La tutela dei
lavoratori pubblici nel trasferimento di attività
1. La nozione di trasferimento di attività. - 2. La tutela
dei lavoratori sul piano individuale. - 3. La tutela collettiva.
Massimiliano
Marinelli*
1. Negli ultimi
anni anche nel settore pubblico si è registrato un incremento dei casi di
trasferimento di funzioni o di attività da un soggetto ad un altro. Ciò ha
comportato in alcuni casi il passaggio dei dipendenti dalla disciplina propria
di un comparto a quella di un comparto diverso, o addirittura
all’assoggettamento degli stessi alle disposizioni vigenti per il lavoro
privato nella loro interezza. Ciò in conseguenza rispettivamente
dell’acquisizione della posizione datoriale nel contratto di lavoro da parte di
un ente facente parte di un comparto diverso da quello alle cui dipendenze i
lavoratori prestavano la loro opera, o di un datore di lavoro avente la qualità
non di amministrazione pubblica, ma di impresa commerciale (o comunque di soggetto
escluso dalla nozione di cui all’art. 1, c. 2 del D. lgs. 165 del 2001).
Secondo l’art. 31
del D. lgs. 165 del 2001 “fatte salve le disposizioni speciali, nel caso di
trasferimento o conferimento di attività svolte da pubbliche amministrazioni,
enti pubblici o loro aziende o strutture ad altri soggetti pubblici o privati,
al personale che passa alle dipendenze di tali soggetti si applicano l’art.
2112 del codice civile e si osservano le procedure di informazione e consultazione
di cui all’art. 47, commi da
Per comprendere
appieno l’art. 31 del D. lgs. 165 del 2001 occorre individuare quale sia la
disciplina applicabile nel settore privato, ed il campo di applicazione di questa,
attraverso un breve esame delle norme nazionali e comunitarie in materia. La direttiva
comunitaria 2001/23 (che ha codificato il testo della direttiva 14 febbraio
1977, n. 77/187, così come modificato dalla direttiva del 19 giugno 1998, n.
98/50), prevede una disciplina per la tutela dei lavoratori in caso di trasferimento
di imprese, di stabilimenti, di parti di imprese o di stabilimenti. La
direttiva non è applicabile alle ipotesi di riorganizzazione amministrativa di
enti pubblici, ovvero al trasferimento di funzioni tra questi ultimi. Tuttavia
la giurisprudenza comunitaria ha tradizionalmente interpretato in senso
restrittivo tali esclusioni, ritenendo che la direttiva non trovi applicazione
soltanto nell’ipotesi in cui il trasferimento abbia riguardato funzioni
amministrative in senso stretto[3].
E’ invece soggetto alla disciplina di
questa il passaggio di attività che possano in astratto essere svolte anche da
un soggetto imprenditore[4].
Il legislatore
italiano applica invece la disciplina al trasferimento di “attività” senza
ulteriori specificazioni, con ciò sembrando includere anche ipotesi che si
collocano al di fuori della direttiva.
Tuttavia tale previsione non determina un conflitto con la normativa
europea, atteso che l’art. 8 della direttiva consente agli stati membri di introdurre
tra le altre disposizioni legislative più favorevoli per i lavoratori.
La normativa
comunitaria prevede una disciplina protettiva per i lavoratori in caso di
trasferimento di impresa, di stabilimenti o di parte di impresa o di
stabilimenti, attuato mediante cessione contrattuale o fusione, ma nella sua
formulazione originaria non chiariva in cosa questo dovesse consistere. Solo
con la direttiva 98/50 è stato previsto che si considera trasferimento ai fini
dell’applicazione della direttiva quello di un’entità economica che conserva la
propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere
un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria. Tale nozione va letta
alla luce della evoluzione della giurisprudenza comunitaria nel periodo precedente
alla formulazione della definizione, in quanto secondo l’ottavo “considerando”
della direttiva il chiarimento introdotto dalla riforma del 1998 non ha
modificato l’ambito di applicazione della disciplina di tutela, così come
interpretata dalla Corte di Giustizia.
I Giudici comunitari
avevano adottato un’interpretazione molto estensiva dello strumento con cui si
realizza il trasferimento, ritenendo che la disciplina si applichi in tutte le
situazioni nelle quali si verifica, in forza di una vicenda contrattuale, la
sostituzione della persona fisica o giuridica responsabile dell’impresa, a
prescindere dal trasferimento della proprietà dei beni che la compongono, e
senza che sia necessario un legame diretto tra il cedente ed il cessionario. Il
trasferimento può dunque essere effettuato anche in due fasi, per effetto
dell’intermediazione di un terzo, quale proprietario o locatore[5],
ed avvenire mediante l’affidamento per via contrattuale ad un imprenditore
della gestione del servizio, precedentemente svolto in proprio, ovvero da un
altro soggetto[6].
L’elemento della cessione contrattuale è stato però sostanzialmente svuotato di
contenuto da alcune sentenze, che hanno incluso nella fattispecie anche il caso
in cui un’autorità pubblica decida di porre fine alla concessione di sovvenzioni
ad una persona giuridica, provocando così la cessazione completa e definitiva
delle attività di quest’ultima, per trasferirle ad un altro soggetto, che offre
servizi analoghi[7],
ovvero il trasferimento, autorizzato con legge dello Stato e disposto con un
decreto ministeriale, dell’impresa esercitata da un ente pubblico ad una
società organizzata secondo le forme privatistiche, ma costituita da un altro
ente pubblico che ne detiene le azioni[8].
Di conseguenza la circostanza che il legislatore nazionale, nella formulazione
dell’art. 31, abbia sostanzialmente ignorato il problema del mezzo mediante cui
la cessione si realizza, non determina alcun contrasto con la direttiva
comunitaria, atteso che questo ha nella giusprudenza comunitaria scarso valore
selettivo.
