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Vol. VI/2008

RIVISTA DI DIRITTO DELL’ECONOMIA,

DEI TRASPORTI E DELL’AMBIENTE

 

 

La tutela dei lavoratori pubblici nel trasferimento di attività

 

1. La nozione di trasferimento di attività. - 2. La tutela dei lavoratori sul piano individuale. - 3. La tutela collettiva.

 

Massimiliano Marinelli*

 

1. Negli ultimi anni anche nel settore pubblico si è registrato un incremento dei casi di trasferimento di funzioni o di attività da un soggetto ad un altro. Ciò ha comportato in alcuni casi il passaggio dei dipendenti dalla disciplina propria di un comparto a quella di un comparto diverso, o addirittura all’assoggettamento degli stessi alle disposizioni vigenti per il lavoro privato nella loro interezza. Ciò in conseguenza rispettivamente dell’acquisizione della posizione datoriale nel contratto di lavoro da parte di un ente facente parte di un comparto diverso da quello alle cui dipendenze i lavoratori prestavano la loro opera, o di un datore di lavoro avente la qualità non di amministrazione pubblica, ma di impresa commerciale (o comunque di soggetto escluso dalla nozione di cui all’art. 1, c. 2 del D. lgs. 165 del 2001).

Secondo l’art. 31 del D. lgs. 165 del 2001 “fatte salve le disposizioni speciali, nel caso di trasferimento o conferimento di attività svolte da pubbliche amministrazioni, enti pubblici o loro aziende o strutture ad altri soggetti pubblici o privati, al personale che passa alle dipendenze di tali soggetti si applicano l’art. 2112 del codice civile e si osservano le procedure di informazione e consultazione di cui all’art. 47, commi da 1 a 4, della legge 29 dicembre 1990, n. 428”. La disposizione trova dunque applicazione soltanto qualora non vi sia una legge speciale che disciplini le sorti del personale coinvolto in operazioni di riorganizzazione, le quali determinino il trasferimento di talune funzioni da un soggetto ad un altro. Ciò a condizione che il cedente sia una pubblica amministrazione, un ente pubblico ovvero una sua azienda o struttura. Nelle altre ipotesi invece si applica la disciplina di tutela dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento dell’azienda, contenuta nell’art. 2112 c.c.[1] e nell’art 47 della l. 428 del 1990[2], per cui si potrebbe avere l’ipotesi di un’assunzione alle dipendenze di amministrazioni pubbliche in conseguenza dell’acquisizione da parte di queste di attività in precedenza svolte da privati (a condizione che sussista la fattispecie descritta dall’art. 2112 c.c.).  

Per comprendere appieno l’art. 31 del D. lgs. 165 del 2001 occorre individuare quale sia la disciplina applicabile nel settore privato, ed il campo di applicazione di questa, attraverso un breve esame delle norme nazionali e comunitarie in materia. La direttiva comunitaria 2001/23 (che ha codificato il testo della direttiva 14 febbraio 1977, n. 77/187, così come modificato dalla direttiva del 19 giugno 1998, n. 98/50), prevede una disciplina per la tutela dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti, di parti di imprese o di stabilimenti. La direttiva non è applicabile alle ipotesi di riorganizzazione amministrativa di enti pubblici, ovvero al trasferimento di funzioni tra questi ultimi. Tuttavia la giurisprudenza comunitaria ha tradizionalmente interpretato in senso restrittivo tali esclusioni, ritenendo che la direttiva non trovi applicazione soltanto nell’ipotesi in cui il trasferimento abbia riguardato funzioni amministrative in senso stretto[3].  E’ invece soggetto alla disciplina di questa il passaggio di attività che possano in astratto essere svolte anche da un soggetto imprenditore[4].

Il legislatore italiano applica invece la disciplina al trasferimento di “attività” senza ulteriori specificazioni, con ciò sembrando includere anche ipotesi che si collocano al di fuori della direttiva.  Tuttavia tale previsione non determina un conflitto con la normativa europea, atteso che l’art. 8 della direttiva consente agli stati membri di introdurre tra le altre disposizioni legislative più favorevoli per i lavoratori.

La normativa comunitaria prevede una disciplina protettiva per i lavoratori in caso di trasferimento di impresa, di stabilimenti o di parte di impresa o di stabilimenti, attuato mediante cessione contrattuale o fusione, ma nella sua formulazione originaria non chiariva in cosa questo dovesse consistere. Solo con la direttiva 98/50 è stato previsto che si considera trasferimento ai fini dell’applicazione della direttiva quello di un’entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria. Tale nozione va letta alla luce della evoluzione della giurisprudenza comunitaria nel periodo precedente alla formulazione della definizione, in quanto secondo l’ottavo “considerando” della direttiva il chiarimento introdotto dalla riforma del 1998 non ha modificato l’ambito di applicazione della disciplina di tutela, così come interpretata dalla Corte di Giustizia.

I Giudici comunitari avevano adottato un’interpretazione molto estensiva dello strumento con cui si realizza il trasferimento, ritenendo che la disciplina si applichi in tutte le situazioni nelle quali si verifica, in forza di una vicenda contrattuale, la sostituzione della persona fisica o giuridica responsabile dell’impresa, a prescindere dal trasferimento della proprietà dei beni che la compongono, e senza che sia necessario un legame diretto tra il cedente ed il cessionario. Il trasferimento può dunque essere effettuato anche in due fasi, per effetto dell’intermediazione di un terzo, quale proprietario o locatore[5], ed avvenire mediante l’affidamento per via contrattuale ad un imprenditore della gestione del servizio, precedentemente svolto in proprio, ovvero da un altro soggetto[6]. L’elemento della cessione contrattuale è stato però sostanzialmente svuotato di contenuto da alcune sentenze, che hanno incluso nella fattispecie anche il caso in cui un’autorità pubblica decida di porre fine alla concessione di sovvenzioni ad una persona giuridica, provocando così la cessazione completa e definitiva delle attività di quest’ultima, per trasferirle ad un altro soggetto, che offre servizi analoghi[7], ovvero il trasferimento, autorizzato con legge dello Stato e disposto con un decreto ministeriale, dell’impresa esercitata da un ente pubblico ad una società organizzata secondo le forme privatistiche, ma costituita da un altro ente pubblico che ne detiene le azioni[8]. Di conseguenza la circostanza che il legislatore nazionale, nella formulazione dell’art. 31, abbia sostanzialmente ignorato il problema del mezzo mediante cui la cessione si realizza, non determina alcun contrasto con la direttiva comunitaria, atteso che questo ha nella giusprudenza comunitaria scarso valore selettivo.

