omesso di adottare. La norma in
esame è stata inserita al fine di evitare che una scorretta interpretazione
dell’art. 2908 c.c. (secondo il quale “l’autorità giudiziaria può costituire,
modificare od estinguere rapporti giuridici nei soli casi previsti dalla
legge”) potesse portare – unitamente alla presenza di scorie ricostruttive
derivanti dal regime previgente – il giudice ordinario a negare l’adozione di
provvedimenti che consentissero al dipendente di ottenere il bene negato
dall’amministrazione (l’assunzione), ovvero impedissero che l’inerzia del
datore di lavoro pubblico determinasse il permanere di situazione illegittime.
Tuttavia la
sentenza del giudice ordinario non è sempre sufficiente ad assicurare al
dipendente il perseguimento dell’interesse protetto. Certamente questo si
realizza nel caso in cui la sentenza si limiti ad accertare una situazione, ovvero
contenga la condanna al pagamento di una somma di danaro, quale che ne sia il
titolo (differenze retributive o risarcimento del danno). Nel primo caso
infatti la realizzazione dell’interesse tutelato si esaurisce con
l’accertamento della situazione fatta valere in giudizio, mentre nella seconda
ipotesi il dipendente, in caso di mancato adempimento da parte dell’amministrazione,
potrà in ogni caso fare ricorso alla normale procedura esecutiva. Analogamente,
qualora la sentenza di condanna non individui l’esatto ammontare del credito,
ma questo possa essere comunque determinato, il dipendente potrà ottenere dal
Tribunale l’emanazione di un decreto ingiuntivo, che ordini il pagamento delle
somme in questione.
Tuttavia la
concreta attuazione della sentenza spesso non può essere ottenuta dal soggetto
vittorioso soltanto attraverso la collaborazione dell’autorità giudiziaria o
degli ausiliari del giudice. In numerose ipotesi infatti la concreta
realizzazione dell’interesse protetto necessita della collaborazione della
parte soccombente, vale a dire, nel caso in esame, dell’amministrazione.
Secondo l’opinione dominante infatti una serie di attività (c.d. obblighi di
fare infungibili) devono necessariamente essere attuati dall’interessato, senza
che sia possibile sostituire ad esso la volontà del giudice, ovvero di altri
soggetti[4].
Si potrebbe dunque arrivare alla situazione – come accade spesso nel rapporto
di lavoro alle dipendenze di privati – per cui il lavoratore, pur avendo
ottenuto una sentenza a lui favorevole, non può pienamente vedere realizzata la
tutela approntata dall’ordinamento, in quanto il soggetto condannato si rifiuta
di cooperare. Ad esempio la sentenza di reintegrazione all’esito di un
licenziamento dichiarato illegittimo nell’area sottoposta alla tutela di cui
all’art. 18 della l. 20 maggio 1970, n. 300, ricostituisce dal punto di vista
giuridico il rapporto di lavoro[5].
Tuttavia, fermo restando il diritto del lavoratore alla percezione della
retribuzione, soltanto il datore di lavoro
può concretamente riattribuire al dipendente le mansioni svolte,
reinserendolo all’interno della propria organizzazione[6].
In linea
generale dunque le difficoltà sorgono nel caso in cui gli obblighi affermati
nella sentenza (direttamente oggetto della condanna, ovvero strumentali
rispetto al pieno esplicarsi dell’effetto costitutivo, modificativo o estintivo
prodotto dalla sentenza) consistano in attività diverse dal pagamento, ed
attengano ad un fare o ad un non fare infungibili. Per superare tali difficoltà
(peraltro meno gravi di quanto appaia, in quanto comunque gli organi
amministrativi che non danno esecuzione ad una sentenza rischiano un’azione di
responsabilità per danno erariale davanti alla corte dei conti) il dipendente
pubblico ha a disposizione uno strumento che non è offerto al lavoratore
privato, vale a dire il c.d. giudizio di ottemperanza[7].
Invero l’art.