Prima della
specificazione da parte della direttiva 98/50 della nozione di trasferimento,
Secondo
La valutazione
riguardo alla sussistenza della fattispecie va effettuata da parte del giudice
nazionale sulla base di una considerazione complessiva di questi elementi,
nessuno dei quali ha un valore decisivo, e che possono assumere un rilievo
maggiore o minore a seconda del tipo di attività esercitata, o addirittura
delle modalità organizzative della singola impresa. Di conseguenza l’elemento
personale, che nelle imprese organizzate con prevalenza del fattore lavoro
(come quelle operanti nel settore della pulizia o della sorveglianza) ha una
grande importanza ai fini dell’accertamento della sussistenza della fattispecie[17],
non ha valore determinante in altre ipotesi, nelle quali l’elemento
fondamentale del complesso produttivo (la cui cessione assume un rilievo
decisivo ai fini qualificatori) consiste invece nelle relazioni contrattuali o
nei beni materiali impiegati, quali gli autobus in un’impresa di trasporto
urbano, i mezzi per la predisposizione dei pasti in una mensa, ovvero la
concessione per la vendita dei prodotti del cedente, accompagnata da una
promozione presso la clientela[18].
Va sottolineato che l’avere considerato il passaggio dal cedente al cessionario
di una parte essenziale del personale per numero e per competenze come elemento
decisivo ai fini della qualificazione della fattispecie ha degli effetti non
secondari sulle operazioni di esternalizzazione nei settori cosiddetti labour
intensive. Invero in queste ipotesi la semplice successione nello
svolgimento di una determinata attività, anche se accompagnata dalla cessione
degli elementi materiali (non di particolare rilievo) impiegati dai lavoratori
per lo svolgimento della loro attività (si pensi alle divise del personale di
vigilanza, ovvero agli attrezzi minuti per la pulizia) non può integrare la
fattispecie ai sensi del diritto comunitario. Questa infatti potrà essere
ritenuta sussistente soltanto qualora i lavoratori (elemento decisivo della
fattispecie) siano stati trasferiti al cessionario e, non essendo applicabile
l’effetto successorio immediato (dato che la fattispecie, prima del passaggio
dei lavoratori, non si è perfezionata)[19]
occorre che il trasferimento sia realizzato mediante la cessione del contratto
di lavoro, ovvero la riassunzione dei dipendenti. Tale ricostruzione ha effetti
rilevanti sul piano giuridico, in quanto non solo i lavoratori eventualmente
non inclusi nel numero dei soggetti riassunti possono agire in giudizio per
ottenere la costituzione del rapporto di lavoro, ma la prosecuzione dei
rapporti di tutti i dipendenti non rientra tra le mere circostanze di fatto, e
si realizza alle condizioni e con le tutele previste dalla direttiva 2001/23.
Dalla superiore
ricostruzione emerge dunque che normalmente il semplice trasferimento di
un’attività non potrebbe essere qualificato, ai sensi del diritto comunitario,
come fattispecie rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva. Ciò
non in quanto per il trasferimento di funzioni amministrative non sia obbligatoria
l’applicazione della normativa protettiva dei lavoratori (in quanto come si è
visto è comunque possibile per lo Stato introdurre una disciplina più
favorevole per i dipendenti), ma perché la fattispecie, a livello comunitario,
è stata individuata in modo tale da non imporre l’applicazione della disciplina
di tutela anche al semplice trasferimento di attività. Tuttavia l’ordinamento
italiano, utilizzando nell’art. 31 del D. lgs. 165 del
2. Sul piano della
tutela individuale la direttiva 2001/23 vieta il licenziamento dei dipendenti
di un complesso produttivo prima del suo trasferimento, che sia giustificato
dalle esigenze legate alla cessione[20];
dispone che i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto di lavoro siano
trasferiti dal cedente al cessionario, il quale subentra nello stesso anche in
assenza del consenso delle parti originarie, e senza che l’autonomia privata,
individuale o collettiva, possa prevedere deroghe, sia pure temporanee, a tale
principio[21];
obbliga il cessionario al mantenimento delle condizioni previste dal contratto
collettivo di lavoro fino alla sua scadenza o risoluzione, ovvero fino
all’applicazione di una diversa disciplina collettiva.
Secondo l’art. 2112
c.c., i contratti del personale impiegati nel complesso ceduto non vengono
mantenuti con il cedente, e proseguono ipso
iure con il cessionario. L’effetto successorio si produce necessariamente
alla data del trasferimento, anche in presenza di manifestazioni di volontà in
senso contrario da parte del cedente o del cessionario, i quali non possono
rinviare la produzione di tale effetto ad un momento successivo. Si deve
inoltre ritenere che nel caso in esame non sia possibile derogare mediante un
accordo sindacale al principio di successione automatica nel rapporto di lavoro
previsto dall’art. 2112 c.c., in quanto le eccezioni previste dall’art. 47, cc.
5 e 6 della l. 428 del 1990 non sono richiamate dal testo dell’art. 31 del D.
lgs. 165 del 2001, e dunque non trovano applicazione alle pubbliche amministrazioni.
Mentre nel settore privato si deve ritenere sussista la possibilità di
concordare tra datore di lavoro e lavoratore una diversa sorte per il rapporto
di lavoro, prevedendo il mantenimento del rapporto di lavoro con il cedente[22],
una siffatta ipotesi non pare possa trovare applicazione al settore pubblico,
in cui la norma di cui all’art. 31 del D. lgs. 165 del 2001 pare assumere una
valenza inderogabile. Il passaggio automatico va dunque ritenuto come effetto
immediato ed inderogabile del trasferimento di attività, a meno che non vi
siano delle disposizioni speciali che limitino o precludano tale effetto[23].