Prima della specificazione da parte della direttiva 98/50 della nozione di trasferimento, la Corte aveva già ritenuto che la fattispecie venisse realizzata dalla cessione di un’entità economica organizzata in modo stabile, il cui utilizzo non fosse limitato all’esecuzione di un’opera determinata, ma consentisse il proseguimento di tutte o di alcune delle attività del cedente. La disciplina comunitaria era stata dunque ritenuta inapplicabile ad una fattispecie in cui una società aveva affidato alcuni lavori in subappalto ad un’altra impresa, alle cui dipendenze era passato un dipendente, ed alla quale aveva trasferito del materiale da costruzione, ma non i macchinari necessari per una stabile prosecuzione dell’attività economica[9]. A giudizio della Corte la valutazione va compiuta sul piano organizzativo, e non in relazione ai rapporti contrattuali con il committente, per cui ad esempio l’acquisto dei beni per eseguire trivellazioni in miniera, con contestuale subappalto soltanto di alcuni lavori, non esclude l’applicazione della direttiva, qualora i beni acquistati dal cessionario siano sufficienti per uno svolgimento astrattamente durevole dell’attività[10].

Secondo la Corte di Giustizia però per l’applicazione della direttiva non è sufficiente la mera successione di due soggetti in una attività[11], circostanza questa che ha portato alla condanna dell’Italia per inadempimento degli obblighi comunitari in relazione alle norme di garanzia per i dipendenti delle imprese fornitrici di servizi di assistenza a terra negli aeroporti, consistenti tra l’altro nella previsione dell’obbligo per gli imprenditori subentranti nelle attività di assumere il personale impiegato dal precedente appaltatore, in proporzione alla quota di traffico o di attività acquisita[12]. Tuttavia nel caso in questione la previsione di una disciplina di miglior favore per i lavoratori si scontrava con l’esigenza di garantire un ulteriore obiettivo comunitario, vale a dire la liberalizzazione dei servizi aeroportuali. La Corte di Giustizia ha dunque fatto una valutazione che, salvaguardando gli interessi dei lavoratori nei casi in cui si fosse realizzato un reale trasferimento di azienda, impedisse un eccessivo irrigidimento dell’impiego della manodopera da parte dei soggetti appena entrati nel mercato liberalizzato. Tuttavia normalmente nei casi in cui si realizzi un trasferimento da un’amministrazione pubblica ad un soggetto privato, non sussistono ipotesi in cui vi siano obiettivi comunitari da realizzare diversi dalla tutela dei dipendenti.

La Corte di Giustizia per valutare l’esistenza di un trasferimento ai fini della direttiva richiede l’esame del complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l'operazione esaminata, fra le quali rientrano in particolare il tipo di impresa o di stabilimento oggetto del trasferimento, la cessione degli elementi materiali, quali gli edifici ed i beni mobili, il valore degli elementi immateriali al momento della cessione, ed anche la riassunzione della maggior parte del personale ad opera del nuovo imprenditore[13]. Occorre in particolare determinare se vi sia stato il trasferimento di una entità economica che mantenga la sua identità, il che significa che tra l’attività svolta dal cedente e quella che viene trasferita al cessionario non devono sussistere differenze rilevanti. Ciò può risultare in particolare dal fatto che il cessionario abbia continuato a svolgere le stesse attività economiche, ovvero attività analoghe, ma tale criterio non assume valenza decisiva. La tutela prevista dalla direttiva 2001/23 si applica anche qualora il trasferimento non riguardi l’intero complesso organizzato per l’esercizio di un’attività economica, ma si realizzi con un trapasso parziale di attività, purché queste rivestano un carattere autonomo, e costituiscano una parte essenziale e distinta dell’impresa, pur non esaurendone i compiti statutari[14]. La Corte ha poi precisato che nel concetto di trasferimento parziale dell’impresa rientra anche una cessione che riguardi attività secondarie (come il servizio di mensa in un’impresa manifatturiera o in un’ospedale)[15], successivamente proseguite dal cessionario in esclusivo rapporto contrattuale col cedente. Inoltre ha assimilato, sulla base della finalità protettiva sottesa alla direttiva, il trasferimento di un servizio elementare ad una parte di stabilimento, escludendo che sussista un limite di consistenza occupazionale dell'entità trasferita ai fini dell’applicazione della disciplina, e ha reputato ininfluente il fatto che non fossero stati ceduti contemporaneamente elementi patrimoniali, orientamento poi confermato in una serie di sentenze successive[16].

La valutazione riguardo alla sussistenza della fattispecie va effettuata da parte del giudice nazionale sulla base di una considerazione complessiva di questi elementi, nessuno dei quali ha un valore decisivo, e che possono assumere un rilievo maggiore o minore a seconda del tipo di attività esercitata, o addirittura delle modalità organizzative della singola impresa. Di conseguenza l’elemento personale, che nelle imprese organizzate con prevalenza del fattore lavoro (come quelle operanti nel settore della pulizia o della sorveglianza) ha una grande importanza ai fini dell’accertamento della sussistenza della fattispecie[17], non ha valore determinante in altre ipotesi, nelle quali l’elemento fondamentale del complesso produttivo (la cui cessione assume un rilievo decisivo ai fini qualificatori) consiste invece nelle relazioni contrattuali o nei beni materiali impiegati, quali gli autobus in un’impresa di trasporto urbano, i mezzi per la predisposizione dei pasti in una mensa, ovvero la concessione per la vendita dei prodotti del cedente, accompagnata da una promozione presso la clientela[18]. Va sottolineato che l’avere considerato il passaggio dal cedente al cessionario di una parte essenziale del personale per numero e per competenze come elemento decisivo ai fini della qualificazione della fattispecie ha degli effetti non secondari sulle operazioni di esternalizzazione nei settori cosiddetti labour intensive. Invero in queste ipotesi la semplice successione nello svolgimento di una determinata attività, anche se accompagnata dalla cessione degli elementi materiali (non di particolare rilievo) impiegati dai lavoratori per lo svolgimento della loro attività (si pensi alle divise del personale di vigilanza, ovvero agli attrezzi minuti per la pulizia) non può integrare la fattispecie ai sensi del diritto comunitario. Questa infatti potrà essere ritenuta sussistente soltanto qualora i lavoratori (elemento decisivo della fattispecie) siano stati trasferiti al cessionario e, non essendo applicabile l’effetto successorio immediato (dato che la fattispecie, prima del passaggio dei lavoratori, non si è perfezionata)[19] occorre che il trasferimento sia realizzato mediante la cessione del contratto di lavoro, ovvero la riassunzione dei dipendenti. Tale ricostruzione ha effetti rilevanti sul piano giuridico, in quanto non solo i lavoratori eventualmente non inclusi nel numero dei soggetti riassunti possono agire in giudizio per ottenere la costituzione del rapporto di lavoro, ma la prosecuzione dei rapporti di tutti i dipendenti non rientra tra le mere circostanze di fatto, e si realizza alle condizioni e con le tutele previste dalla direttiva 2001/23.

