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Vol. VI/2008

RIVISTA DI DIRITTO DELL’ECONOMIA,

DEI TRASPORTI E DELL’AMBIENTE

 

 

 L’esecuzione delle sentenze del giudice ordinario

in materia di pubblico impiego

 

Massimiliano Marinelli*

 

Secondo l’art. 63, c. 2, del D. lgs. 165 del 2001, il giudice adotta “nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Le sentenze con le quali riconosce il diritto all’assunzione, ovvero accerta che l’assunzione è avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro”. La disposizione chiarisce, in modo forse superfluo dal punto di vista strettamente interpretativo, che le sentenze emesse dall’autorità giudiziaria nei confronti delle pubbliche amministrazioni hanno gli stessi effetti che avrebbero se si trattasse di provvedimenti riguardanti un privato datore di lavoro[1] (con i poteri del quale, è il caso di rammentare, esse agiscono nella gestione del rapporto con i loro dipendenti). Il giudice assumerà il provvedimento adeguato alla tutela del diritto fatto valere dal dipendente, e riconosciuto all’esito del giudizio, e cioè concretamente idoneo a soddisfare l’interesse sotteso all’azione. Sarà dunque pronunciata, a seconda dei casi, una sentenza meramente dichiarativa, con la quale si accerterà in positivo o negativo una determinata situazione[2], una sentenza costitutiva (ovvero anche modificativa o estintiva del rapporto), o infine una sentenza di condanna, che potrà avere come contenuto il soddisfacimento di un’obbligazione pecuniaria, ovvero anche l’attuazione di un obbligo di fare, di consegna o di rilascio[3].

Inoltre il giudice ordinario può direttamente costituire o estinguere il rapporto di lavoro, mediante la sentenza, che tiene luogo rispettivamente del contratto o dell’atto che la pubblica amministrazione ha omesso di adottare. La norma in esame è stata inserita al fine di evitare che una scorretta interpretazione dell’art. 2908 c.c. (secondo il quale “l’autorità giudiziaria può costituire, modificare od estinguere rapporti giuridici nei soli casi previsti dalla legge”) potesse portare – unitamente alla presenza di scorie ricostruttive derivanti dal regime previgente – il giudice ordinario a negare l’adozione di provvedimenti che consentissero al dipendente di ottenere il bene negato dall’amministrazione (l’assunzione), ovvero impedissero che l’inerzia del datore di lavoro pubblico determinasse il permanere di situazione illegittime.

Tuttavia la sentenza del giudice ordinario non è sempre sufficiente ad assicurare al dipendente il perseguimento dell’interesse protetto. Certamente questo si realizza nel caso in cui la sentenza si limiti ad accertare una situazione, ovvero contenga la condanna al pagamento di una somma di danaro, quale che ne sia il titolo (differenze retributive o risarcimento del danno). Nel primo caso infatti la realizzazione dell’interesse tutelato si esaurisce con l’accertamento della situazione fatta valere in giudizio, mentre nella seconda ipotesi il dipendente, in caso di mancato adempimento da parte dell’amministrazione, potrà in ogni caso fare ricorso alla normale procedura esecutiva. Analogamente, qualora la sentenza di condanna non individui l’esatto ammontare del credito, ma questo possa essere comunque determinato, il dipendente potrà ottenere dal Tribunale l’emanazione di un decreto ingiuntivo, che ordini il pagamento delle somme in questione.

Tuttavia la concreta attuazione della sentenza spesso non può essere ottenuta dal soggetto vittorioso soltanto attraverso la collaborazione dell’autorità giudiziaria o degli ausiliari del giudice. In numerose ipotesi infatti la concreta realizzazione dell’interesse protetto necessita della collaborazione della parte soccombente, vale a dire, nel caso in esame, dell’amministrazione. Secondo l’opinione dominante infatti una serie di attività (c.d. obblighi di fare infungibili) devono necessariamente essere attuati dall’interessato, senza che sia possibile sostituire ad esso la volontà del giudice, ovvero di altri soggetti[4]. Si potrebbe dunque arrivare alla situazione – come accade spesso nel rapporto di lavoro alle dipendenze di privati – per cui il lavoratore, pur avendo ottenuto una sentenza a lui favorevole, non può pienamente vedere realizzata la tutela approntata dall’ordinamento, in quanto il soggetto condannato si rifiuta di cooperare. Ad esempio la sentenza di reintegrazione all’esito di un licenziamento dichiarato illegittimo nell’area sottoposta alla tutela di cui all’art. 18 della l. 20 maggio 1970, n. 300, ricostituisce dal punto di vista giuridico il rapporto di lavoro[5]. Tuttavia, fermo restando il diritto del lavoratore alla percezione della retribuzione, soltanto il datore di lavoro  può concretamente riattribuire al dipendente le mansioni svolte, reinserendolo all’interno della propria organizzazione[6].