Tuttavia la direttiva non può essere interpretata nel senso di obbligare il
lavoratore a proseguire il rapporto di lavoro con il cessionario, in quanto ciò
comprometterebbe i diritti fondamentali del lavoratore. uestiQQuesti non può essere costretto a lavorare per
un datore di lavoro che non abbia liberamente scelto e può dunque rifiutare il
passaggio alle dipendenze del cessionario[24].
Peraltro, le conseguenze di tale scelta sono interamente rimesse al legislatore
nazionale, con il solo limite che, se al trasferimento si accompagna una
modifica sostanziale del rapporto di lavoro (il cui accertamento è demandato al
giudice nazionale), l’eventuale risoluzione che ne consegue deve essere ascritta
alla responsabilità del datore di lavoro[25].
Tuttavia secondo
una tesi minoritaria dovrebbe essere consentito al lavoratore, nel caso in cui
la cessione non abbia ad oggetto l’intero complesso produttivo, ma soltanto la
parte cui egli sia addetto, di rifiutare la successione automatica del cessionario
al cedente nel contratto di lavoro, restando alle dipendenze di quest’ultimo[26].
Tale tesi ha avuto un certo seguito nella giurisprudenza in materia di art. 31
del D. lgs. 165 del 2001, sulla base di un scorretta lettura del dato letterale
della disposizione, che cela una tendenza ad attribuire ai dipendenti pubblici
diritti ulteriori rispetto ai lavoratori privati che si trovino in posizioni
analoghe[27].
Invero aderendo a questa tesi il dipendente potrebbe restare alle dipendenze
dell’amministrazione presso la quale svolgeva la sua attività, la quale però
dovrebbe a quel punto o adibirlo a mansioni diverse, ovvero, ove questo non
fosse possibile, procedere al licenziamento. Tale seconda ipotesi però appare
in fatto di difficile realizzazione, attesa la tradizionale riluttanza del
datore di lavoro pubblico a procedere a licenziamenti che non siano motivati da
gravissimi inadempimenti dei lavoratori.
Si deve dunque
ritenere che il rifiuto del dipendente di passare alle dipendenze del
cessionario non determina il suo diritto a restare alle dipendenze del cedente,
e va equiparato alle dimissioni, per le quali egli è tenuto a dare il
preavviso, a meno che non sia configurabile una giusta causa. Ciò trova
implicita conferma nel fatto che la riforma del
In attuazione della
direttiva comunitaria l’art. 2112 c.c. prevede dunque in primo luogo, oltre
alla successione nel contratto di lavoro, che il lavoratore conservi nei confronti
del cessionario tutti i diritti derivanti dal contratto. Tale principio va però
letto in correlazione all’art. 2112, c. 3, che prevede il mantenimento del
trattamento economico e normativo, derivante da contratti collettivi di
qualunque livello, fino alla scadenza di questi, a meno che il contratto
collettivo non venga sostituito da un contratto di pari livello applicato dal
cessionario. L’art. 2112 c.c. dispone infine la responsabilità solidale del
cedente e del cessionario per tutti i crediti vantati dal lavoratore al tempo
del trasferimento. La norma codicistica non preclude peraltro al cessionario,
una volta subentrato nel contratto di lavoro, l’esercizio di tutti i poteri che
il cedente avrebbe potuto esercitare, anche nel senso di modificare il
contenuto dell’obbligazione lavorativa, mediante l’esercizio dello jus variandi[29].
Del resto la giurisprudenza comunitaria è costante nel ritenere che, qualora
l’ordinamento nazionale consenta al datore di lavoro una modifica del contenuto
delle posizioni giuridiche del lavoratore, la successione nella titolarità del
complesso produttivo non preclude al cessionario l’esercizio di tale diritto, a
condizione che il trasferimento non sia la ragione della modifica[30].
Qualora invece il diritto, pur previsto dal contratto individuale, sia disciplinato
nei suoi effetti dal contratto collettivo, esso resta acquisito al patrimonio
del lavoratore, ma potrà essere modificato nel suo contenuto per il futuro da
una diversa norma collettiva conformatrice del rapporto. Se infine il diritto
del lavoratore trova origine e disciplina esclusivamente in un contratto
collettivo anche tacitamente concluso, la sua attribuzione ed il suo contenuto
saranno esposti alle modifiche che la parte collettiva può subire, rimanendo
salvi solo i diritti già maturati, ed entrati a far parte del patrimonio del
lavoratore[31].
Il trasferimento produce i suoi effetti determinando l’ingresso del cessionario
nella complessiva posizione debitoria e creditoria del cedente, come si ricava
dall’art. 2112 c.c., c. 1, ma oltre a tale effetto successorio per il futuro la
disposizione prevede anche la successione in tutte le situazioni giuridiche
consolidate, che abbiano già assunto la posizione di veri e propri diritti perfezionati,
quale che sia la loro fonte, tra i quali rientrano in primo luogo i diritti di
credito già maturati nei confronti del cedente. L’art. 2112 c.c. rafforza la
posizione giuridica del lavoratore, aggiungendo al successore nelle posizioni
debitorie anche il precedente obbligato, limitatamente ai crediti già esistenti
al momento del trasferimento e dunque definitivamente entrati nel patrimonio
del lavoratore. La disposizione codicistica prevede però che il lavoratore
possa consentire alla liberazione del cedente, riconoscendo il cessionario come
suo unico debitore, con un atto sottoscritto nel corso delle procedure
conciliative disciplinate dagli artt. 410 e 411 c.p.c. Tale atto è
riconducibile alla fattispecie della remissione di debito prevista dall’art.