Dalla superiore ricostruzione emerge dunque che normalmente il semplice trasferimento di un’attività non potrebbe essere qualificato, ai sensi del diritto comunitario, come fattispecie rientrante nell’ambito di applicazione della direttiva. Ciò non in quanto per il trasferimento di funzioni amministrative non sia obbligatoria l’applicazione della normativa protettiva dei lavoratori (in quanto come si è visto è comunque possibile per lo Stato introdurre una disciplina più favorevole per i dipendenti), ma perché la fattispecie, a livello comunitario, è stata individuata in modo tale da non imporre l’applicazione della disciplina di tutela anche al semplice trasferimento di attività. Tuttavia l’ordinamento italiano, utilizzando nell’art. 31 del D. lgs. 165 del 2001, in modo probabilmente consapevole, un’espressione volutamente diversa da quella propria del legislatore comunitario, ha esteso una serie di garanzie ai lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche e di enti privati i quali siano coinvolti in operazioni che vedono il passaggio di determinate attività da un ente pubblico ad un altro, ovvero da un soggetto privato ad un ente pubblico (e viceversa). Non viene dunque richiesto il passaggio di un singolo complesso economico organizzato affinché la fattispecie si realizzi, ma è sufficiente che un soggetto subentri ad un altro nello svolgimento di determinati compiti. Tale estensione avviene attraverso un richiamo all’art. 2112 c.c. (che individua la tutela specifica dei rapporti di lavoro) ed all’art. 47 della l. 428 del 1990 (nel quale è disciplinata la procedura di informazione e consultazione da seguire per tali ipotesi). L’estenzione della disciplina di tutela è da ritenere come norma di miglior favore. Infatti se gli stessi non passassero alle dipendenze di colui il quale subentra nell’attività, in conseguenza della riduzione dei compiti assegnati l’amministrazione potrebbe procedere al licenziamento del dipendente, o, sussistendone i presupposti, all’avvio della procedura per la messa in mobilità dei lavoratori divenuti superflui.

 

2. Sul piano della tutela individuale la direttiva 2001/23 vieta il licenziamento dei dipendenti di un complesso produttivo prima del suo trasferimento, che sia giustificato dalle esigenze legate alla cessione[20]; dispone che i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto di lavoro siano trasferiti dal cedente al cessionario, il quale subentra nello stesso anche in assenza del consenso delle parti originarie, e senza che l’autonomia privata, individuale o collettiva, possa prevedere deroghe, sia pure temporanee, a tale principio[21]; obbliga il cessionario al mantenimento delle condizioni previste dal contratto collettivo di lavoro fino alla sua scadenza o risoluzione, ovvero fino all’applicazione di una diversa disciplina collettiva.

Secondo l’art. 2112 c.c., i contratti del personale impiegati nel complesso ceduto non vengono mantenuti con il cedente, e proseguono ipso iure con il cessionario. L’effetto successorio si produce necessariamente alla data del trasferimento, anche in presenza di manifestazioni di volontà in senso contrario da parte del cedente o del cessionario, i quali non possono rinviare la produzione di tale effetto ad un momento successivo. Si deve inoltre ritenere che nel caso in esame non sia possibile derogare mediante un accordo sindacale al principio di successione automatica nel rapporto di lavoro previsto dall’art. 2112 c.c., in quanto le eccezioni previste dall’art. 47, cc. 5 e 6 della l. 428 del 1990 non sono richiamate dal testo dell’art. 31 del D. lgs. 165 del 2001, e dunque non trovano applicazione alle pubbliche amministrazioni. Mentre nel settore privato si deve ritenere sussista la possibilità di concordare tra datore di lavoro e lavoratore una diversa sorte per il rapporto di lavoro, prevedendo il mantenimento del rapporto di lavoro con il cedente[22], una siffatta ipotesi non pare possa trovare applicazione al settore pubblico, in cui la norma di cui all’art. 31 del D. lgs. 165 del 2001 pare assumere una valenza inderogabile. Il passaggio automatico va dunque ritenuto come effetto immediato ed inderogabile del trasferimento di attività, a meno che non vi siano delle disposizioni speciali che limitino o precludano tale effetto[23]. Tuttavia la direttiva non può essere interpretata nel senso di obbligare il lavoratore a proseguire il rapporto di lavoro con il cessionario, in quanto ciò comprometterebbe i diritti fondamentali del lavoratore. uestiQQuesti non può essere costretto a lavorare per un datore di lavoro che non abbia liberamente scelto e può dunque rifiutare il passaggio alle dipendenze del cessionario[24]. Peraltro, le conseguenze di tale scelta sono interamente rimesse al legislatore nazionale, con il solo limite che, se al trasferimento si accompagna una modifica sostanziale del rapporto di lavoro (il cui accertamento è demandato al giudice nazionale), l’eventuale risoluzione che ne consegue deve essere ascritta alla responsabilità del datore di lavoro[25].

Tuttavia secondo una tesi minoritaria dovrebbe essere consentito al lavoratore, nel caso in cui la cessione non abbia ad oggetto l’intero complesso produttivo, ma soltanto la parte cui egli sia addetto, di rifiutare la successione automatica del cessionario al cedente nel contratto di lavoro, restando alle dipendenze di quest’ultimo[26]. Tale tesi ha avuto un certo seguito nella giurisprudenza in materia di art. 31 del D. lgs. 165 del 2001, sulla base di un scorretta lettura del dato letterale della disposizione, che cela una tendenza ad attribuire ai dipendenti pubblici diritti ulteriori rispetto ai lavoratori privati che si trovino in posizioni analoghe[27]. Invero aderendo a questa tesi il dipendente potrebbe restare alle dipendenze dell’amministrazione presso la quale svolgeva la sua attività, la quale però dovrebbe a quel punto o adibirlo a mansioni diverse, ovvero, ove questo non fosse possibile, procedere al licenziamento. Tale seconda ipotesi però appare in fatto di difficile realizzazione, attesa la tradizionale riluttanza del datore di lavoro pubblico a procedere a licenziamenti che non siano motivati da gravissimi inadempimenti dei lavoratori.

Si deve dunque ritenere che il rifiuto del dipendente di passare alle dipendenze del cessionario non determina il suo diritto a restare alle dipendenze del cedente, e va equiparato alle dimissioni, per le quali egli è tenuto a dare il preavviso, a meno che non sia configurabile una giusta causa. Ciò trova implicita conferma nel fatto che la riforma del 2001 ha espressamente attribuito al lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscano una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento di azienda, il diritto di dimettersi con effetto immediato. La nozione di sostanziale modifica è diversa da quella di giusta causa, alla quale è però equiparata ai fini dell’acquisizione del diritto all’indennità di mancato preavviso, e deve consistere in un mutamento del contenuto dell’obbligazione lavorativa, o della fonte collettiva conformatrice del rapporto di lavoro, tale da mutare le condizioni in cui il dipendente presta la sua attività. Probabilmente la disposizione sarà invocata con maggiore frequenza nel caso in cui vi sia stata la sostituzione del contratto collettivo applicabile, situazione che può comportare differenze anche notevoli ai fini retributivi, ovvero il nuovo datore di lavoro offra una minore affidabilità rispetto al cedente dal punto di vista organizzativo e del rispetto degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro[28].