In linea generale dunque le difficoltà sorgono nel caso in cui gli obblighi affermati nella sentenza (direttamente oggetto della condanna, ovvero strumentali rispetto al pieno esplicarsi dell’effetto costitutivo, modificativo o estintivo prodotto dalla sentenza) consistano in attività diverse dal pagamento, ed attengano ad un fare o ad un non fare infungibili. Per superare tali difficoltà (peraltro meno gravi di quanto appaia, in quanto comunque gli organi amministrativi che non danno esecuzione ad una sentenza rischiano un’azione di responsabilità per danno erariale davanti alla corte dei conti) il dipendente pubblico ha a disposizione uno strumento che non è offerto al lavoratore privato, vale a dire il c.d. giudizio di ottemperanza[7].

Invero l’art. 27, n. 4 del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054 (Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato) dispone che l’interessato possa proporre ricorso al giudice amministrativo per ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, “al giudicato del tribunale che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico”. Pur trattandosi di un ricorso promosso davanti al giudice amministrativo, la sua origine attiene proprio alla necessità di ottenere l’esecuzione del giudicato del giudice ordinario nell’ipotesi in cui a tale fine fosse necessaria l’eliminazione dell’atto amministrativo – che come si è visto ancora oggi il giudice ordinario può soltanto disapplicare ai fini della decisione della controversia – ovvero un ulteriore adempimento dell’amministrazione. Successivamente tale procedimento è stato esteso anche al giudicato amministrativo, e su di esse si sono modellati i procedimenti contenuti nell’art. 3 e nell’art. 10 della l. 21 luglio 2000, n. 205, relativi rispettivamente all’esecuzione delle misure cautelari concesse dal giudice amministrativo, ed all’esecuzione delle sentenze di primo grado che non siano state sospese dal Consiglio di Stato (in Sicilia dal Consiglio di Giustizia Amministrativa)[8].

Il ricorso a tale strumento è stato criticato in dottrina[9], ritenendo dalla sua conservazione deriverebbe una parziale ripubblicizzazione della giurisdizione. Infatti il giudice chiamato a decidere il ricorso ha – come meglio si vedrà tra poco – il potere di interpretare, integrare e completare la sentenza del giudice ordinario[10]. Tuttavia la norma istitutiva di tale procedimento fa espresso riferimento all’esecuzione del giudicato delle sentenze del tribunale, senza ulteriori specificazioni. Di conseguenza – in assenza di una disposizione che ne escluda l’applicazione nel caso in cui le sentenze siano emesse da tale organo in funzione di giudice del lavoro – si deve ritenere che tale procedimento possa essere esperito anche dal dipendente pubblico, per ottenere il pieno soddisfacimento della propria posizione giuridica a fronte di un comportamento ostruzionistico del proprio datore di lavoro. Del resto, benché nella pratica non si abbiano ancora orientamenti consolidati, i giudici amministrativi sembrano ad oggi ritenere ammissibile l’utilizzo di tale strumento.

Il giudizio può essere proposto soltanto nel caso in cui la sentenza del giudice ordinario sia passata in giudicato. Rimane dunque esclusa, nonostante le sentenze di primo grado siano provvisoriamente esecutive, la possibilità di fare ricorso al giudice amministrativo prima che sia esaurito il termine per proporre i mezzi di impugnazione previsti dal codice di procedura civile. Non si può infatti ricorrere alla procedura di cui all’art. 10 della l. 205 del 2005, in quanto tale norma fa espresso riferimento all’esecuzione delle sentenze non sospese dal Consiglio di Stato (con ciò chiaramente limitando il suo ambito di applicazione alle decisioni dei tribunali amministrativi regionali)[11].