1301 c.c., ma rispetto ad esso l’art. 2112 c.c. contiene una norma derogatoria,
in quanto la manifestazione di volontà del lavoratore, per espressa
disposizione legislativa, non estende i suoi effetti anche al cessionario
obbligato in solido. Nulla impedisce peraltro che, con una manifestazione di
volontà assunta conformemente all’art. 2113 c.c., il lavoratore disponga anche
del suo credito nei confronti del nuovo datore di lavoro.
L’ambito della
responsabilità solidale va limitata ai soli debiti relativi a rapporti di
lavoro ancora esistenti al momento del trasferimento, e per i quali si sia
verificato l’effetto successorio, mentre non trova applicazione per le
situazioni derivanti da rapporti ormai estinti[32],
per i quali, qualora la fattispecie successoria sia riconducibile, oltre che
all’art. 2112 c.c., anche all’art. 2555 c.c., potrà semmai trovare applicazione
l’art. 2560 c.c. Vero è infatti che la limitazione della responsabilità
solidale ai crediti dei lavoratori coinvolti nel trasferimento non è imposta
dalla direttiva, che anzi fa salve le disposizioni più favorevoli ai
lavoratori, ma è l’intero complesso della disciplina nazionale che pare
considerare la prosecuzione del rapporto di lavoro e l’applicazione della
disciplina della solidarietà in modo strettamente connesso, e limitarla al
lavoratore ancora alle dipendenze del cedente al momento del trasferimento[33].
L’art. 2112 c.c.,
oltre a disporre il mantenimento dei diritti previsti dal contratto individuale
in favore del lavoratore, prevede anche l’obbligo per il cessionario di applicare
i trattamenti economici e normativi previsti dal contratto collettivo applicato
dal cedente fino alla sua scadenza, a meno che questo non sia sostituito da un
altro contratto collettivo, il quale, in forza della modifica apportata
all’art. 2112 c.c. dal D. lgs. 18 del 2001, deve essere di pari livello. Di
conseguenza in caso di trasferimento da una pubblica amministrazione ad un altro
soggetto pubblico rientrante comunque nella nozione di cui all’art. 1, c. 2, il
contratto del comparto cui appartiene il cessionario, e l’eventuale contratto
di secondo livello da questo applicato, si andranno a sostituire alle fonti
negoziali applicate dal cedente (sia esso una pubblica amministrazione o un
soggetto privato). La questione può porre maggiori questioni interpretative per
le ipotesi di passaggio di attività dalle pubbliche a soggetti privati, per le
quali peraltro normalmente vengono previste discipline transitorie specifiche,
e che non pongono diretti problemi applicativi nei confronti dei soggetti
pubblici. Dato però che il rapporto di lavoro prosegue con soggetti privati,
nulla impedisce che nel corso delle procedure di informazione e consultazione
sindacale si raggiungano accordi che consentano una armonizzazione progressiva
(e non un passaggio immediato) dal vecchio al nuovo regime.
3.Sul piano
collettivo, la direttiva 2001/23 impone al cedente ed al cessionario un obbligo
di informazione e consultazione sindacale nei confronti dei rappresentanti dei
lavoratori interessati al trasferimento, ai quali vanno comunicati in tempo
utile prima dell’attuazione dello stesso i motivi della scelta imprenditoriale
e le sue conseguenze sul piano giuridico, economico e sociale per i lavoratori
coinvolti, nonché le misure previste nei confronti di questi ultimi[34].
L’art. 47 della l.
428 del 1990 impone il rispetto di una procedura di informazione e
consultazione sindacale (che deve essere seguita anche nel caso di
trasferimento di attività), per cui il cedente ed il cessionario sono tenuti a
comunicare ai soggetti destinatari dell'obbligo di informazione soltanto la
data del trasferimento (o la data proposta per il trasferimento), i motivi di
esso, le conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori e le
eventuali misure previste nei confronti di questi ultimi. Vi è una notevole
diversità di opinioni in dottrina sulla natura della procedura, la quale non ha
effetti soltanto sul piano teorico, in quanto l’adesione a ciascuno degli
orientamenti proposti comporta l’adozione di soluzioni interpretative opposte
in merito ad aspetti decisivi della disciplina, come accade per le conseguenze
del mancato rispetto della procedura. Invero alcuni ritengono che gli obblighi
di informazione e di consultazione dovrebbero essere considerati come vincoli
di natura procedimentale alla legittimità della cessione, la cui violazione
determinerebbe la nullità del trasferimento[35].
Secondo un’altra opinione invece tali obblighi costituiscono requisiti
procedimentali di operatività della scelta imprenditoriale, che si
collocherebbe al di fuori della possibilità di controllo da parte dei rappresentanti
sindacali, e la cui violazione non comporterebbe alcuna conseguenza definitiva
sul trasferimento[36].
La procedura di
informazione ed eventuale consultazione si applica soltanto nel caso in cui la
cessione sia effettuata da un soggetto che occupi nel complesso più di 15
dipendenti (computati secondo i criteri elaborati in relazione all’art. 35
della l. 300 del 1970)[37],
indipendentemente dal numero di lavoratori effettivamente addetti alla parte di
organizzazione ceduta[38].
Il cedente e il cessionario devono adempiere l’obbligo di informazione nei
confronti delle rispettive rappresentanze sindacali unitarie, e, qualora ve ne
siano, delle rappresentanze sindacali aziendali costituite ai sensi dell’art.
19 della l. 300 del 1970, nonché dei sindacati firmatari del contratto
collettivo applicato dal datore di lavoro interessato al trasferimento[39].
In assenza di una rappresentanza sindacale l’obbligo di comunicazione va
adempiuto nei confronti dei sindacati di categoria comparativamente più
rappresentativi, i quali possono anche essere informati tramite l’associazione
sindacale alla quale i datori di lavoro aderiscono, ovvero conferiscono
mandato.
