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Vol. VI/2008

RIVISTA DI DIRITTO DELL’ECONOMIA,

DEI TRASPORTI E DELL’AMBIENTE

 

 

Note minime in tema di "perdite provvisorie" quali componenti del danno ambientale risarcibile.

Francesca Scardina*

 

Premessa

1. Il punto nodale della sentenza

2. Distinzione o parificazione tra perdite temporanee e perdite provvisorie?

3. Conclusioni

 

       

 

DANNO AMBIENTALE – Perdite temporanee (c.d. provvisorie) – Risarcibilità – II allegato alla Direttiva 2004/35/CE – Allegato 3 alla parte sesta del Dlgs. 152/06

Integra il danno ambientale risarcibile anche il danno derivante, medio tempore, dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta, ossia le c.d. "perdite provvisorie", previste espressamente come componente del danno risarcibile dalla Direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale).

 

DANNO AMBIENTALE – Perdite temporanee – nozione – fondamento della risarcibilità

La risarcibilità delle perdite temporanee è giustificata dal fatto che qualsiasi intervento di ripristino ambientale, per quanto tempestivo, non può mai eliminare quello speciale profilo di danno conseguente alla perdita di fruibilità della risorsa naturale compromessa dalla condotta illecita; danno che si verifica nel momento in cui tale condotta viene tenuta e che perdura per tutto il tempo necessario a ricostituire lo status quo.

 

Premessa

Le massime sopra riportate, estrapolate dalla complessa decisione della Corte di Cassazione, Sez. III penale 2 maggio 2007, n. 16575[1], consentono di svolgere alcune brevi riflessioni in merito alle c.d. "perdite provvisorie" quali componenti del danno ambientale risarcibile.

Punto di partenza della vicenda giudiziaria conclusasi con la sentenza in commento è la decisione del 3 luglio 2003 del Tribunale monocratico di Livorno che ha ritenuto penalmente responsabili dell’illecita esecuzione del ripascimento artificiale della spiaggia di Cavo (Elba): il sindaco del Comune di Rio Marina, i due assessori comunali competenti ed il progettista direttore dei lavori; condannandoli al risarcimento dei danni in favore del Ministero dell’Ambiente (ora denominato della Tutela del territorio e del mare), del Comune di Rio e del proprietario di un albergo sito in prossimità della spiaggia.

I lavori “incriminati” erano stati deliberati dalla Giunta comunale di Rio Marina al fine di contrastare i fenomeni di erosione e di ingressione marina che interessavano alcuni tratti della costa ed erano stati realizzati dall’impresa esecutrice dei lavori mediante lo sversamento, sulla spiaggia interessata, di materiale ferroso misto a sabbie ferrifere trasportate da terra nonché di limo ferrifero dragato dal fondale del porto.

Secondo il giudice di primo grado, la cattiva esecuzione dei lavori, ascrivibile alla tipologia di materiale utilizzato (discarica di circa 40.000 tonnellate di materiale di scarto di miniera), aveva determinato un intorbidamento persistente del tratto di mare prospiciente la spiaggia, un danno irreparabile alla flora ed alla fauna marina con gravi effetti di carattere estetico sull’intero paesaggio della località balneare e, conseguentemente, un danno patrimoniale al titolare di un albergo ubicato in prossimità della spiaggia, costretto alla chiusura dell’attività di ricezione turistico-alberghiera.

La Corte di Appello di Firenze, in totale riforma della pronuncia di primo grado, dopo aver assolto gli imputati revocava le statuizioni civili avendo ritenuto incerto e non comprovato il danno ambientale. La Corte osservava che, grazie alla sollecita interruzione dei lavori dovuta all’intervento dell’autorità giudiziaria ed al potere di decantazione dell’ambiente marino, il danno provocato dall’intervento di ripascimento era solo temporaneo e circoscritto. I giudici di secondo grado respingevano, inoltre, la domanda risarcitoria avanzata dall’albergatore in quanto non sorretta da prove adeguate.

La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza in commento ha sostanzialmente confermato la decisione di primo grado che aveva accolto, tra l’altro, il ricorso dell’albergatore dichiarando la risarcibilità del danno da questi subito e ritenendo sufficiente, ai fini della condanna, l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose. Non è stata ritenuta, quindi, necessaria la prova dell’effettiva sussistenza dei danni e del nesso causale tra questi e l’azione dell’autore dell’illecito.

 

1. Il punto nodale della sentenza

La Suprema Corte per giungere alla decisione sopra richiamata segue un iter argomentativo che appare esente da vizi logici e con una motivazione abbastanza chiara affronta e risolve profili diversi del danno ambientale che sono autonomamente massimati[2]. L’esame della fattispecie offre l’occasione alla stessa Corte di rivedere organicamente la disciplina riguardante il risarcimento dei danni ambientali e di trattare specificamente la risarcibilità delle perdite temporanee. Ma argomentando, seppur per grandi cenni, sulla natura e sulle particolari caratteristiche che deve possedere quello che appare il punto nodale della decisione, ossia la risarcibilità delle perdite temporanee, equiparate dalla S.C. alle perdite provvisorie, occorre chiarire alcuni passaggi della motivazione che sembrano meritevoli di approfondimento.