In attuazione della direttiva comunitaria l’art. 2112 c.c. prevede dunque in primo luogo, oltre alla successione nel contratto di lavoro, che il lavoratore conservi nei confronti del cessionario tutti i diritti derivanti dal contratto. Tale principio va però letto in correlazione all’art. 2112, c. 3, che prevede il mantenimento del trattamento economico e normativo, derivante da contratti collettivi di qualunque livello, fino alla scadenza di questi, a meno che il contratto collettivo non venga sostituito da un contratto di pari livello applicato dal cessionario. L’art. 2112 c.c. dispone infine la responsabilità solidale del cedente e del cessionario per tutti i crediti vantati dal lavoratore al tempo del trasferimento. La norma codicistica non preclude peraltro al cessionario, una volta subentrato nel contratto di lavoro, l’esercizio di tutti i poteri che il cedente avrebbe potuto esercitare, anche nel senso di modificare il contenuto dell’obbligazione lavorativa, mediante l’esercizio dello jus variandi[29]. Del resto la giurisprudenza comunitaria è costante nel ritenere che, qualora l’ordinamento nazionale consenta al datore di lavoro una modifica del contenuto delle posizioni giuridiche del lavoratore, la successione nella titolarità del complesso produttivo non preclude al cessionario l’esercizio di tale diritto, a condizione che il trasferimento non sia la ragione della modifica[30]. Qualora invece il diritto, pur previsto dal contratto individuale, sia disciplinato nei suoi effetti dal contratto collettivo, esso resta acquisito al patrimonio del lavoratore, ma potrà essere modificato nel suo contenuto per il futuro da una diversa norma collettiva conformatrice del rapporto. Se infine il diritto del lavoratore trova origine e disciplina esclusivamente in un contratto collettivo anche tacitamente concluso, la sua attribuzione ed il suo contenuto saranno esposti alle modifiche che la parte collettiva può subire, rimanendo salvi solo i diritti già maturati, ed entrati a far parte del patrimonio del lavoratore[31].

Il trasferimento produce i suoi effetti determinando l’ingresso del cessionario nella complessiva posizione debitoria e creditoria del cedente, come si ricava dall’art. 2112 c.c., c. 1, ma oltre a tale effetto successorio per il futuro la disposizione prevede anche la successione in tutte le situazioni giuridiche consolidate, che abbiano già assunto la posizione di veri e propri diritti perfezionati, quale che sia la loro fonte, tra i quali rientrano in primo luogo i diritti di credito già maturati nei confronti del cedente. L’art. 2112 c.c. rafforza la posizione giuridica del lavoratore, aggiungendo al successore nelle posizioni debitorie anche il precedente obbligato, limitatamente ai crediti già esistenti al momento del trasferimento e dunque definitivamente entrati nel patrimonio del lavoratore. La disposizione codicistica prevede però che il lavoratore possa consentire alla liberazione del cedente, riconoscendo il cessionario come suo unico debitore, con un atto sottoscritto nel corso delle procedure conciliative disciplinate dagli artt. 410 e 411 c.p.c. Tale atto è riconducibile alla fattispecie della remissione di debito prevista dall’art. 1301 c.c., ma rispetto ad esso l’art. 2112 c.c. contiene una norma derogatoria, in quanto la manifestazione di volontà del lavoratore, per espressa disposizione legislativa, non estende i suoi effetti anche al cessionario obbligato in solido. Nulla impedisce peraltro che, con una manifestazione di volontà assunta conformemente all’art. 2113 c.c., il lavoratore disponga anche del suo credito nei confronti del nuovo datore di lavoro.

L’ambito della responsabilità solidale va limitata ai soli debiti relativi a rapporti di lavoro ancora esistenti al momento del trasferimento, e per i quali si sia verificato l’effetto successorio, mentre non trova applicazione per le situazioni derivanti da rapporti ormai estinti[32], per i quali, qualora la fattispecie successoria sia riconducibile, oltre che all’art. 2112 c.c., anche all’art. 2555 c.c., potrà semmai trovare applicazione l’art. 2560 c.c. Vero è infatti che la limitazione della responsabilità solidale ai crediti dei lavoratori coinvolti nel trasferimento non è imposta dalla direttiva, che anzi fa salve le disposizioni più favorevoli ai lavoratori, ma è l’intero complesso della disciplina nazionale che pare considerare la prosecuzione del rapporto di lavoro e l’applicazione della disciplina della solidarietà in modo strettamente connesso, e limitarla al lavoratore ancora alle dipendenze del cedente al momento del trasferimento[33].

L’art. 2112 c.c., oltre a disporre il mantenimento dei diritti previsti dal contratto individuale in favore del lavoratore, prevede anche l’obbligo per il cessionario di applicare i trattamenti economici e normativi previsti dal contratto collettivo applicato dal cedente fino alla sua scadenza, a meno che questo non sia sostituito da un altro contratto collettivo, il quale, in forza della modifica apportata all’art. 2112 c.c. dal D. lgs. 18 del 2001, deve essere di pari livello. Di conseguenza in caso di trasferimento da una pubblica amministrazione ad un altro soggetto pubblico rientrante comunque nella nozione di cui all’art. 1, c. 2, il contratto del comparto cui appartiene il cessionario, e l’eventuale contratto di secondo livello da questo applicato, si andranno a sostituire alle fonti negoziali applicate dal cedente (sia esso una pubblica amministrazione o un soggetto privato). La questione può porre maggiori questioni interpretative per le ipotesi di passaggio di attività dalle pubbliche a soggetti privati, per le quali peraltro normalmente vengono previste discipline transitorie specifiche, e che non pongono diretti problemi applicativi nei confronti dei soggetti pubblici. Dato però che il rapporto di lavoro prosegue con soggetti privati, nulla impedisce che nel corso delle procedure di informazione e consultazione sindacale si raggiungano accordi che consentano una armonizzazione progressiva (e non un passaggio immediato) dal vecchio al nuovo regime.

 

3.Sul piano collettivo, la direttiva 2001/23 impone al cedente ed al cessionario un obbligo di informazione e consultazione sindacale nei confronti dei rappresentanti dei lavoratori interessati al trasferimento, ai quali vanno comunicati in tempo utile prima dell’attuazione dello stesso i motivi della scelta imprenditoriale e le sue conseguenze sul piano giuridico, economico e sociale per i lavoratori coinvolti, nonché le misure previste nei confronti di questi ultimi[34].

L’art. 47 della l. 428 del 1990 impone il rispetto di una procedura di informazione e consultazione sindacale (che deve essere seguita anche nel caso di trasferimento di attività), per cui il cedente ed il cessionario sono tenuti a comunicare ai soggetti destinatari dell'obbligo di informazione soltanto la data del trasferimento (o la data proposta per il trasferimento), i motivi di esso, le conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori e le eventuali misure previste nei confronti di questi ultimi. Vi è una notevole diversità di opinioni in dottrina sulla natura della procedura, la quale non ha effetti soltanto sul piano teorico, in quanto l’adesione a ciascuno degli orientamenti proposti comporta l’adozione di soluzioni interpretative opposte in merito ad aspetti decisivi della disciplina, come accade per le conseguenze del mancato rispetto della procedura. Invero alcuni ritengono che gli obblighi di informazione e di consultazione dovrebbero essere considerati come vincoli di natura procedimentale alla legittimità della cessione, la cui violazione determinerebbe la nullità del trasferimento[35]. Secondo un’altra opinione invece tali obblighi costituiscono requisiti procedimentali di operatività della scelta imprenditoriale, che si collocherebbe al di fuori della possibilità di controllo da parte dei rappresentanti sindacali, e la cui violazione non comporterebbe alcuna conseguenza definitiva sul trasferimento[36].