27, n. 4 del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054 (Testo Unico delle leggi sul
Consiglio di Stato) dispone che l’interessato possa proporre ricorso al giudice
amministrativo per ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’amministrazione di
conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, “al giudicato del tribunale
che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico”. Pur
trattandosi di un ricorso promosso davanti al giudice amministrativo, la sua
origine attiene proprio alla necessità di ottenere l’esecuzione del giudicato
del giudice ordinario nell’ipotesi in cui a tale fine fosse necessaria
l’eliminazione dell’atto amministrativo – che come si è visto ancora oggi il
giudice ordinario può soltanto disapplicare ai fini della decisione della
controversia – ovvero un ulteriore adempimento dell’amministrazione. Successivamente
tale procedimento è stato esteso anche al giudicato amministrativo, e su di
esse si sono modellati i procedimenti contenuti nell’art. 3 e nell’art. 10
della l. 21 luglio 2000, n. 205, relativi rispettivamente all’esecuzione delle
misure cautelari concesse dal giudice amministrativo, ed all’esecuzione delle
sentenze di primo grado che non siano state sospese dal Consiglio di Stato (in
Sicilia dal Consiglio di Giustizia Amministrativa)[8].
Il ricorso a
tale strumento è stato criticato in dottrina[9],
ritenendo dalla sua conservazione deriverebbe una parziale ripubblicizzazione
della giurisdizione. Infatti il giudice chiamato a decidere il ricorso ha –
come meglio si vedrà tra poco – il potere di interpretare, integrare e completare
la sentenza del giudice ordinario[10].
Tuttavia la norma istitutiva di tale procedimento fa espresso riferimento
all’esecuzione del giudicato delle sentenze del tribunale, senza ulteriori
specificazioni. Di conseguenza – in assenza di una disposizione che ne escluda
l’applicazione nel caso in cui le sentenze siano emesse da tale organo in
funzione di giudice del lavoro – si deve ritenere che tale procedimento possa
essere esperito anche dal dipendente pubblico, per ottenere il pieno
soddisfacimento della propria posizione giuridica a fronte di un comportamento
ostruzionistico del proprio datore di lavoro. Del resto, benché nella pratica
non si abbiano ancora orientamenti consolidati, i giudici amministrativi sembrano
ad oggi ritenere ammissibile l’utilizzo di tale strumento.
Il giudizio
può essere proposto soltanto nel caso in cui la sentenza del giudice ordinario
sia passata in giudicato. Rimane dunque esclusa, nonostante le sentenze di
primo grado siano provvisoriamente esecutive, la possibilità di fare ricorso al
giudice amministrativo prima che sia esaurito il termine per proporre i mezzi
di impugnazione previsti dal codice di procedura civile. Non si può infatti
ricorrere alla procedura di cui all’art. 10 della l. 205 del
Secondo
l’opinione preferibile il giudizio di ottemperanza non costituisce un semplice
giudizio di esecuzione, in quanto il suo presupposto è dato dall’accertamento
da parte del giudice amministrativo dell’esistenza di una situazione di mancata
esecuzione rispetto ad una sentenza del giudice ordinario che sia passata in
giudicato. L’oggetto di tale giudizio consiste nella verifica dell’effettivo
adempimento da parte dell’amministrazione dell’obbligo di conformarsi al
comando impartito dal giudice. Benché si ritenga che per stabilire “se
l’amministrazione abbia effettivamente soddisfatto il giudicato, ovvero sia
rimasta inerte o abbia adempiuto solo in parte o abbia tenuto un comportamento
elusivo” occorra fare riferimento “alla concreta realtà processuale ed al
contenuto della sentenza … non essendo consentito dilatare tale contenuto fino
a comprendere statuizioni non contenute nella sentenza e che non siano un
effetto diretto ed immediato della stessa”[12],
è di tutta evidenza come il potere di interpretare la decisione del giudice
ordinario per accertarne la reale esecuzione finisca spesso con il dare al
giudice amministrativo la possibilità di scegliere tra più possibili
significati da attribuire alla sentenza. Si
ritiene del resto che egli debba “enucleare e precisare il contenuto
degli obblighi nascenti dalla sentenza passata in giudicato, chiarendone se
necessario il significato reale”, precisando il contenuto di quanto dalla
stessa statuito.[13]
Qualora invece
la sentenza non richieda per la sua attuazione alcuna nuova o ulteriore
attività dell’amministrazione, non si può parlare di mancata esecuzione del
giudicato (non essendo l’esecuzione necessaria) per cui non è esperibile il
rimedio in questione. Egualmente – ma la questione è stata assai dibattuta – il
ricorso al giudizio di ottemperanza sarebbe escluso nel caso in cui manchi
un’area entro la quale l’amministrazione abbia il potere di scegliere quale
comportamento tenere in relazione all’interesse pubblico, e di determinare il
tipo ed il contenuto del provvedimento da adottare[14].
