RIVISTA DI DIRITTO DELL’ECONOMIA,
DEI TRASPORTI E DELL’AMBIENTE
Note minime in
tema di "perdite provvisorie" quali componenti del danno ambientale risarcibile.
Francesca Scardina*
1. Il punto nodale della sentenza
2. Distinzione o parificazione tra perdite temporanee e
perdite provvisorie?
3. Conclusioni
DANNO AMBIENTALE – Perdite
temporanee (c.d. provvisorie) – Risarcibilità – II allegato alla Direttiva
2004/35/CE – Allegato 3 alla parte sesta del Dlgs. 152/06
Integra il danno
ambientale risarcibile anche il danno derivante, medio tempore, dalla mancata
disponibilità di una risorsa ambientale intatta, ossia le c.d. "perdite
provvisorie", previste espressamente come componente del danno risarcibile
dalla Direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (in materia
di prevenzione e riparazione del danno ambientale).
DANNO AMBIENTALE – Perdite
temporanee – nozione – fondamento della risarcibilità
La risarcibilità delle
perdite temporanee è giustificata dal fatto che qualsiasi intervento di
ripristino ambientale, per quanto tempestivo, non può mai eliminare quello
speciale profilo di danno conseguente alla perdita di fruibilità della risorsa
naturale compromessa dalla condotta illecita; danno che si verifica nel momento
in cui tale condotta viene tenuta e che perdura per tutto il tempo necessario a
ricostituire lo status quo.
Le
massime sopra riportate, estrapolate dalla complessa decisione della Corte di Cassazione, Sez. III penale 2 maggio
2007, n. 16575[1], consentono
di svolgere alcune brevi riflessioni in merito alle c.d. "perdite
provvisorie" quali componenti del danno ambientale risarcibile.
Punto di partenza della vicenda
giudiziaria conclusasi con la sentenza in commento è la decisione del 3 luglio
2003 del Tribunale monocratico di Livorno che ha ritenuto penalmente
responsabili dell’illecita esecuzione del ripascimento artificiale della
spiaggia di Cavo (Elba): il sindaco del Comune di Rio Marina, i due assessori
comunali competenti ed il progettista direttore dei lavori; condannandoli al
risarcimento dei danni in favore del Ministero dell’Ambiente (ora denominato
della Tutela del territorio e del mare), del Comune di Rio e del proprietario
di un albergo sito in prossimità della spiaggia.
I lavori “incriminati” erano stati deliberati dalla Giunta comunale
di Rio Marina al fine di contrastare i fenomeni di erosione e di ingressione
marina che interessavano alcuni tratti della costa ed erano stati realizzati
dall’impresa esecutrice dei lavori mediante lo sversamento, sulla spiaggia
interessata, di materiale ferroso misto a sabbie ferrifere trasportate da terra
nonché di limo ferrifero dragato dal fondale del porto.
Secondo il giudice di primo grado, la cattiva esecuzione dei
lavori, ascrivibile alla tipologia di materiale utilizzato (discarica di circa
40.000 tonnellate di materiale di scarto di miniera), aveva determinato un
intorbidamento persistente del tratto di mare prospiciente la spiaggia, un
danno irreparabile alla flora ed alla fauna marina con gravi effetti di
carattere estetico sull’intero paesaggio della località balneare e,
conseguentemente, un danno patrimoniale al titolare di un albergo ubicato in
prossimità della spiaggia, costretto alla chiusura dell’attività di ricezione
turistico-alberghiera.
1. Il punto nodale della sentenza
Bisogna, innanzitutto, tener presente, per un verso, che la
questione arricchisce la pur esigua casistica esistente in materia [3]
e, per altro verso, che le perdite temporanee trovano adesso specifica
collocazione normativa nel recente Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152
"Norme in materia ambientale" (c.d. Codice dell’ambiente o anche
“Testo unico in materia ambientale”: nel prosieguo Testo Unico oppure T.U.)[4],
che ha dato attuazione alla previgente Direttiva comunitaria n. 2004/35/CE[5].