La procedura di informazione ed eventuale consultazione si applica soltanto nel caso in cui la cessione sia effettuata da un soggetto che occupi nel complesso più di 15 dipendenti (computati secondo i criteri elaborati in relazione all’art. 35 della l. 300 del 1970)[37], indipendentemente dal numero di lavoratori effettivamente addetti alla parte di organizzazione ceduta[38]. Il cedente e il cessionario devono adempiere l’obbligo di informazione nei confronti delle rispettive rappresentanze sindacali unitarie, e, qualora ve ne siano, delle rappresentanze sindacali aziendali costituite ai sensi dell’art. 19 della l. 300 del 1970, nonché dei sindacati firmatari del contratto collettivo applicato dal datore di lavoro interessato al trasferimento[39]. In assenza di una rappresentanza sindacale l’obbligo di comunicazione va adempiuto nei confronti dei sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi, i quali possono anche essere informati tramite l’associazione sindacale alla quale i datori di lavoro aderiscono, ovvero conferiscono mandato.

Il cedente ed il cessionario devono assolvere l’obbligo di informazione prima del momento in cui manifestano l’intenzione di trasferire il complesso produttivo in atti o documenti negoziali, a condizione che questi assumano una natura vincolante, ancorché non definitiva ad esempio configurandosi come un contratto preliminare[40]. La scelta del legislatore è pienamente condivisibile, in quanto la consultazione interviene in un momento nel quale ancora non si è perfezionata l’operazione, e consente al sindacato di potere influenzare sia la stessa scelta datoriale, sia le conseguenze che essa può avere nei confronti dei lavoratori.

La comunicazione deve avvenire almeno 25 giorni prima della stipula del contratto definitivo di cessione, o del contratto preliminare, al quale può attribuirsi certamente natura di intesa vincolante tra le parti, come espressamente richiesto dalla legge[41]. Se l’effetto traslativo avviene mediante la combinazione di più negozi giuridici, l’obbligo di informazione deve essere adempiuto 25 giorni prima della stipula del contratto che realizza l’effetto finale. La norma impone l’attivazione della procedura di informazione e consultazione sindacale già nel corso delle trattative che potranno portare alla cessione, in quanto evidentemente il legislatore ha ritenuto che occorre assicurare una presenza sindacale anche in tale fase, nella quale vengono definiti non solo gli assetti economici dell’operazione, ma anche le sorti dei lavoratori coinvolti nel trasferimento[42]. Nel caso di trasferimento di attività di cui all’art. 31 del D. lgs. 165 del 2001 peraltro la cessione potrà intervenire anche mediante disposizioni di carattere legale o amministrativo, in relazione alle quali l’obbligo di comunicazione andrà adempiuto almeno 25 giorni prima che queste inizino a produrre i loro effetti.

Entro sette giorni dall’adempimento dell’obbligo di informazione, i suoi destinatari possono chiedere un esame congiunto della situazione, che deve essere avviato e svolto unitamente dal cedente e dal cessionario nei sette giorni successivi. Il confronto con i soggetti collettivi richiedenti è a sua volta destinato ad esaurirsi, qualora non sia stato raggiunto un accordo entro dieci giorni dal suo inizio. L’indicazione dei termini, come si vede, è prevista in modo che l’intera procedura si concluda prima della stipula del contratto, o dei contratti, o del perfezionamento degli atti mediante cui si realizza il trasferimento di azienda, considerato ormai espressamente dal testo novellato dell’art. 47 della l. 428 del 1990 come momento dal quale decorre a ritroso il termine di 25 giorni previsto per l’adempimento dell’obbligo di informazione.

La disciplina interna, nonostante le numerose opinioni contrarie[43], va interpretata nel senso di prevedere non soltanto un momento di informazione e di confronto, bensì un vero e proprio obbligo a trattare, il quale non comporta che la procedura si concluda necessariamente con un accordo, ma implica che le parti rispettino nella trattativa i canoni della correttezza e della buona fede[44]. Del resto la Corte di giustizia ha ritenuto una disciplina nazionale che si limiti ad obbligare il cedente ed il cessionario ad avviare consultazioni con i rappresentanti sindacali, a prendere in considerazione tutte le osservazioni da loro formulate, rispondendo ad esse indicando i motivi dell’eventuale rifiuto, senza prevedere un preciso dovere di negoziazione, non conforme alla direttiva 2001/23, la quale espressamente impone agli stati membri di prevedere un obbligo di consultazione diretta alla conclusione di un accordo[45]. Questo peraltro non comporta alcun potere di veto delle rappresentanze e delle organizzazioni sindacali, per cui, una volta adempiuto l’obbligo di informazione ed eventualmente di successiva consultazione, il cedente e il cessionario potrebbero rifiutare di accettare le proposte sindacali[46]. Queste potrebbero, mediante i normali strumenti della dialettica sindacale, provare ad influenzare la decisione del datore di lavoro (ovvero provare ad influenzare l’autorità che abbia adottato la scelta oggetto di discussione) fermo restando che tale tentativo non troverebbe le sue regole nella disciplina del trasferimento di azienda. In sede di esame congiunto sulle conseguenze giuridiche, economiche e sociali, e sulle eventuali misure da adottare nei confronti dei lavoratori potranno essere raggiunti accordi in merito alla modifica del trattamento collettivo in seguito al trasferimento di azienda, ad esempio prevedendo meccanismi di armonizzazione nel passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina, ovvero modalità di equiparazione degli inquadramenti nel passaggio dal vecchio al nuovo sistema.

L’art. 9 della direttiva 2001/23, codificando un principio affermato dalla Corte di Giustizia in merito alla necessità di rendere effettivo il diritto comunitario[47], dispone che gli Stati membri sono tenuti a prevedere un’adeguata tutela giurisdizionale, azionabile in caso di violazione dei diritti riconosciuti sia ai lavoratori, sia ai loro rappresentanti. La disposizione non impone necessariamente l’adozione di strumenti ripristinatori della situazione precedente alla violazione della procedura, potendosi anche fare ricorso a modelli di tutela di tipo risarcitorio, ma impone comunque che le sanzioni previste possano avere una sufficiente forza dissuasiva[48]. Oltre all’applicazione dei normali strumenti processuali approntati dagli ordinamenti nazionali per la tutela dei diritti dei singoli, alla cui salvaguardia mira la direttiva, gli Stati nazionali sono dunque obbligati a predisporre uno strumento che permetta alle rappresentanze dei lavoratori di ricorrere avverso la violazione degli obblighi di informazione e di consultazione. L’art. 47 della l. 428 del 1990 tutela entrambe queste fasi, disponendo espressamente che la violazione dell’obbligo di informazione, o di quello di consultazione, costituisce comportamento antisindacale ai sensi dell’art. 28 della l. 300 del 1970. L’individuazione di un soggetto sindacale destinatario degli obblighi di informazione e di consultazione, e la predisposizione di una forma tipizzata di reazione, in cui la legittimazione ad agire è attribuita esclusivamente alle associazioni sindacali che presentino determinati requisiti, depongono nel senso dell’esistenza di un semplice interesse collettivo, tutelato dalle procedure in questione, e, data la normale coincidenza nel nostro ordinamento tra titolarità del diritto e azione in giudizio, esclusivamente affidato alle organizzazioni sindacali[49].