Il
procedimento è tuttora regolato dagli artt. 90 e 91 del R.D. 17 agosto 1907, n.
641, la cui interpretazione però è su alcuni aspetti mutata nel corso del
tempo. Prima di proporre il ricorso l’interessato deve mettere in mora
l’amministrazione, tramite l’invio di una diffida ad adempiere. Decorsi trenta
giorni dalla ricezione di tale atto si può proporre ricorso al Presidente del
tribunale amministrativo competente per il circondario in cui ha sede il
giudice che ha emesso la sentenza non eseguita. Il ricorso – secondo un recente
mutamento di indirizzo[15]
– deve essere preventivamente notificato all’amministrazione inadempiente, e
successivamente depositato nella segreteria del tribunale amministrativo cui è
diretto entro il termine perentorio di trenta giorni. Dopo il deposito il ricorso va comunicato a cura della segreteria al
ministero competente (o all’autorità che esercita la vigilanza
sull’amministrazione inadempiente), per le eventuali osservazioni, che possono
essere rese entro venti giorni dalla ricezione della comunicazione. Il
ricorso viene di regola discusso in camera di consiglio e deciso con un
provvedimento adottato dall’organo in composizione collegiale, che viene poi
pubblicato nei modi prescritti per la sentenza amministrativa.
La sentenza è
appellabile al Consiglio di Stato (in Sicilia al Consiglio di Giustizia
Amministrativa), limitatamente alle questioni di tipo procedurale, nonché in
merito alle condizioni soggettive ed oggettive dell’azione, ed alla sua
fondatezza. In particolare può essere proposto appello contro le determinazioni
adottate dallo stesso giudice che abbiano affrontato e risolto questioni di
tipo cognitorio concernenti l'individuazione dell'esatta interpretazione della
decisione da eseguire[16].
Non sono invece censurabili le misure dettate dal giudice di primo grado, se
esse sono meramente applicative delle statuizioni contenute nel giudicato[17].
Nel giudizio
di ottemperanza sussiste una giurisdizione di merito, in quanto il giudice ha
attribuito un potere sostitutivo nei confronti dell’amministrazione. Tuttavia
normalmente il tribunale amministrativo non adotta direttamente il
provvedimento satisfattivo dell’interesse fatto valere dal ricorrente[18].
Invece, dopo avere individuato il contenuto della statuizione della sentenza,
ed i termini in cui questa va eseguita, viene solitamente assegnato un
ulteriore termine perentorio all’amministrazione perché provveda all’esecuzione
della sentenza (così come interpretata dal giudice dell’ottemperanza),
prevedendo in caso di mancata ottemperanza la nomina di un soggetto chiamato a
dare concreta esecuzione al comando (c.d. commissario ad acta)[19].
Si discute se dopo il decorso del termine perentorio e la nomina del
commissario ad acta l’amministrazione
possa dare esecuzione alla sentenza, ovvero sia – in seguito all’insediamento
del citato organo, completamente privata del potere di agire. L'orientamento della giurisprudenza
sul punto non risulta univoco. Secondo alcune decisioni la nomina del
commissario non determina, di per sé, l'esaurimento della competenza dell’amministrazione
sostituita. Di conseguenza, qualora questa emani, dopo la scadenza del termine
assegnatole per ottemperare, un provvedimento satisfattorio, tale atto non deve
considerarsi radicalmente nullo, ma solamente annullabile dal giudice
dell’esecuzione, qualora la statuizione non sia pienamente satisfattiva[20].
Secondo altre decisioni, a seguito della nomina del commissario gli organi
dell'amministrazione vengono esautorati dalle loro normali attribuzioni, nei
limiti strettamente necessari per l'adempimento del giudicato. La nomina del
commissario determinerebbe quindi una vera e propria carenza sopravvenuta di
potestà dell'amministrazione che, nei limiti indicati, non potrebbe più
validamente disporre degli interessi considerati[21].