Secondo l’opinione preferibile il giudizio di ottemperanza non costituisce un semplice giudizio di esecuzione, in quanto il suo presupposto è dato dall’accertamento da parte del giudice amministrativo dell’esistenza di una situazione di mancata esecuzione rispetto ad una sentenza del giudice ordinario che sia passata in giudicato. L’oggetto di tale giudizio consiste nella verifica dell’effettivo adempimento da parte dell’amministrazione dell’obbligo di conformarsi al comando impartito dal giudice. Benché si ritenga che per stabilire “se l’amministrazione abbia effettivamente soddisfatto il giudicato, ovvero sia rimasta inerte o abbia adempiuto solo in parte o abbia tenuto un comportamento elusivo” occorra fare riferimento “alla concreta realtà processuale ed al contenuto della sentenza … non essendo consentito dilatare tale contenuto fino a comprendere statuizioni non contenute nella sentenza e che non siano un effetto diretto ed immediato della stessa”[12], è di tutta evidenza come il potere di interpretare la decisione del giudice ordinario per accertarne la reale esecuzione finisca spesso con il dare al giudice amministrativo la possibilità di scegliere tra più possibili significati da attribuire alla sentenza. Si  ritiene del resto che egli debba “enucleare e precisare il contenuto degli obblighi nascenti dalla sentenza passata in giudicato, chiarendone se necessario il significato reale”, precisando il contenuto di quanto dalla stessa statuito.[13]

Qualora invece la sentenza non richieda per la sua attuazione alcuna nuova o ulteriore attività dell’amministrazione, non si può parlare di mancata esecuzione del giudicato (non essendo l’esecuzione necessaria) per cui non è esperibile il rimedio in questione. Egualmente – ma la questione è stata assai dibattuta – il ricorso al giudizio di ottemperanza sarebbe escluso nel caso in cui manchi un’area entro la quale l’amministrazione abbia il potere di scegliere quale comportamento tenere in relazione all’interesse pubblico, e di determinare il tipo ed il contenuto del provvedimento da adottare[14].  

Il procedimento è tuttora regolato dagli artt. 90 e 91 del R.D. 17 agosto 1907, n. 641, la cui interpretazione però è su alcuni aspetti mutata nel corso del tempo. Prima di proporre il ricorso l’interessato deve mettere in mora l’amministrazione, tramite l’invio di una diffida ad adempiere. Decorsi trenta giorni dalla ricezione di tale atto si può proporre ricorso al Presidente del tribunale amministrativo competente per il circondario in cui ha sede il giudice che ha emesso la sentenza non eseguita. Il ricorso – secondo un recente mutamento di indirizzo[15] – deve essere preventivamente notificato all’amministrazione inadempiente, e successivamente depositato nella segreteria del tribunale amministrativo cui è diretto entro il termine perentorio di trenta giorni. Dopo il deposito il ricorso va comunicato a cura della segreteria al ministero competente (o all’autorità che esercita la vigilanza sull’amministrazione inadempiente), per le eventuali osservazioni, che possono essere rese entro venti giorni dalla ricezione della comunicazione. Il ricorso viene di regola discusso in camera di consiglio e deciso con un provvedimento adottato dall’organo in composizione collegiale, che viene poi pubblicato nei modi prescritti per la sentenza amministrativa.

La sentenza è appellabile al Consiglio di Stato (in Sicilia al Consiglio di Giustizia Amministrativa), limitatamente alle questioni di tipo procedurale, nonché in merito alle condizioni soggettive ed oggettive dell’azione, ed alla sua fondatezza. In particolare può essere proposto appello contro le determinazioni adottate dallo stesso giudice che abbiano affrontato e risolto questioni di tipo cognitorio concernenti l'individuazione dell'esatta interpretazione della decisione da eseguire[16]. Non sono invece censurabili le misure dettate dal giudice di primo grado, se esse sono meramente applicative delle statuizioni contenute nel giudicato[17]. 

Nel giudizio di ottemperanza sussiste una giurisdizione di merito, in quanto il giudice ha attribuito un potere sostitutivo nei confronti dell’amministrazione. Tuttavia normalmente il tribunale amministrativo non adotta direttamente il provvedimento satisfattivo dell’interesse fatto valere dal ricorrente[18]. Invece, dopo avere individuato il contenuto della statuizione della sentenza, ed i termini in cui questa va eseguita, viene solitamente assegnato un ulteriore termine perentorio all’amministrazione perché provveda all’esecuzione della sentenza (così come interpretata dal giudice dell’ottemperanza), prevedendo in caso di mancata ottemperanza la nomina di un soggetto chiamato a dare concreta esecuzione al comando (c.d. commissario ad acta)[19]. Si discute se dopo il decorso del termine perentorio e la nomina del commissario ad acta l’amministrazione possa dare esecuzione alla sentenza, ovvero sia – in seguito all’insediamento del citato organo, completamente privata del potere di agire. L'orientamento della giurisprudenza sul punto non risulta univoco. Secondo alcune decisioni la nomina del commissario non determina, di per sé, l'esaurimento della competenza dell’amministrazione sostituita. Di conseguenza, qualora questa emani, dopo la scadenza del termine assegnatole per ottemperare, un provvedimento satisfattorio, tale atto non deve considerarsi radicalmente nullo, ma solamente annullabile dal giudice dell’esecuzione, qualora la statuizione non sia pienamente satisfattiva[20]. Secondo altre decisioni, a seguito della nomina del commissario gli organi dell'amministrazione vengono esautorati dalle loro normali attribuzioni, nei limiti strettamente necessari per l'adempimento del giudicato. La nomina del commissario determinerebbe quindi una vera e propria carenza sopravvenuta di potestà dell'amministrazione che, nei limiti indicati, non potrebbe più validamente disporre degli interessi considerati[21].