Invero esaminando le clausole di procedimentalizzazione di fonte contrattuale si è pervenuti alla conclusione che il loro mancato rispetto incida sugli atti di gestione del rapporto di lavoro solo qualora esse determinino l’esistenza di un diritto soggettivo nel patrimonio del lavoratore[50], ovvero costituiscano parte di una fattispecie a formazione complessa. Un diritto di azione del singolo lavoratore per fare valere la violazione di una procedura legale, al fine di invalidare atti adottati nei suoi confronti, potrebbe inoltre derivare da una disposizione espressa, ovvero essere ricavato dal complesso della disciplina protettiva approntata dall’ordinamento. Alla prima ipotesi va ricondotta la disciplina dei licenziamenti collettivi, per i quali la violazione della procedura di informazione e di consultazione comporta l’invalidità del licenziamento, sanzionata dall’applicazione dell’art. 18 della l. 300 del 1970, mentre nel secondo caso si può richiamare la disciplina della procedura per la cassa integrazione guadagni[51], situazioni che però si caratterizzano per la circostanza che il procedimento serve a stabilire quali tra le posizioni dei singoli lavoratori debbano subire un pregiudizio.

Nel trasferimento di azienda però si deve ritenere che il singolo prestatore di lavoro, se pure ha un interesse di fatto al rispetto dell’adempimento degli obblighi di informazione e di consultazione sindacale, in quanto il legislatore ha ritenuto che essi tutelino l’interesse complessivo dei soggetti coinvolti, non è titolare di alcuna azione volta a fare valere in giudizio la violazione di tali procedure, ma può agire soltanto per la difesa dei propri diritti individuali[52]. Un diritto all’esercizio di un’azione individuale non si può inoltre ricavare dal testo della legge, la quale, a differenza della disciplina in materia di cassa integrazione guadagni, non prevede un espresso riferimento alla protezione della posizione dei singoli[53]. Del resto la procedura prevista dalla legge è posta a presidio dell’interesse sindacale al corretto svolgimento della procedura, per cui non assume rilevanza l’assenza di un pregiudizio per le posizioni dei singoli lavoratori. Al contrario, anche se la posizione dei lavoratori in seguito al trasferimento di azienda sia più vantaggiosa rispetto a quella precedente, ciò non esclude l’esistenza di un comportamento antisindacale.

Gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse (nella fattispecie, gli organismi delle associazioni sindacali destinatarie degli obblighi di informazione e consultazione, ma non le rappresentanze sindacali in azienda)[54] possono dunque rivolgersi al tribunale nel cui circondario rientri il luogo in cui è stato tenuto il comportamento antisindacale, chiedendone la cessazione, e la rimozione degli effetti. La violazione della procedura non sussiste soltanto nei casi in cui vi sia una totale omissione degli obblighi procedurali, ma anche quando le informazioni date siano parziali, incomplete, non veritiere, ovvero quando nella fase di esame congiunto il cedente o il cessionario non si siano comportati rispettando i canoni della correttezza e della buona fede.

La questione oggetto di maggiore dibattito in dottrina, e alla quale sono state date soluzioni opposte in giurisprudenza, consiste nella determinazione del contenuto dell’ordine giudiziale che può essere emesso ai sensi dell’art. 28 della l. 300 del 1970, nella parte in cui dispone la rimozione degli effetti del comportamento illegittimo. La soluzione deve essere ricercata esclusivamente sul piano del diritto nazionale dato che la fonte comunitaria richiede soltanto la presenza di una adeguata tutela giurisdizionale, la quale, aderendo alla indicazione data in materia dalla Corte di Giustizia, deve possedere i requisiti di adeguatezza, capacità dissuasiva, proporzionalità e comparabilità, i quali innegabilmente caratterizzano il procedimento per la repressione della condotta antisindacale.

Secondo una prima opinione l’adempimento degli obblighi di informazione e di consultazione sindacale andrebbe qualificato come requisito di efficacia del trasferimento, per cui la loro violazione comporterebbe la temporanea inefficacia di quest’ultimo, fino all’effettivo esperimento della procedura[55]. Secondo altri autori invece il trasferimento sarebbe valido ed efficace anche in caso di violazione degli obblighi di procedura, mentre le misure adottate nei confronti dei singoli dipendenti interessati sarebbero inefficaci, e potrebbero essere rinnovate soltanto all’esito del procedimento correttamente effettuato. A questa tesi hanno espressamente aderito alcune pronunce dei giudici di merito[56], nonché la Corte di Cassazione[57], secondo cui l’adempimento dell’obbligo di informazione del sindacato non costituisce un presupposto di legittimità del negozio di trasferimento, il quale resta valido anche se adottato in assenza del rispetto di tali obblighi.

Va dunque ritenuto che anche un trasferimento di attività disposto senza il rispetto della procedura sindacale sarebbe produttivo di effetti tra il cedente e il cessionario, ma questi non sarebbero opponibili ai lavoratori, che potrebbero richiedere la conservazione del rapporto in essere con il cedente fino al corretto adempimento degli obblighi di cui all’art. 47 della l. 428 del 1990.



* Professore Ordinario di Diritto del Lavoro dell’Università degli Studi di Palermo.

[1] Cfr. R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento di azienda, Milano, Giuffrè, 1993; P. Lambertucci, Le tutele del lavoratore nella circolazione dell’azienda, Torino, Giappichelli, 1999; P. Tosi (a cura di), Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, in NLCC, 2002, 1241; G. Santoro Passarelli e R. Foglia (a cura di), La nuova disciplina del trasferimento di impresa, Milano, Ipsoa, 2002; C. Cester, Trasferimento di azienda e rapporti di lavoro: la nuova disciplina, in LG, 2001, 505.

[2] La disciplina contenuta nell’art. 2112 c.c. è stata modificata quanto all’oggetto della sua disciplina dall’art. 32 del D. lgs. 276 del 2003, il quale però non è applicabile alle amministrazioni pubbliche. Permane dunque la versione della norma precedente all’entrata in vigore della riforma del mercato del lavoro, ma ciò non comporta alcun particolare problema intepretativo – come si vedrà meglio in seguito – in ordine alla disciplina approntata a tutela della posizione dei lavoratori coinvolti. 

 

[3] Cfr. Corte giust. 15 ottobre 1996, Henke, in Racc., 1996, 4989.

[4] Cfr. Corte giust. 26 settembre 2000, Mayeur, in Racc. 2000, I, 7755.

[5] Cfr. Corte giust. 10 febbraio 1988, Tellerup, cit.; Corte giust. 5 febbraio 1988, Berg, cit.

[6] Corte giust. 12 novembre 1992, Watson Rask, in Racc., 1991, 5775 ed in NGL., 1992, 863; Corte giust. 20 novembre 2003, Abler, in Racc. ed in RIDL, 2004, II, 463, con nota di M. Borzaga, Trasferimento di azienda e successione di contratti di appalto, primo e dopo il d.lgs. 276/2003, tra diritto comunitario scritto e giurisprudenza della Corte di Giustizia.