Il cedente ed il
cessionario devono assolvere l’obbligo di informazione prima del momento in cui
manifestano l’intenzione di trasferire il complesso produttivo in atti o
documenti negoziali, a condizione che questi assumano una natura vincolante, ancorché
non definitiva ad esempio configurandosi come un contratto preliminare[40].
La scelta del legislatore è pienamente condivisibile, in quanto la
consultazione interviene in un momento nel quale ancora non si è perfezionata
l’operazione, e consente al sindacato di potere influenzare sia la stessa
scelta datoriale, sia le conseguenze che essa può avere nei confronti dei lavoratori.
La comunicazione
deve avvenire almeno 25 giorni prima della stipula del contratto definitivo di
cessione, o del contratto preliminare, al quale può attribuirsi certamente
natura di intesa vincolante tra le parti, come espressamente richiesto dalla legge[41].
Se l’effetto traslativo avviene mediante la combinazione di più negozi
giuridici, l’obbligo di informazione deve essere adempiuto 25 giorni prima
della stipula del contratto che realizza l’effetto finale. La norma impone
l’attivazione della procedura di informazione e consultazione sindacale già nel
corso delle trattative che potranno portare alla cessione, in quanto evidentemente
il legislatore ha ritenuto che occorre assicurare una presenza sindacale anche
in tale fase, nella quale vengono definiti non solo gli assetti economici
dell’operazione, ma anche le sorti dei lavoratori coinvolti nel trasferimento[42].
Nel caso di trasferimento di attività di cui all’art. 31 del D. lgs. 165 del
2001 peraltro la cessione potrà intervenire anche mediante disposizioni di
carattere legale o amministrativo, in relazione alle quali l’obbligo di
comunicazione andrà adempiuto almeno 25 giorni prima che queste inizino a
produrre i loro effetti.
Entro sette giorni dall’adempimento
dell’obbligo di informazione, i suoi destinatari possono chiedere un esame
congiunto della situazione, che deve essere avviato e svolto unitamente dal cedente
e dal cessionario nei sette giorni successivi. Il confronto con i soggetti collettivi
richiedenti è a sua volta destinato ad esaurirsi, qualora non sia stato
raggiunto un accordo entro dieci giorni dal suo inizio. L’indicazione dei
termini, come si vede, è prevista in modo che l’intera procedura si concluda
prima della stipula del contratto, o dei contratti, o del perfezionamento degli
atti mediante cui si realizza il trasferimento di azienda, considerato ormai
espressamente dal testo novellato dell’art. 47 della l. 428 del 1990 come
momento dal quale decorre a ritroso il termine di 25 giorni previsto per
l’adempimento dell’obbligo di informazione.
La disciplina
interna, nonostante le numerose opinioni contrarie[43],
va interpretata nel senso di prevedere non soltanto un momento di informazione
e di confronto, bensì un vero e proprio obbligo a trattare, il quale non
comporta che la procedura si concluda necessariamente con un accordo, ma
implica che le parti rispettino nella trattativa i canoni della correttezza e
della buona fede[44].
Del resto
L’art. 9 della
direttiva 2001/23, codificando un principio affermato dalla Corte di Giustizia
in merito alla necessità di rendere effettivo il diritto comunitario[47],
dispone che gli Stati membri sono tenuti a prevedere un’adeguata tutela
giurisdizionale, azionabile in caso di violazione dei diritti riconosciuti sia
ai lavoratori, sia ai loro rappresentanti. La disposizione non impone necessariamente
l’adozione di strumenti ripristinatori della situazione precedente alla violazione
della procedura, potendosi anche fare ricorso a modelli di tutela di tipo
risarcitorio, ma impone comunque che le sanzioni previste possano avere una sufficiente
forza dissuasiva[48].
Oltre all’applicazione dei normali strumenti processuali approntati dagli
ordinamenti nazionali per la tutela dei diritti dei singoli, alla cui
salvaguardia mira la direttiva, gli Stati nazionali sono dunque obbligati a
predisporre uno strumento che permetta alle rappresentanze dei lavoratori di
ricorrere avverso la violazione degli obblighi di informazione e di consultazione.
L’art. 47 della l. 428 del 1990 tutela entrambe queste fasi, disponendo espressamente
che la violazione dell’obbligo di informazione, o di quello di consultazione, costituisce
comportamento antisindacale ai sensi dell’art. 28 della l. 300 del 1970.
L’individuazione di un soggetto sindacale destinatario degli obblighi di
informazione e di consultazione, e la predisposizione di una forma tipizzata di
reazione, in cui la legittimazione ad agire è attribuita esclusivamente alle
associazioni sindacali che presentino determinati requisiti, depongono nel
senso dell’esistenza di un semplice interesse collettivo, tutelato dalle procedure
in questione, e, data la normale coincidenza nel nostro ordinamento tra
titolarità del diritto e azione in giudizio, esclusivamente affidato alle
organizzazioni sindacali[49].
Invero esaminando
le clausole di procedimentalizzazione di fonte contrattuale si è pervenuti alla
conclusione che il loro mancato rispetto incida sugli atti di gestione del
rapporto di lavoro solo qualora esse determinino l’esistenza di un diritto
soggettivo nel patrimonio del lavoratore[50],
ovvero costituiscano parte di una fattispecie a formazione complessa. Un
diritto di azione del singolo lavoratore per fare valere la violazione di una
procedura legale, al fine di invalidare atti adottati nei suoi confronti, potrebbe
inoltre derivare da una disposizione espressa, ovvero essere ricavato dal
complesso della disciplina protettiva approntata dall’ordinamento. Alla prima
ipotesi va ricondotta la disciplina dei licenziamenti collettivi, per i quali
la violazione della procedura di informazione e di consultazione comporta
l’invalidità del licenziamento, sanzionata dall’applicazione dell’art. 18 della
l. 300 del 1970, mentre nel secondo caso si può richiamare la disciplina della
procedura per la cassa integrazione guadagni[51],
situazioni che però si caratterizzano per la circostanza che il procedimento
serve a stabilire quali tra le posizioni dei singoli lavoratori debbano subire
un pregiudizio.