Il commissario
ad acta ( figura non espressamente
prevista dalle norme vigenti, ma di creazione giurisprudenziale) non è un
organo dell’amministrazione, bensì un ausiliario del giudice dell’ottemperanza[22],
alle cui direttive – contenute nella sentenza di esecuzione – è vincolato, pur
conservando un margine di autonomia e discrezionalità (maggiore o minore in
relazione al contenuto della pronunzia del giudice amministrativo). Egli adotta
le sue determinazioni al solo fine di eseguire il giudicato, e non in funzione degli
interessi pubblici il cui perseguimento costituirebbe il normale canone di
comportamento dell’Amministrazione sostituita. Da ciò consegue che i suoi
provvedimenti sono immediatamente esecutivi, e non sono assoggettati
all’ordinario regime dei controlli (interni ed esterni) degli atti
dell’amministrazione. Vanno invece sottoposti unicamente “all’immanente controllo” dello stesso Giudice, cui le parti
possono rivolgersi attraverso un nuovo ricorso per l’esecuzione del giudicato,
in caso di mancata o scorretta applicazione dei principi affermati nella
sentenza[23].
Il ricorso al giudizio di ottemperanza è
ritenuto ammissibile anche nel caso di condanna al pagamento di una somma di
danaro, come alternativa alla procedura esecutiva in sede civile[24].
Ad essa, nonostante i termini assai più lunghi derivanti dalle norme procedurali,
e dalla prassi come sopra descritta, può trovare conveniente fare ricorso il
dipendente che sia risultato vittorioso, in quanto il commissario ad acta può esercitare nei confronti
dell’amministrazione inadempiente poteri assai più ampi dell’ufficiale
giudiziario o del giudice dell’esecuzione civile. Egli è infatti legittimato ad eseguire tutti
gli atti e gli adempimenti necessari per
dare concreto soddisfacimento al diritto di credito, mediante l'esercizio di
un'attività compiuta quale organo del giudice dell'ottemperanza nell'ambito
della “procedimentalizzazione dell'erogazione della spesa”, a conclusione della
quale sarà emesso il relativo mandato di pagamento. A tale fine deve provvedere
all’allocazione della somma in bilancio (ove manchi un apposito stanziamento),
all'espletamento delle fasi di impegno, liquidazione, ordinazione e pagamento
della spesa, nonché al reperimento materiale della somma, senza che l'esaurimento
dei fondi di bilancio, o la mancanza di disponibilità di cassa, possano
costituire legittima causa di impedimento all'esecuzione del giudicato[25].
Per l’espletamento dell’incarico il commissario
potrà utilizzare qualsiasi somma, con esclusione di quelle per le quali, in
virtù di espresse disposizioni di legge,
sia espressamente precluso ogni suo intervento. Potrà, inoltre,
procedere direttamente all’adozione di tutti gli atti ritenuti in concreto
necessari per l’esecuzione del giudicato (come, ad esempio, variazioni di
bilancio, storni, emissione di mandati, accensione di mutui, etc.) avvalendosi
degli ausili resi necessari dalla complessità della materia, con il potere –
derivante dall’incarico giurisdizionale – di ordinare agli organi dell’amministrazione
il compimento degli atti considerati essenziali per l’ottemperanza del
giudicato[26].
In presenza poi di situazioni altamente deficitarie e di esecuzione di
giudicato concernente crediti di una certa rilevanza, lo stesso commissario
potrà disporre il pagamento rateizzato degli stessi crediti.
Gli organi dell’amministrazione hanno l'obbligo
di collaborare con il commissario ad acta,
ed è loro preclusa ogni possibilità di interferire con i poteri deliberativi di
questi. In particolare, gli organi predetti non possono opporre alcun ostacolo
alle variazioni di bilancio, all'effettuazione di eventuali storni ed a tutte
le altre incombenze ritenute necessarie dal commissario per l'esatta esecuzione
della sentenza, potendo tale opposizione assumere la rilevanza di un illecito
penale.