[7] Cfr. Corte giust. 19 maggio 1992, Redmond Stichting, in Racc., 1992, 3212.

[8] Cfr. Corte giust. 14 settembre 2000, Collino e Chiappero, in Racc., 2000, I, 6659 ed in FI, 2001, IV, 154. In dottrina cfr. G. Bolego, “Privatizzazioni” e ambito di applicazione della direttiva comunitaria sul trasferimento di impresa, in LPA, 2000, II, 1114.

[9] Cfr. Corte giust. 19 settembre 1995, Rygaard in Racc., 1995, 2745, ed in DS, 1996, 80, con nota di P. Antonmattei, La saga de la directive n° 77/187 du 14 février 1977: suite ... sans fin!..

[10] Cfr. Corte giust. 2 dicembre 1999, Allen, in Racc., 1999, I, 8643, ed in OGL, 2000, III, 3, con nota di E. Nespoli, L’oggetto del trasferimento di azienda: la nozione di entità economica nella giurisprudenza della Corte di Giustizia.

[11] Cfr. Corte giust. 11 marzo 1997, Suezen, in Racc., 1997, 1259 e in OGL., 1998, III, 11, con nota di C. Gulotta, Il trasferimento di azienda nella recente giurisprudenza della Corte di Giustizia, Corte giust. 10 dicembre 1998, Hernàndez Vidal, in Racc. 1998, 8221 e Corte giust. 10 dicembre 1998, Sànchez Hidalgo, in Racc. 1998, 8237.

[12] Cfr. Corte Giust. 9 dicembre 2004, Commissione c Repubblica Italiana, in Racc. ed in RGL, 2006, II, 21, con nota di M. Pallini, Il diritto del lavoro e libertà di concorrenza: il caso dei servizi aeroportuali.

[13] Cfr. Corte giust. 18 marzo 1986, Spijkers, in Racc., 1986, 1119, i cui criteri costituiscono il punto di partenza delle successive decisioni sull’argomento.

[14] Cfr. A. Pizzoferrato, La nozione “giuslavoristica” di trasferimento di azienda tra diritto comunitario e diritto interno, in RIDL, 1998, I, 429; Corte giust. 7 febbraio 1985, Botzen, in Racc., 1985, 510, Corte giust. 19 maggio 1992, Redmond, cit.

[15] Cfr. rispettivamente Corte giust. 12 novembre 1992, Watson Rask, cit.; Corte giust. 20 novembre 2003, Abler, cit.

[16] Cfr. Corte giust. 7 marzo1996, Merckx, cit.; Corte giust. 11 marzo 1997, Suezen, cit., Corte giust. 10 dicembre 1998, Hernàndez Vidal, cit.; Corte giust. 10 dicembre 1998, Sànchez Hidalgo, cit.

[17] Cfr. Corte giust. 14 aprile 1994, Schmidt, cit.; Corte giust. 11 marzo 1997, Suezen, cit.; Corte giust. 10 dicembre 1998, Hernàndez Vidal, cit.; Corte giust. 10 dicembre 1998, Sànchez Hidalgo, cit.

[18] Cfr. rispettivamente Corte giust. 25 gennaio 2001, Oy Liikenne Ab, in Racc. 2001, I, 745, ed in Mass. giur. lav., 2001, 490, con nota di P. Passalacqua, Successione nell’appalto, trasferimento di azienda e definizione legale della fattispecie; Corte giust. 20 novembre 2003, Abler, cit.; Corte giust. 7 marzo 1996, Merckx, cit..

[19] Cfr. Corte giust. 11 marzo 1997, Suezen, cit.; Corte giust. 10 dicembre 1998, Hernàndez Vidal, cit.; Corte giust. 10 dicembre 1998, Sànchez Hidalgo, cit..

[20] Cfr. Corte giust. 12 marzo 1998, Dethier, in Racc. 1998, 1061 ed in MGL, 1998, 621, con nota di A. Pelaggi, Trasferimento di azienda nelle imprese in crisi, potere di recesso del cedente e del cessionario ed effetti del licenziamento illegittimo alla luce della giurisprudenza comunitaria.

[21] Cfr. Corte giust. 5 febbraio 1988, Berg, in Racc. 2559; Corte giust. 10 febbraio 1988, Tellerup, in Racc., 1988, 739 ed in RTDE, 1988, 709, con nota di P. Rodiere; Corte giust. 12 novembre 1996, Rotsart de Hertaing, in Racc. 1996, 2525 ed in NGL, 1997, 154.

[22] Cfr. Trib. Ravenna, 8 giugno 2000, in Lav. giur., 2000, 949, con nota di E. Menegatti, Divieto di interposizione, esternalizzazione e trasferimento di azienda.

[23] Cfr. ad esempio il D.lgs. 8 maggio 1998, n. 178, con cui il Governo ha dato attuazione alla delega contenuta nell’art. 17. c. 115 della l. 15 maggio 1997, n. 127, riguardante “la trasformazione degli attuali istituti superiori di educazione fisica e l’istituzione delle facoltà o del corso di laurea e di diploma in scienze motorie”. L’art. 6 ha infatti previsto, in caso di trasformazione di un Isef pareggiato (vale a dire tutti gli istituti, tranne quello di Roma, che aveva un regime particolare, e che è disciplinato dal precedente art. 4) in facoltà, corso di laurea o diploma in scienze motorie a seguito di convenzione con un’università, il diritto per i dipendenti addetti a mansioni tecniche ed amministrative, il cui rapporto fosse ancora in corso al momento dell’entrata in vigore della riforma, di essere assunti a domanda presso la stessa università (subordinando con ciò il passaggio dei dipendenti ad una loro espressa richiesta, e non dunque come effetto automatico). La disposizione prevede che nel nuovo rapporto di lavoro i dipendenti degli ex Isef mantengano le funzioni loro assegnate presso il precedente datore di lavoro, ed il trattamento economico complessivo in godimento.

[24] Cfr. Corte giust. 16 dicembre 1992, Katsikas in Racc., 1992, I, 6600.

[25] Cfr. Corte giust. 7 marzo 1996, Merckx, cit.; Corte giust. 12 novembre 1998, Europiéces, in Racc., 1998, I, 6976 ed in MGL., 1999, 506, con nota redazionale Trasferimento di azienda: consenso del dipendente alla prosecuzione del rapporto di lavoro con l’azienda cessionaria.

[26] Cfr. F. Scarpelli, Esternalizzazioni e diritto del lavoro: il lavoratore non è una merce, in DRI, 1999, 352. In questo senso isolatamente in giurisprudenza Pret. Milano, 14 maggio 1999, in RGL., 2001, II, 344, con nota di A. Lepore, Trasferimento di ramo di azienda e diritto di opposizione del lavoratore alla sua cessione (anche con riferimento al nuovo articolo 2112 cod. civ. in attuazione della direttiva 98/50).