Nel trasferimento
di azienda però si deve ritenere che il singolo prestatore di lavoro, se pure
ha un interesse di fatto al rispetto dell’adempimento degli obblighi di
informazione e di consultazione sindacale, in quanto il legislatore ha ritenuto
che essi tutelino l’interesse complessivo dei soggetti coinvolti, non è
titolare di alcuna azione volta a fare valere in giudizio la violazione di tali
procedure, ma può agire soltanto per la difesa dei propri diritti individuali[52].
Un diritto all’esercizio di un’azione individuale non si può inoltre ricavare
dal testo della legge, la quale, a differenza della disciplina in materia di
cassa integrazione guadagni, non prevede un espresso riferimento alla
protezione della posizione dei singoli[53].
Del resto la procedura prevista dalla legge è posta a presidio dell’interesse
sindacale al corretto svolgimento della procedura, per cui non assume rilevanza
l’assenza di un pregiudizio per le posizioni dei singoli lavoratori. Al contrario,
anche se la posizione dei lavoratori in seguito al trasferimento di azienda sia
più vantaggiosa rispetto a quella precedente, ciò non esclude l’esistenza di un
comportamento antisindacale.
Gli organismi
locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse (nella
fattispecie, gli organismi delle associazioni sindacali destinatarie degli
obblighi di informazione e consultazione, ma non le rappresentanze sindacali in
azienda)[54]
possono dunque rivolgersi al tribunale nel cui circondario rientri il luogo in
cui è stato tenuto il comportamento antisindacale, chiedendone la cessazione, e
la rimozione degli effetti. La violazione della procedura non sussiste soltanto
nei casi in cui vi sia una totale omissione degli obblighi procedurali, ma
anche quando le informazioni date siano parziali, incomplete, non veritiere,
ovvero quando nella fase di esame congiunto il cedente o il cessionario non si
siano comportati rispettando i canoni della correttezza e della buona fede.
La questione
oggetto di maggiore dibattito in dottrina, e alla quale sono state date
soluzioni opposte in giurisprudenza, consiste nella determinazione del
contenuto dell’ordine giudiziale che può essere emesso ai sensi dell’art. 28
della l. 300 del 1970, nella parte in cui dispone la rimozione degli effetti
del comportamento illegittimo. La soluzione deve essere ricercata esclusivamente
sul piano del diritto nazionale dato che la fonte comunitaria richiede soltanto
la presenza di una adeguata tutela giurisdizionale, la quale, aderendo alla indicazione
data in materia dalla Corte di Giustizia, deve possedere i requisiti di adeguatezza,
capacità dissuasiva, proporzionalità e comparabilità, i quali innegabilmente
caratterizzano il procedimento per la repressione della condotta antisindacale.
Secondo una prima
opinione l’adempimento degli obblighi di informazione e di consultazione
sindacale andrebbe qualificato come requisito di efficacia del trasferimento,
per cui la loro violazione comporterebbe la temporanea inefficacia di
quest’ultimo, fino all’effettivo esperimento della procedura[55].
Secondo altri autori invece il trasferimento sarebbe valido ed efficace anche
in caso di violazione degli obblighi di procedura, mentre le misure adottate
nei confronti dei singoli dipendenti interessati sarebbero inefficaci, e
potrebbero essere rinnovate soltanto all’esito del procedimento correttamente
effettuato. A questa tesi hanno espressamente aderito alcune pronunce dei
giudici di merito[56],
nonché
Va dunque ritenuto
che anche un trasferimento di attività disposto senza il rispetto della
procedura sindacale sarebbe produttivo di effetti tra il cedente e il
cessionario, ma questi non sarebbero opponibili ai lavoratori, che potrebbero
richiedere la conservazione del rapporto in essere con il cedente fino al
corretto adempimento degli obblighi di cui all’art. 47 della l. 428 del 1990.
* Professore Ordinario di Diritto del Lavoro
dell’Università degli Studi di Palermo.
[1] Cfr. R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento di
azienda, Milano, Giuffrè, 1993; P.
Lambertucci, Le tutele del lavoratore nella circolazione
dell’azienda, Torino, Giappichelli, 1999;
P. Tosi (a cura di), Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso
di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, in
NLCC, 2002, 1241; G. Santoro
Passarelli e R. Foglia (a
cura di), La nuova disciplina del trasferimento di impresa, Milano,
Ipsoa, 2002; C. Cester, Trasferimento di azienda e rapporti di lavoro:
la nuova disciplina, in LG, 2001, 505.
[2] La disciplina contenuta nell’art.
2112 c.c. è stata modificata quanto all’oggetto della sua disciplina dall’art.
32 del D. lgs. 276 del 2003, il quale però non è applicabile alle
amministrazioni pubbliche. Permane dunque la versione della norma precedente
all’entrata in vigore della riforma del mercato del lavoro, ma ciò non comporta
alcun particolare problema intepretativo – come si vedrà meglio in seguito – in
ordine alla disciplina approntata a tutela della posizione dei lavoratori
coinvolti.
[3] Cfr. Corte giust. 15 ottobre
1996, Henke, in Racc., 1996, 4989.
[4] Cfr. Corte giust. 26 settembre
2000, Mayeur, in Racc. 2000, I, 7755.
[5] Cfr. Corte giust. 10 febbraio
1988, Tellerup, cit.; Corte giust. 5 febbraio
1988, Berg, cit.