L’articolo 1 dell’allegato II della stessa Direttiva testualmente
prevede che sono temporanee le “perdite
risultanti dal fatto che le risorse e/o i servizi naturali danneggiati non
possono svolgere le loro funzioni ecologiche o fornire i servizi ad altre
risorse naturali o al pubblico fino a che le misure primarie o complementari
non abbiano avuto effetto”. Il Testo Unico n. 152/2006 nell’allegato 3
(parte sesta), riproducendo la definizione (punto 1 lettera d), si esprime
negli stessi termini prevedendo: il medesimo criterio risarcitorio (punto 1
lettera c), c.d. riparazione “compensativa”; le stesse finalità riparatorie
(punto 1.1.3.) e i criteri da adottare per la individuazione delle misure di
riparazione compensativa (punti 1.2.2. e 1.2.3.).
Quanto finora detto sembra evidenziare l’intento del legislatore
italiano di recepire le disposizioni comunitarie, inerenti le perdite
temporanee, mediante l’adozione di un testo normativo perfettamente
sovrapponibile a quello della Direttiva della quale riproduce perfino gli
errori di trascrizione (v. punto 1.2.3.).
Nonostante la identità della disciplina
riguardante le misure di riparazione (ed in particolare, per quel che interessa
in questa sede, le misure compensative aventi ad oggetto le perdite temporanee)
i risultati applicativi sono assai differenti rispetto a quelli probabilmente
ipotizzati dal provvedimento comunitario; in quanto il legislatore italiano con
il D. lgs. 152/06
sembrerebbe avere ricondotto, in estrema sintesi, la responsabilità ambientale
nell’alveo della “tradizionale” responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., con
il conseguente ripudio della “responsabilità oggettiva” prevista a livello
comunitario; e, soprattutto, si rifà ad una concezione di ambiente e danno
ambientale di derivazione giurisprudenziale molto più ampia e variegata di
quella comunitaria (art. 2 della dir. 2004/35/CE).
In conformità al quadro normativo sopra delineato e
in generale ai principi del nostro ordinamento, la
“perdita” non andrebbe intesa in senso strettamente economico – finanziario,
vale a dire quale variazione contabile negativa nel bilancio dell’ente pubblico
colpito dal danno, commisurata ai costi di ripristino ovvero alla riduzione di
valore della risorsa danneggiata. Infatti, nonostante la chiara previsione
della Direttiva comunitaria, secondo cui “l’operatore
la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale
danno sarà considerato finanziariamente responsabile” (cioè
obbligato a sostenere i costi del ripristino ed ogni altro onere sostenuto
dalla P.A. nonché a risarcire i danni patiti dalla collettività o da soggetti
direttamente lesi dalla condotta inquinante), la reale operatività del
principio “chi inquina paga” sulla
base del quale è attribuita la suddetta responsabilità, si ottiene soltanto con
l’effettivo risanamento dell’ambiente, indipendentemente dalla corresponsione
da parte del responsabile di una somma di denaro quale “compensazione” del
danno ambientale.
Dalla responsabilità “finanziaria”
discende, a carico del danneggiante, in via primaria, l’obbligo di “riparare”
il danno ambientale sostenendo i costi necessari per ripristinare lo status quo ante e soltanto, in
via secondaria, cioè nell’ipotesi in cui la condotta provochi danni
all’ambiente non eliminati dalle misure riparatorie, obblighi risarcitori nei
confronti di chi provi di aver subito un danno ambientale o patrimoniale.
La perdita dovrebbe, quindi, essere
considerata in senso giuridico, ossia come lesione degli interessi
all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio, o meglio
dell’ambiente, di cui è portatrice la collettività [6]
e di cui lo Stato è tutore attraverso il Ministero dell’ambiente e della tutela
del territorio e del mare.
Secondo autorevole dottrina economica[7],
del resto, il danno ambientale è costituito da “una perdita di benessere
rispetto al livello assicurato dalla preesistente qualità dell’ambiente”.
Appunto per questo esso non produce effetti soltanto sul reddito, sul
patrimonio o sull’occupazione, ma anche, ad esempio, sulla “fruizione di
beni collettivi” (nei quali rientrano i beni ambientali) ovvero si
concretizza nella semplice “consapevolezza del degrado ambientale”. Di
conseguenza, nella maggior parte dei casi, la valutazione del danno ambientale
richiede non solo la quantificazione economica dei costi di ripristino, ma
anche dell’indennizzo per la perdita di un determinato livello di benessere cui
la collettività è costretta a rinunciare e, conseguentemente, l’attribuzione di
un valore monetario alle componenti ambientali, il cui danneggiamento provoca
un costo o una perdita alla collettività [8].