* Professore Ordinario di Diritto del Lavoro dell’Università degli
Studi di Palermo.
[1] Cfr. M. Dell’Olio, La tutela
dei diritti del dipendente pubblico dinanzi al giudice ordinario, in ADL, 1999, 131.
[2] Sull’ammissibilità di sentenze
che si limitino a dichiarare una determinata situazione, senza ulteriori
pronunce costitutive o di condanna, a condizione che pongano fine ad una
situazione di obiettiva incertezza, cfr. fra molte Cass. 11 marzo 2005, n.
5366.
[3] Cfr. B. Sassani, Giurisdizione
ordinaria, poteri del giudice ed esecuzione della sentenza nelle controversie
di lavoro con la pubblica amministrazione, in RTDPC, 1999, 413 (sul punto 423).
[4] Cfr. per tutti sulla complessa
questione S. Mazzamuto, L’attuazione degli obblighi di fare, Napoli,
Jovene, 1978.
[5] Cfr. M. Napoli, La stabilità
reale nel rapporto di lavoro, Milano, Franco Angeli, 1980; G. Ghezzi – U. Romagnoli, Il rapporto di lavoro, 3° ed., Bologna,
Zanichelli, 1995, 344.
[6] Cfr. A. Proto Pisani, Licenziamento
e reintegrazione nel posto di lavoro, in Idem,
Nuovi studi di diritto processuale del
lavoro, Milano, Franco Angeli, 1992, 118.
[7] Cfr. per tutti P. Virga, La tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione,
3° ed., Milano, Giuffrè, 1991, 423; V.
Caianiello, Manuale di diritto
processuale amministrativo, 2° ed., 1994, 838.
[8] Cfr. R. Ursi, L’esecuzione
immediata della sentenza amministrativa, Torino, Giappichelli, 2003.
[9] Cfr. E. Apicella, Il lavoro
nelle pubbliche amministrazioni, in ED
Agg. VI, Milano, Giuffrè, 2003, 602 (sul punto 643).
[10] Cfr. A. Sassani, Giurisdizione
ordinaria, cit., 424.
[11] Cfr. Tar Abruzzo – Pescara, 6
ottobre 2006, n. 660; Tar Sicilia – Palermo, 1 dicembre 2006, n. 3268.
[12] Cfr. Cons. Stato IV, 12 marzo
2007, n. 1194.
[13] Cfr. per tutte Cons. Stato, IV,
11 aprile 2007, n. 1612; Tar Sicilia – Catania, III, 29 marzo 2007, n. 535.
[14] Cfr. Cass. civ. S.U., 3 febbraio
1988, n.
[15] Cfr. Cons. Stato, V, 22 febbraio
2000, n.
[16] Cfr. Cons. giust. amm., 8 luglio
1998, n.426, in CS, 1998, I, 1213; in
termini Cons. Stato Ad. Plen. 29 gennaio 1980, n. 2.
[17] Cfr. V. Caianiello, Manuale
di diritto processuale amministrativo, cit., 878.
[18] Cfr. P. Virga, La tutela
giurisdizionale, cit., 425.
[19] Cfr. V. Caputi Jambrenghi, Commissario
ad acta, in ED Agg. VI, Milano,
Giuffrè, 2003, 284.
[20] Cfr. Cons. Stato, VI, 19 gennaio 1995, n.
[21] Cfr. Cons. giust. amm., 21 dicembre 1982 n.
[22] Cfr. Cons. Stato Ad. Plen., 9 marzo 1973, n. 1;
Cons. Stato, VI, 9 giugno 1986, n.
[23] Cfr. P. Virga, La tutela
giurisdizionale, cit., 433; Cons. Stato Ad. Plen., 14 luglio 1978, n.
[24] Cfr. Cons. Stato, IV, 25 luglio
2000, n.
[25] Cfr. Cons. Stato Ad. Plen., 14 luglio 1978, n.
23, cit.; Tar Sicilia – Catania, 30 gennaio 1996, n. 45.
[26] Cfr. fra molte Tar Sicilia - Catania, III, 31
luglio 1998, n. 1376; Tar Basilicata, 7 ottobre 1991, n. 299.
Data di pubblicazione: 7 aprile 2008.