[6] Corte giust. 12 novembre 1992, Watson Rask, in Racc., 1991, 5775 ed in NGL., 1992, 863; Corte giust. 20
novembre 2003, Abler, in Racc. ed
in RIDL, 2004, II, 463, con nota di
M. Borzaga, Trasferimento di azienda e successione di contratti di appalto, primo e
dopo il d.lgs. 276/2003, tra diritto comunitario scritto e giurisprudenza della
Corte di Giustizia.
[7] Cfr. Corte giust. 19 maggio 1992,
Redmond Stichting, in Racc., 1992, 3212.
[8] Cfr. Corte giust. 14 settembre
2000, Collino e Chiappero, in Racc., 2000, I, 6659 ed in FI, 2001,
IV,
[9] Cfr. Corte giust. 19 settembre
1995, Rygaard in Racc., 1995, 2745, ed in DS,
1996, 80, con nota di P. Antonmattei,
La saga de la directive n° 77/187 du 14 février
1977: suite ... sans fin!..
[10] Cfr. Corte giust. 2 dicembre
1999, Allen, in Racc., 1999, I, 8643, ed in OGL,
2000, III, 3, con nota di E.
Nespoli, L’oggetto del
trasferimento di azienda: la nozione di entità economica nella giurisprudenza
della Corte di Giustizia.
[11] Cfr. Corte giust. 11 marzo 1997, Suezen,
in Racc., 1997, 1259 e in OGL., 1998, III, 11, con nota di C. Gulotta, Il trasferimento di
azienda nella recente giurisprudenza della Corte di Giustizia, Corte giust.
10 dicembre 1998, Hernàndez Vidal, in Racc. 1998, 8221 e Corte
giust. 10 dicembre 1998, Sànchez Hidalgo, in Racc. 1998, 8237.
[12] Cfr. Corte Giust. 9 dicembre
2004, Commissione c Repubblica Italiana, in Racc. ed in RGL, 2006,
II, 21, con nota di M. Pallini, Il diritto del lavoro e libertà di concorrenza:
il caso dei servizi aeroportuali.
[13] Cfr. Corte giust. 18 marzo 1986, Spijkers,
in Racc., 1986, 1119, i cui criteri costituiscono il punto di
partenza delle successive decisioni sull’argomento.
[14] Cfr. A. Pizzoferrato, La nozione “giuslavoristica” di trasferimento di azienda tra diritto comunitario e
diritto interno, in RIDL, 1998,
I, 429; Corte giust. 7 febbraio 1985, Botzen, in Racc.,
1985, 510, Corte giust. 19 maggio 1992, Redmond, cit.
[15] Cfr. rispettivamente Corte giust.
12 novembre 1992, Watson Rask, cit.; Corte giust. 20 novembre
2003, Abler, cit.
[16] Cfr. Corte giust. 7 marzo1996, Merckx,
cit.; Corte giust. 11 marzo 1997, Suezen, cit.,
Corte giust. 10 dicembre 1998, Hernàndez Vidal, cit.; Corte giust. 10 dicembre
1998, Sànchez Hidalgo, cit.
[17] Cfr. Corte giust. 14 aprile 1994,
Schmidt, cit.; Corte giust. 11 marzo 1997, Suezen, cit.; Corte
giust. 10 dicembre 1998, Hernàndez Vidal, cit.; Corte giust. 10 dicembre
1998, Sànchez Hidalgo, cit.
[18] Cfr. rispettivamente Corte giust.
25 gennaio 2001, Oy Liikenne Ab, in Racc. 2001, I, 745, ed in Mass.
giur. lav., 2001, 490, con nota di P.
Passalacqua, Successione nell’appalto, trasferimento di azienda e
definizione legale della fattispecie; Corte giust. 20 novembre 2003, Abler,
cit.; Corte giust. 7 marzo 1996, Merckx, cit..
[19] Cfr. Corte giust. 11 marzo 1997, Suezen,
cit.; Corte giust. 10 dicembre 1998, Hernàndez Vidal, cit.;
Corte giust. 10 dicembre 1998, Sànchez Hidalgo, cit..
[20] Cfr. Corte giust. 12 marzo 1998, Dethier,
in Racc. 1998, 1061 ed in MGL, 1998, 621, con nota di A. Pelaggi, Trasferimento di azienda
nelle imprese in crisi, potere di recesso del cedente e del cessionario ed
effetti del licenziamento illegittimo alla luce della giurisprudenza comunitaria.
[21] Cfr. Corte giust. 5 febbraio
1988, Berg, in Racc. 2559; Corte giust. 10 febbraio 1988, Tellerup, in
Racc., 1988, 739 ed in RTDE, 1988,
709, con nota di P. Rodiere;
Corte giust. 12 novembre 1996, Rotsart de Hertaing,
in Racc. 1996, 2525 ed in NGL, 1997, 154.
[22]
Cfr. Trib. Ravenna, 8
giugno
[23] Cfr. ad esempio
il D.lgs. 8 maggio 1998, n. 178, con cui il Governo ha dato attuazione alla
delega contenuta nell’art. 17. c. 115 della l. 15 maggio 1997, n. 127,
riguardante “la trasformazione degli attuali istituti superiori di educazione
fisica e l’istituzione delle facoltà o del corso di laurea e di diploma in
scienze motorie”. L’art.
[24] Cfr. Corte giust. 16 dicembre
1992, Katsikas in Racc., 1992, I, 6600.
[25] Cfr. Corte giust. 7 marzo 1996, Merckx,
cit.; Corte giust. 12 novembre 1998, Europiéces, in Racc.,
1998, I, 6976 ed in MGL., 1999, 506, con nota redazionale Trasferimento
di azienda: consenso del dipendente alla prosecuzione del rapporto di lavoro
con l’azienda cessionaria.