Il commissario ad acta ( figura non espressamente prevista dalle norme vigenti, ma di creazione giurisprudenziale) non è un organo dell’amministrazione, bensì un ausiliario del giudice dell’ottemperanza[22], alle cui direttive – contenute nella sentenza di esecuzione – è vincolato, pur conservando un margine di autonomia e discrezionalità (maggiore o minore in relazione al contenuto della pronunzia del giudice amministrativo). Egli adotta le sue determinazioni al solo fine di eseguire il giudicato, e non in funzione degli interessi pubblici il cui perseguimento costituirebbe il normale canone di comportamento dell’Amministrazione sostituita. Da ciò consegue che i suoi provvedimenti sono immediatamente esecutivi, e non sono assoggettati all’ordinario regime dei controlli (interni ed esterni) degli atti dell’amministrazione. Vanno invece sottoposti unicamente “all’immanente  controllo” dello stesso Giudice, cui le parti possono rivolgersi attraverso un nuovo ricorso per l’esecuzione del giudicato, in caso di mancata o scorretta applicazione dei principi affermati nella sentenza[23].

Il ricorso al giudizio di ottemperanza è ritenuto ammissibile anche nel caso di condanna al pagamento di una somma di danaro, come alternativa alla procedura esecutiva in sede civile[24]. Ad essa, nonostante i termini assai più lunghi derivanti dalle norme procedurali, e dalla prassi come sopra descritta, può trovare conveniente fare ricorso il dipendente che sia risultato vittorioso, in quanto il commissario ad acta può esercitare nei confronti dell’amministrazione inadempiente poteri assai più ampi dell’ufficiale giudiziario o del giudice dell’esecuzione civile.  Egli è infatti legittimato ad eseguire tutti gli atti e gli adempimenti necessari  per dare concreto soddisfacimento al diritto di credito, mediante l'esercizio di un'attività compiuta quale organo del giudice dell'ottemperanza nell'ambito della “procedimentalizzazione dell'erogazione della spesa”, a conclusione della quale sarà emesso il relativo mandato di pagamento. A tale fine deve provvedere all’allocazione della somma in bilancio (ove manchi un apposito stanziamento), all'espletamento delle fasi di impegno, liquidazione, ordinazione e pagamento della spesa, nonché al reperimento materiale della somma, senza che l'esaurimento dei fondi di bilancio, o la mancanza di disponibilità di cassa, possano costituire legittima causa di impedimento all'esecuzione del giudicato[25].

Per l’espletamento dell’incarico il commissario potrà utilizzare qualsiasi somma, con esclusione di quelle per le quali, in virtù di espresse disposizioni di legge,  sia espressamente precluso ogni suo intervento. Potrà, inoltre, procedere direttamente all’adozione di tutti gli atti ritenuti in concreto necessari per l’esecuzione del giudicato (come, ad esempio, variazioni di bilancio, storni, emissione di mandati, accensione di mutui, etc.) avvalendosi degli ausili resi necessari dalla complessità della materia, con il potere – derivante dall’incarico giurisdizionale – di ordinare agli organi dell’amministrazione il compimento degli atti considerati essenziali per l’ottemperanza del giudicato[26]. In presenza poi di situazioni altamente deficitarie e di esecuzione di giudicato concernente crediti di una certa rilevanza, lo stesso commissario potrà disporre il pagamento rateizzato degli stessi crediti.

Gli organi dell’amministrazione hanno l'obbligo di collaborare con il commissario ad acta, ed è loro preclusa ogni possibilità di interferire con i poteri deliberativi di questi. In particolare, gli organi predetti non possono opporre alcun ostacolo alle variazioni di bilancio, all'effettuazione di eventuali storni ed a tutte le altre incombenze ritenute necessarie dal commissario per l'esatta esecuzione della sentenza, potendo tale opposizione assumere la rilevanza di un illecito penale.



* Professore Ordinario di Diritto del Lavoro dell’Università degli Studi di Palermo.

[1] Cfr. M. Dell’Olio, La tutela dei diritti del dipendente pubblico dinanzi al giudice ordinario, in ADL, 1999, 131.