Con specifico riferimento alla quantificazione dell’indennizzo è,
inoltre, utile considerare che i prezzi di mercato non compensano la perdita di
benessere connessa ai valori d’uso e di non uso della risorsa ambientale
danneggiata. Per evitare, quindi, una sottostima del danno ambientale, dovrebbero
essere valutati, e conseguentemente indennizzati gli “svantaggi” subiti tanto
da coloro che fruiscono direttamente ovvero consumano la risorsa naturale
danneggiata (valori d’uso), quanto da coloro che, malgrado non intendano fruire
in futuro della risorsa, hanno percepito la riduzione di benessere scaturente
dal danno ambientale (valori di non uso)[9].
Per quanto riguarda, invece, il concetto
di “temporaneità” del danno, cui si riferiscono, sia il legislatore comunitario
che nazionale, questo non dovrebbe intendersi nel senso comune del termine, ma
come periodo di tempo compreso tra il compimento dell’illecito ambientale e
l’esecuzione dell’intervento di ripristino, ossia come periodo necessario, e,
comunque, occorso per ripristinare la piena fruibilità della risorsa
danneggiata. Afferma in proposito la sentenza in commento che si tratta di “quello
speciale profilo di danno conseguente alla perdita di fruibilità della risorsa
naturale e/o di un suo servizio compromessa dalla condotta illecita” che
“qualsiasi intervento di ripristino ambientale, per quanto tempestivo,
non può mai eliminare”.
Nel caso in esame, dunque, la
tempestività dell’intervento dell’autorità giudiziaria che ha disposto la
interruzione dei lavori ed il potere di decantazione dell’ambiente marino non
hanno evitato, secondo
Tuttavia, il carattere temporaneo
dell’evento dannoso non deve far erroneamente ritenere che le sue conseguenze
siano circoscritte in quel predeterminato intervallo. Le conseguenze del danno
ambientale, com’è noto, a volte si manifestano e/o possono essere riscontrate
ben oltre il periodo in cui avviene l’evento dannoso. In particolari
fattispecie, infatti, l’illecito ambientale non si esaurisce in un evento
limitato e necessariamente contestuale alla condotta antigiuridica (danno
attuale suscettibile di un immediato ristoro economico)[10].
Così avviene, specialmente, nelle ipotesi d’inquinamento ambientale provocato
dal rilascio d’inquinanti nei corpi idrici (come ad es. laghi e mari), per
l’evidente difficoltà oggettiva di individuare un danno permanente, una volta
che l’inquinante si diffonde nella matrice ambientale “non confinata”[11].
Il fatto, poi, che le perdite temporanee
non siano disciplinate dal legislatore nazionale e comunitario nella norma che
definisce il danno ambientale (art. 300 T.U. e art. 2 Direttiva 2004/35/CE),
ma, rispettivamente, nell’allegato 3 alla parte sesta del D. lgs. 152/06, e
nell’allegato II della Direttiva comunitaria 2004/35/CE, riguardanti entrambi
la riparazione del danno, può fare plausibilmente sostenere che tale scelta è
determinata dalla circostanza che le perdite temporanee, pur essendo
riconosciute come componenti del danno ambientale risarcibile, per il loro
sviluppo sia pure circoscritto nel tempo, non sono suscettibili di risarcimento
in forma specifica[12]
da attuarsi mediante le misure di riparazione primarie o complementari[13]
(così come il danno ambientale di cui all’art. 300 T.U. o all’art. 2 della Dir.
2004/35/CE), tanto da indurre il legislatore, comunitario e nazionale, a
predisporre per loro un’apposita misura di ripristino.
La stessa Direttiva precisa, inoltre, che la riparazione
compensativa non deve consistere in una compensazione finanziaria al
pubblico (vale a dire in una corresponsione di denaro ovvero in una forma
di risarcimento pecuniario per equivalente), bensì in una compensazione ecologico – ambientale, cioè
nell’attuazione di opere produttive di benefici ambientali tali da bilanciare
(o, meglio, compensare) gli effetti ed i danni provocati dall’illecito
ambientale al fine di garantire la salvaguardia degli equilibri ecologici
preesistenti. Ciò appare suffragare la tesi sopra esposta secondo la quale la
perdita non è da intendersi in senso strettamente economico-finanziario ma in
generale quale perdita di un determinato livello di benessere e ridotta
fruizione delle risorse ambientali.