[26] Cfr. F. Scarpelli, Esternalizzazioni e diritto del lavoro: il
lavoratore non è una merce, in DRI, 1999,
[27] Cfr. Trib. Siena, 6 marzo 2003 e
Trib. Siena 21 maggio
[28] Cfr. F. Scarpelli, Nuova
disciplina del trasferimento di azienda, in DPL, 2001, 779 (sul punto 782).
[29] Cfr. P. Lambertucci, Le
tutele del lavoratore nella circolazione dell’azienda, cit., 35.
[30] Cfr. Corte Giust. 10 febbraio
1998, Tellerup, cit., punto 17.
[31] Cfr. P. Lambertucci, Le tutele
del lavoratore nella circolazione dell’azienda, cit., 35; R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento di
azienda, cit., 153.
[32] Cfr. P. Lambertucci, Le tutele
del lavoratore nella circolazione dell’azienda, cit., 41; Cass. 19 dicembre 1997, n.
[33] Cfr. Corte Giust. 7 febbraio
1985, Wendelboe,
in Racc., 1985, 463, ed in FI, 1986, IV, 110.
[34] Cfr. Corte giust. 8 giugno 1994, Commissione
c Gran Bretagna, in Racc., 1994, 2479 ed in DLRI, 1994, 663.
[35] Cfr. A. Perulli, I rinvii all’autonomia collettiva: mercato del
lavoro e trasferimento di azienda, in DLRI, 1992, 515 (sul punto
549); D. Izzi, La dimensione
collettiva della tutela, in RGL, 1999,
I, 893.
[36] Cfr. P. Lambertucci, Le tutele del lavoratore nella
circolazione dell’azienda, cit., 203; F.
Santini, La condotta antisindacale, in P. Tosi (a cura di), Mantenimento dei diritti dei
lavoratori, cit., 1294 (sul punto 1302).
[37] Cfr. P. Lambertucci, Le tutele del lavoratore nella
circolazione dell’azienda, cit., 203; R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento di
azienda, cit., 116.
[38] Cfr. U. Carabelli, B. Veneziani, Il trasferimento di azienda in
Italia, in AA. VV., La transmisiòn de empresas en Europa, Bari,
Cacucci, 1999, 103.
[39] Cfr. P. Lambertucci, Le tutele del lavoratore nella
circolazione dell’azienda, cit., 215; F.
Lunardon, Le procedure di informazione e consultazione sindacale, in
P. Tosi (a cura di), Mantenimento
dei diritti dei lavoratori, cit., 1303.
[40] Cfr. D. Gottardi, Legge e sindacato nelle crisi occupazionali, Padova,
Cedam, 1995, 69; R. Romei, Il
rapporto di lavoro nel trasferimento di azienda, cit., 122.
[41] Contra G. Proia, Sull’”intenzione” di trasferire l’azienda nella procedura sindacale
prevista dall’art. 47 della legge n. 428 del
[42] Cfr. C. Cester, Trasferimento di azienda e rapporti di lavoro,
cit., 514.
[43] Cfr. R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento di
azienda, cit., 127.
[44] Cfr. U. Carabelli, B. Veneziani, Il trasferimento di azienda in
Italia, cit., 121; D. Izzi, La
dimensione collettiva della tutela, cit., 890.
[45] Cfr. Corte giust. 8 giugno 1994, Commissione
Ce c Gran Bretagna, cit. Cfr. su tale decisione G. Lyon Caen, Il regno Unito:
allievo indisciplinato o ribelle indomabile, in DLRI, 1994, 678 e W. Wedderburn of Charlton, Il
diritto del lavoro inglese davanti alla Corte di Giustizia. Un frammento, ivi,
691.
[46] Cfr. U. Carabelli, B. Veneziani, Il trasferimento di azienda in
Italia, cit., 121; D. Izzi, La
dimensione collettiva della tutela, cit., 892.
[47]
Cfr. W. Van Gerven, Of rights,
remedies and procedures, in CMLR, 2000, 501; Corte giust. 15 maggio 1986, Johnston,
in Racc., 1986, 1651; Corte
giust. 10 aprile 1984, Von Colson e Kamann, cit.
[48] Cfr. Corte giust. 8 giugno 1994, Commissione
c Regno Unito, cit.
[49] Cfr. R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento di azienda,
cit., 129; P. Lambertucci, Le
tutele del lavoratore nella circolazione dell’azienda, cit., 236.
[50] Cfr. G. Riganò, La tutela individuale e le clausole collettive
contenute nella parte obbligatoria del contratto collettivo, in ADL.,
2001, 289
[51] Cfr. Cass. 11 maggio 2000, n.
[52] Cfr. R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento di
azienda, cit., 129; in giurisprudenza cfr. Cass. 4 gennaio 2000, n.
[53] Cfr. Cass. S.U. 11 maggio 2000,
n. 302, cit., la quale ha ritenuto che la comunicazione prevista dalla
disciplina sulla cassa integrazione guadagni assolva non solo alla funzione di
porre le organizzazioni sindacali in grado di concordare la scelta dei
lavoratori da sospendere, ma anche allo scopo di assicurare “la tutela degli
interessi dei lavoratori in relazione alla crisi dell’impresa”, richiamando espressamente
l’art. 5, c. 5 della l. 20.5.1975, n. 164.
[54] Cfr. R. Vaccarella, Il procedimento di repressione della
condotta antisindacale, Milano, Franco Angeli, 1977, 144. Pret. Lecce, 4
febbraio
[55] Cfr. U. Carabelli, B. Veneziani, Il trasferimento di azienda in
Italia, cit., 127.R. Romei, Il
rapporto di lavoro nel trasferimento di azienda, cit., 138.
[56] Pret. Udine, 9 agosto