[27] Cfr. Trib. Siena, 6 marzo 2003 e Trib. Siena 21 maggio 2003, in LPA, 2003, 935, con nota di D. Casale, Le esternalizzazioni nelle pubbliche amministrazioni fra trasferimento di funzioni e gestione delle eccedenze. Nel senso sostenuto nel testo invece Trib. Catanzaro, 27 novembre 2002, in LPA, 2003, 941, annotata unitamente alle sentenze sopra indicate, nonché Pret. Bergamo, 24 giugno 1999, in LPA, 1999, 1292, con nota di G. Pellacani, Trasferimento di attività e servizi pubblici a società miste.

[28] Cfr. F. Scarpelli, Nuova disciplina del trasferimento di azienda, in DPL, 2001, 779 (sul punto 782).

[29] Cfr. P. Lambertucci, Le tutele del lavoratore nella circolazione dell’azienda, cit., 35.

[30] Cfr. Corte Giust. 10 febbraio 1998, Tellerup, cit., punto 17.

[31] Cfr. P. Lambertucci, Le tutele del lavoratore nella circolazione dell’azienda, cit., 35; R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento di azienda, cit., 153.

[32] Cfr. P. Lambertucci, Le tutele del lavoratore nella circolazione dell’azienda, cit., 41; Cass. 19 dicembre 1997, n. 12899, in FI, 1999, I, 273; contra R. Romei, La responsabilità solidale per i crediti di lavoro, cit., 183.

[33] Cfr. Corte Giust. 7 febbraio 1985, Wendelboe, in Racc., 1985, 463, ed in FI, 1986, IV, 110.

[34] Cfr. Corte giust. 8 giugno 1994, Commissione c Gran Bretagna, in Racc., 1994, 2479 ed in DLRI, 1994, 663.

[35] Cfr. A. Perulli, I rinvii all’autonomia collettiva: mercato del lavoro e trasferimento di azienda, in DLRI, 1992, 515 (sul punto 549); D. Izzi, La dimensione collettiva della tutela, in RGL, 1999, I, 893.

[36] Cfr. P. Lambertucci, Le tutele del lavoratore nella circolazione dell’azienda, cit., 203; F. Santini, La condotta antisindacale, in P. Tosi (a cura di), Mantenimento dei diritti dei lavoratori, cit., 1294 (sul punto 1302).

[37] Cfr. P. Lambertucci, Le tutele del lavoratore nella circolazione dell’azienda, cit., 203; R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento di azienda, cit., 116.

[38] Cfr. U. Carabelli, B. Veneziani, Il trasferimento di azienda in Italia, in AA. VV., La transmisiòn de empresas en Europa, Bari, Cacucci, 1999, 103.

[39] Cfr. P. Lambertucci, Le tutele del lavoratore nella circolazione dell’azienda, cit., 215; F. Lunardon, Le procedure di informazione e consultazione sindacale, in P. Tosi (a cura di), Mantenimento dei diritti dei lavoratori, cit., 1303.

[40] Cfr. D. Gottardi, Legge e sindacato nelle crisi occupazionali, Padova, Cedam, 1995, 69; R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento di azienda, cit., 122.

[41] Contra G. Proia, Sull’”intenzione” di trasferire l’azienda nella procedura sindacale prevista dall’art. 47 della legge n. 428 del 1990, in ADL., 1995, 91 (sul punto 102).

[42] Cfr. C. Cester, Trasferimento di azienda e rapporti di lavoro, cit., 514.

[43] Cfr. R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento di azienda, cit., 127.

[44] Cfr. U. Carabelli, B. Veneziani, Il trasferimento di azienda in Italia, cit., 121; D. Izzi, La dimensione collettiva della tutela, cit., 890.

[45] Cfr. Corte giust. 8 giugno 1994, Commissione Ce c Gran Bretagna, cit. Cfr. su tale decisione G. Lyon Caen, Il regno Unito: allievo indisciplinato o ribelle indomabile, in DLRI, 1994, 678 e W. Wedderburn of Charlton, Il diritto del lavoro inglese davanti alla Corte di Giustizia. Un frammento, ivi, 691.

[46] Cfr. U. Carabelli, B. Veneziani, Il trasferimento di azienda in Italia, cit., 121; D. Izzi, La dimensione collettiva della tutela, cit., 892.

[47] Cfr. W. Van Gerven, Of rights, remedies and procedures, in CMLR, 2000, 501; Corte giust. 15 maggio 1986, Johnston, in Racc., 1986, 1651; Corte giust. 10 aprile 1984, Von Colson e Kamann, cit.

[48] Cfr. Corte giust. 8 giugno 1994, Commissione c Regno Unito, cit.

[49] Cfr. R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento di azienda, cit., 129; P. Lambertucci, Le tutele del lavoratore nella circolazione dell’azienda, cit., 236.

[50] Cfr. G. Riganò, La tutela individuale e le clausole collettive contenute nella parte obbligatoria del contratto collettivo, in ADL., 2001, 289

[51] Cfr. Cass. 11 maggio 2000, n. 302, in MGL, 2000, 915, con nota di S. Liebman, Garanzie procedimentali e legittimità delle scelte dell'imprenditore nei processi di ristrutturazione aziendale; Cass. 8 ottobre 1996, n. 8788, in RIDL, 1997, II, 328, con nota di A. Bellavista, Cassa integrazione straordinaria e procedura di partecipazione sindacale.

[52] Cfr. R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento di azienda, cit., 129; in giurisprudenza cfr. Cass. 4 gennaio 2000, n. 23, in MGL 2000, 605, con nota di A. Maresca, “Fruibilità” della tutela sindacale nel trasferimento di azienda.

[53] Cfr. Cass. S.U. 11 maggio 2000, n. 302, cit., la quale ha ritenuto che la comunicazione prevista dalla disciplina sulla cassa integrazione guadagni assolva non solo alla funzione di porre le organizzazioni sindacali in grado di concordare la scelta dei lavoratori da sospendere, ma anche allo scopo di assicurare “la tutela degli interessi dei lavoratori in relazione alla crisi dell’impresa”, richiamando espressamente l’art. 5, c. 5 della l. 20.5.1975, n. 164.

[54] Cfr. R. Vaccarella, Il procedimento di repressione della condotta antisindacale, Milano, Franco Angeli, 1977, 144. Pret. Lecce, 4 febbraio 1995, in NGL, 1995, 22; Trib. Verona, 11 maggio 1990, in DPL, 1990, 3005.

[55] Cfr. U. Carabelli, B. Veneziani, Il trasferimento di azienda in Italia, cit., 127.R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento di azienda, cit., 138.

[56] Pret. Udine, 9 agosto 1995, in LG, 1996, 291, con nota di E. Baida, Trasferimento di azienda. La sanzione per omessa informazione-consultazione; Pret. Napoli, 7 dicembre 1993, in FI, 1995, I, 407 con nota di R. Cosio, La nuova disciplina del trasferimento di azienda; Pret. Benevento, 29 aprile 1999, in GC, 2000, I, 2147, con nota di M. Marando, La violazione degli obblighi di informazione e il comportamento antisindacale nel trasferimento di azienda.

[57] Cfr. Cass. 4 gennaio 2000, n. 23, cit.

 

Data di pubblicazione: 7 aprile 2008.