La scelta di una compensazione ecologico
- ambientale appare la più coerente sul piano logico e sistematico con le
finalità della
Direttiva comunitaria, più volte citata, che non prevede forme di risarcimento
puramente economiche ma soltanto, come evidenziato dal suo stesso titolo,
strumenti di prevenzione e riparazione del danno ambientale.
Al riguardo è utile
rammentare che la esclusione di una compensazione finanziaria fu aspramente
criticata anche dal Parlamento Europeo, secondo il quale il risarcimento delle
perdite temporanee costituisce un delicato aspetto della disciplina
risarcitoria del danno ambientale “nell’ambito del quale una più puntuale
individuazione ed una più precisa quantificazione del danno risarcibile
avrebbero dovuto essere “indispensabili” per la selezione delle misure
compensative”[15].
2.
Distinzione o parificazione tra perdite temporanee e perdite provvisorie?
Le perdite provvisorie sono, infatti,
annoverate dalla Direttiva 2004/35 (e dal T.U.) fra i danni “non
significativi”, ossia tra i danni i cui effetti, una volta cessata la condotta
illecita, sono rimossi dalla stessa risorsa ambientale “offesa” attraverso un
celere processo di autoriparazione che ripristina (o addirittura migliora) le
condizioni preesistenti all’illecito, senza che occorra l’ausilio di un
intervento esterno.
La definizione normativa sembrerebbe
quindi escludere la risarcibilità del danno ambientale consistente nella mera
alterazione temporanea della risorsa naturale destinata a risolversi per
effetto dei naturali processi di autoriparazione. Tale restrittva Secondo parte
della dottrina[17],
tuttavia, tale restrittiva impostazione sembrerebbe contrastare con l’intento
perseguito dal legislatore comunitario e con alcuni suoi principi fondamentali
sanciti in materia di tutela risarcitoria del danno ambientale, e primo fra
tutti, con il principio “chi inquina paga” (considerando 2 della Direttiva
2004/35/CE), sulla base del quale, coerentemente con il principio dello
sviluppo sostenibile, dovrebbero essere attuate la prevenzione e la riparazione
del danno ambientale.
Invero, anche il dato letterale
sembrerebbe militare a favore di una distinzione tra le perdite temporanee e le
perdite provvisorie in quanto le perdite temporanee si caratterizzerebbero per
il fatto che la loro durata è limitata al tempo occorso per l’intervento di
ripristino. Per le perdite provvisorie, invece, è esclusa la necessità di un
intervento esterno e la loro provvisorietà sarebbe determinata dalla capacità
di autoriparazione della risorsa naturale che non richiede alcun tipo di
intervento antropico.
L’analisi delle caratteristiche sopra
indicate induce a preferire la tesi che distingue le due tipologie di perdite,
escludendo dall’applicazione della normativa ambientale in materia di
risarcimento soltanto quelle provvisorie in quanto carenti del requisito della
significatività richiesto per la configurazione del danno ambientale, e
riconoscendo, invece, la piena risarcibilità di quelle c.d. temporanee,
prescindendo, se non ai limitati fini della misura dell’indennizzo, dalla
durata del protrarsi degli effetti dannosi.
Tale distinzione, però, non sembra essere
condivisa, o, comunque, non assume il necessario rilievo, nella sentenza in
commento in quanto
La probabile assimilazione che
Diversamente, se, come affermato dalla
autorevole dottrina sopra richiamata,
L’obiettivo della S.C. di voler garantire
il massimo livello di tutela del bene ambientale, così come era stato
assicurato nella vigenza della L. 349/86, sembrerebbe trovare ulteriore
conferma nell’operato richiamo alle “ conclusioni alle quali si è pervenuti
– in materia di risarcimento per equivalente patrimoniale –
nell’interpretazione della L. 349 del 1986 art.
Quasi superfluo sottolineare che la valutazione va fatta caso per caso, in quanto, pur in
presenza di elevate potenzialità di autorigenerazione, i tempi necessari per il
ripristino saranno direttamente proporzionali al tasso di inquinamento sia
riguardo alla quantità di sostanze inquinanti che alla loro tipologia.