[2] Sull’ammissibilità di sentenze che si limitino a dichiarare una determinata situazione, senza ulteriori pronunce costitutive o di condanna, a condizione che pongano fine ad una situazione di obiettiva incertezza, cfr. fra molte Cass. 11 marzo 2005, n. 5366.

[3] Cfr. B. Sassani, Giurisdizione ordinaria, poteri del giudice ed esecuzione della sentenza nelle controversie di lavoro con la pubblica amministrazione, in RTDPC, 1999, 413 (sul punto 423).

[4] Cfr. per tutti sulla complessa questione S. Mazzamuto, L’attuazione degli obblighi di fare, Napoli, Jovene, 1978.

[5] Cfr. M. Napoli, La stabilità reale nel rapporto di lavoro, Milano, Franco Angeli, 1980; G. Ghezzi – U. Romagnoli, Il rapporto di lavoro, 3° ed., Bologna, Zanichelli, 1995, 344.

[6] Cfr. A. Proto Pisani, Licenziamento e reintegrazione nel posto di lavoro, in Idem, Nuovi studi di diritto processuale del lavoro, Milano, Franco Angeli, 1992, 118.

[7] Cfr. per tutti P. Virga, La tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, 3° ed., Milano, Giuffrè, 1991, 423; V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, 2° ed., 1994, 838.

[8] Cfr. R. Ursi, L’esecuzione immediata della sentenza amministrativa, Torino, Giappichelli, 2003.

[9] Cfr. E. Apicella, Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in ED Agg. VI, Milano, Giuffrè, 2003, 602 (sul punto 643).

[10] Cfr. A. Sassani, Giurisdizione ordinaria, cit., 424.

[11] Cfr. Tar Abruzzo – Pescara, 6 ottobre 2006, n. 660; Tar Sicilia – Palermo, 1 dicembre 2006, n. 3268.

[12] Cfr. Cons. Stato IV, 12 marzo 2007, n. 1194.

[13] Cfr. per tutte Cons. Stato, IV, 11 aprile 2007, n. 1612; Tar Sicilia – Catania, III, 29 marzo 2007, n. 535.

[14] Cfr. Cass. civ. S.U., 3 febbraio 1988, n. 1074, in GC, 1988, I, 2337, con nota di P. Stella Richter, Diritto soggettivo e giudizio di ottemperanza.

[15] Cfr. Cons. Stato, V, 22 febbraio 2000, n. 938, in FA, 2000, 494; Cons. Stato, V, 2 marzo 2000, n. 1069, in FA, 2000, 868.

[16] Cfr. Cons. giust. amm., 8 luglio 1998, n.426, in CS, 1998, I, 1213; in termini Cons. Stato Ad. Plen. 29 gennaio 1980, n. 2.

[17] Cfr. V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, cit., 878.

[18] Cfr. P. Virga, La tutela giurisdizionale, cit., 425.

[19] Cfr. V. Caputi Jambrenghi, Commissario ad acta, in ED Agg. VI, Milano, Giuffrè, 2003, 284.

[20] Cfr. Cons. Stato, VI, 19 gennaio 1995, n. 41, in FI., 1995, III, 129; Cons. Stato, V, 6 ottobre 1999, 1329, in RGE., 2000, I, 156.

[21] Cfr. Cons. giust. amm., 21 dicembre 1982 n. 92, in CS, 1982, I, 1649; Cons. Stato, V, 10 marzo 1989, n. 165, in GC, 1989, I, 2225.

[22] Cfr. Cons. Stato Ad. Plen., 9 marzo 1973, n. 1; Cons. Stato, VI, 9 giugno 1986, n. 412, in CS, 1986, I, 1184; Cons. giust. amm., 25 febbraio 1981, n. 1, in GI, 1981, III, 1, 377.

[23] Cfr. P. Virga, La tutela giurisdizionale, cit., 433; Cons. Stato Ad. Plen., 14 luglio 1978, n. 23, in CS, 1978, I, 948.

[24] Cfr. Cons. Stato, IV, 25 luglio 2000, n. 4125, in FA, 2000, 2626; Cass. civ. S.U., 18 febbraio 1994, n. 1593, in GI, 1994, I, 1.

[25] Cfr. Cons. Stato Ad. Plen., 14 luglio 1978, n. 23, cit.; Tar Sicilia – Catania, 30 gennaio 1996, n. 45.

[26] Cfr. fra molte Tar Sicilia - Catania, III, 31 luglio 1998, n. 1376; Tar Basilicata, 7 ottobre 1991, n. 299.

 

Data di pubblicazione: 7 aprile 2008.