Nella fattispecie in esame, malgrado il forte potere di
decantazione del mare, l’enorme quantità di materiale riversato (diverse
tonnellate) e la sua natura (scarto di miniera), se da una parte non hanno
precluso l’autonomo ripristino delle risorse naturali “offese”, hanno in ogni
caso richiesto un lasso di tempo maggiore. Le peculiarità del caso concreto
hanno probabilmente influito sulla decisione della S.C. di riconoscere il
diritto al risarcimento pur in presenza di una perdita astrattamente
qualificabile come provvisoria, ma in concreto non definibile come “non
significativa” stante il tempo necessario per il processo di autorigenerazione
dell’ambiente danneggiato.
3. Conclusioni
Nel
realizzare tale precipuo obiettivo,
Indubbia
rilevanza hanno assunto, ai fini della decisione in commento, le peculiarità
del caso concreto e l’esigenza di non accedere ad una netta distinzione che
avrebbe potuto portare, presumibilmente, ad inique conseguenze, ove
Non va
trascurata, in ogni modo, anche la circostanza che la sentenza è stata emessa
in sede penale, ossia, nell’ambito di un giudizio finalizzato ad accertare e
sanzionare una condotta penalmente rilevante e, pertanto, a privilegiare
l’esame del comportamento posto in essere dall’agente rispetto
all’approfondimento degli effetti dello stesso.
Il
rigoroso criterio adottato della S.C. finisce così per portare a conclusioni
parzialmente difformi dalla tipizzazione legislativa del concetto di perdita
temporanea. E’ ciò appare comprensibile ove si consideri che il Giudice penale,
di fronte ad un fatto dannoso, in violazione di norme di legge e regolamentari,
abbia privilegiato l’accertamento delle responsabilità dei soggetti che lo
avevano provocato, senza soffermarsi sull’analisi di altri elementi devoluti
alla cognizione del Giudice civile, in sede di quantificazione dei danni subiti
dalle parti lese.
Tale
scelta, se da una parte appare corretta sotto il profilo del riparto di
attribuzioni, dall’altra, appare perfettamente in linea con i principi
tracciati dal recentissimo D. lgs 16 gennaio 2008, n. 4 “Ulteriori disposizioni
correttive ed integrative del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152,
recante norme in materia ambientale”, il cui art. art. 3-bis, “Principi sulla
produzione del diritto ambientale” indica chiaramente che: “I principi posti
dal presente articolo e dagli articoli seguenti costituiscono i principi
generali in tema di tutela dell’ambiente, adottati in attuazione degli articoli
2, 3, 9, 32, 41, 42 e 44, 117 commi 1 e 3 della Costituzione e nel rispetto del
Trattato dell’Unione europea”.
*Avvocato in Palermo
[1] La sentenza è pubblicata per esteso in rivista
giuridica dell’ambiente, 2007, 807 e ss, con note di POZZO B., La
responsabilità civile per danni all’ambiente tra vecchia e nuova disciplina, in
Ambiente & Sviluppo, 12/2007, 1051; GIAMPIETRO F., La responsabilità ambientale nel Testo Unico n. 152/06:un
passo avanti e due indietro e in Resp.
civ. e prev, 2007, 2081 e ss. con nota di GRECO G. G., Vademecum
dell’illecito ambientale: sentenza Fiale.
[2] La sentenza è
consultabile su: www.ambientediritto.it;
www.altalex.com; www.diritto-in-rete.com e www.lexambiente;
www.ambientediritto.it/sentenze/2007/Cassazione.
[3] Cfr. la sentenza,
richiamata in motivazione, della Corte Cass. pen., sez. III, 15 ottobre
1999 n.
[4] Il Dlgs. 3 aprile 2006 n. 152 risulta da ultimo
modificato dal Dlgs. 16 gennaio 2008 n. 4 “Ulteriori disposizioni correttive ed
integrative del decreto legislativo 3 aprile 2006, n.152, recante norme in
materia ambientale” in G.U. n. 24 del 29 gennaio 2008 – s. o. n. 24.
[5]
[6] La decisione della Corte Cost.,
30 dicembre 1987 n. 641, che ha dichiarato non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art.
[7] Sul punto cfr. FRANZINI M., I metodi di valutazione
economica e il danno ambientale: le ragioni di un difficile rapporto, in La
responsabilità per danno all’ambiente, Milano, Giuffrè, 2006, 362 e ss.. V.
anche NUTI F., Problemi posti dalla valutazione economica del danno
ambientale. (In particolare in sede giudiziaria), in Diritto ed Economia
dell’Ambiente “La responsabilità ambientale”, Milano, Giuffrè, 2005, 99 e ss.
[8] Cfr. LIBERATORE P., La quantificazione
economica del danno ambientale nel Dlgs. n. 152/2006. Applicabilità e limiti
del costo del ripristino e degli altri metodi di stima in ambito
giuridico-processuale, in La responsabilità per danno all’ambiente,
Milano, Giuffrè, 2006, 377.
[9] cfr. FRANZINI M., I metodi di valutazione
economica e il danno ambientale: le ragioni di un difficile rapporto, cit.,
365.
[10] Cfr. Cass. civ., sez. un., 25 gennaio 1989 n.
[11] V. “La valutazione del danno ambientale” in
www.apat.gov.it
[12] Sul concetto e le forme del
risarcimento del danno ambientale V. artt. 311 - 316 del Dlgs. 152/06. V.
inoltre FIMIANI P. Le nuove norme sul danno ambientale, Milano, Il sole
24 ore, 2006, 110 e ss. e. BOCCONE G, Responsabilità
e risarcimento per danno ambientale, Rimini, Maggioli, 2006, 179 e ss..
[13] Le misure di ripristino ambientale mirano alla
riqualificazione del sito e del suo ecosistema “attraverso qualsiasi azione
o combinazione di azioni, dirette a riparare, risanare o sostituire, quando
ritenute ammissibili dall’autorità competente, risorse naturali o servizi
naturali danneggiati”. Secondo l’art. 1 dell’allegato II della direttiva
2004/35/CE e l’art. 1 dell’allegato 3 alla parte sesta del T.U. per misura
primaria si intende “qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse e/o
i servizi naturali danneggiati alle o verso le condizioni originarie”; per
misura complementare si intende, invece, “qualsiasi misura di riparazione
intrapresa in relazione a risorse e/o servizi naturali per compensare il
mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali
danneggiati”.
[14] Ai sensi dell’art. 1 lettera d) dell’Allegato II
alla Direttiva 2004/35/CE, per riparazione “compensativa” si intende “qualsiasi azione intrapresa per compensare
le perdita temporanea di risorse e/o servizi naturali dalla data del
verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto
un effetto completo”.
[15] Cfr. SCHIESARO G., Gli aspetti sanzionatori
della responsabilità per danno ambientale alla luce della nuova direttiva,
in Diritto ed Economia dell’Ambiente “La responsabilità ambientale”, Milano,
Giuffrè, 2005, 41.
[16] Secondo l’allegato I “Criteri di
cui all’articolo 2, punto 1), lettera a)” della Direttiva 2004/35/CE nonché
dell’allegato 4 alla parte sesta del T.U. Il danno è significativo quando
“produce effetti negativi sul raggiungimento o il mantenimento di uno stato di
conservazione favorevole di specie o habitat ……in riferimento allo stato di
conservazione, al momento del danno, ai servizi offerti dai valori ricreativi
connessi e alla capacità di rigenerazione naturale”.
[17] Cfr. SCHIESARO G., Gli aspetti sanzionatori
della responsabilità per danno ambientale alla luce della nuova direttiva, cit.
[18] La risorsa naturale è intatta nel caso in cui non
sia stata compromessa, consumata o pregiudicata da attività antropiche
finalizzate al suo diretto o indiretto sfruttamento ovvero da fenomeni naturali
che possano alterarne negativamente il suo stato di conservazione.
[19] Con l’entrata in vigore del Dlgs. 152/06,
[20] Cfr. Cass. pen., sez. III, 15 ottobre 1999 n.
[21] Cfr. sul punto POZZO B., Il danno ambientale, Milano, Giuffrè, 1998, 170 e SCHIESARO G., Gli aspetti sanzionatori
della responsabilità per danno ambientale alla luce della nuova direttiva, cit.,
52.
[22] Cfr. Trib. Venezia, Ufficio del
giudice monocratico, sez. pen., 27 novembre 2002 n.
Data di pubblicazione: 13 aprile 2008.