Bisogna, innanzitutto, tener presente, per un verso, che la questione arricchisce la pur esigua casistica esistente in materia [3] e, per altro verso, che le perdite temporanee trovano adesso specifica collocazione normativa nel recente Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 "Norme in materia ambientale" (c.d. Codice dell’ambiente o anche “Testo unico in materia ambientale”: nel prosieguo Testo Unico oppure T.U.)[4], che ha dato attuazione alla previgente Direttiva comunitaria n. 2004/35/CE[5].

L’articolo 1 dell’allegato II della stessa Direttiva testualmente prevede che sono temporanee le “perdite risultanti dal fatto che le risorse e/o i servizi naturali danneggiati non possono svolgere le loro funzioni ecologiche o fornire i servizi ad altre risorse naturali o al pubblico fino a che le misure primarie o complementari non abbiano avuto effetto”. Il Testo Unico n. 152/2006 nell’allegato 3 (parte sesta), riproducendo la definizione (punto 1 lettera d), si esprime negli stessi termini prevedendo: il medesimo criterio risarcitorio (punto 1 lettera c), c.d. riparazione “compensativa”; le stesse finalità riparatorie (punto 1.1.3.) e i criteri da adottare per la individuazione delle misure di riparazione compensativa (punti 1.2.2. e 1.2.3.).

Quanto finora detto sembra evidenziare l’intento del legislatore italiano di recepire le disposizioni comunitarie, inerenti le perdite temporanee, mediante l’adozione di un testo normativo perfettamente sovrapponibile a quello della Direttiva della quale riproduce perfino gli errori di trascrizione (v. punto 1.2.3.).

Nonostante la identità della disciplina riguardante le misure di riparazione (ed in particolare, per quel che interessa in questa sede, le misure compensative aventi ad oggetto le perdite temporanee) i risultati applicativi sono assai differenti rispetto a quelli probabilmente ipotizzati dal provvedimento comunitario; in quanto il legislatore italiano con il D. lgs. 152/06 sembrerebbe avere ricondotto, in estrema sintesi, la responsabilità ambientale nell’alveo della “tradizionale” responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., con il conseguente ripudio della “responsabilità oggettiva” prevista a livello comunitario; e, soprattutto, si rifà ad una concezione di ambiente e danno ambientale di derivazione giurisprudenziale molto più ampia e variegata di quella comunitaria (art. 2 della dir. 2004/35/CE).

In conformità al quadro normativo sopra delineato e in generale ai principi del nostro ordinamento, la “perdita” non andrebbe intesa in senso strettamente economico – finanziario, vale a dire quale variazione contabile negativa nel bilancio dell’ente pubblico colpito dal danno, commisurata ai costi di ripristino ovvero alla riduzione di valore della risorsa danneggiata. Infatti, nonostante la chiara previsione della Direttiva comunitaria, secondo cui “l’operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile” (cioè obbligato a sostenere i costi del ripristino ed ogni altro onere sostenuto dalla P.A. nonché a risarcire i danni patiti dalla collettività o da soggetti direttamente lesi dalla condotta inquinante), la reale operatività del principio “chi inquina paga” sulla base del quale è attribuita la suddetta responsabilità, si ottiene soltanto con l’effettivo risanamento dell’ambiente, indipendentemente dalla corresponsione da parte del responsabile di una somma di denaro quale “compensazione” del danno ambientale.

Dalla responsabilità “finanziaria” discende, a carico del danneggiante, in via primaria, l’obbligo di “riparare” il danno ambientale sostenendo i costi necessari per ripristinare lo status quo ante e soltanto, in via secondaria, cioè nell’ipotesi in cui la condotta provochi danni all’ambiente non eliminati dalle misure riparatorie, obblighi risarcitori nei confronti di chi provi di aver subito un danno ambientale o patrimoniale.

La perdita dovrebbe, quindi, essere considerata in senso giuridico, ossia come lesione degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio, o meglio dell’ambiente, di cui è portatrice la collettività [6] e di cui lo Stato è tutore attraverso il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.  

Secondo autorevole dottrina economica[7], del resto, il danno ambientale è costituito da “una perdita di benessere rispetto al livello assicurato dalla preesistente qualità dell’ambiente”. Appunto per questo esso non produce effetti soltanto sul reddito, sul patrimonio o sull’occupazione, ma anche, ad esempio, sulla “fruizione di beni collettivi” (nei quali rientrano i beni ambientali) ovvero si concretizza nella semplice “consapevolezza del degrado ambientale”. Di conseguenza, nella maggior parte dei casi, la valutazione del danno ambientale richiede non solo la quantificazione economica dei costi di ripristino, ma anche dell’indennizzo per la perdita di un determinato livello di benessere cui la collettività è costretta a rinunciare e, conseguentemente, l’attribuzione di un valore monetario alle componenti ambientali, il cui danneggiamento provoca un costo o una perdita alla collettività [8].

Con specifico riferimento alla quantificazione dell’indennizzo è, inoltre, utile considerare che i prezzi di mercato non compensano la perdita di benessere connessa ai valori d’uso e di non uso della risorsa ambientale danneggiata. Per evitare, quindi, una sottostima del danno ambientale, dovrebbero essere valutati, e conseguentemente indennizzati gli “svantaggi” subiti tanto da coloro che fruiscono direttamente ovvero consumano la risorsa naturale danneggiata (valori d’uso), quanto da coloro che, malgrado non intendano fruire in futuro della risorsa, hanno percepito la riduzione di benessere scaturente dal danno ambientale (valori di non uso)[9].

Per quanto riguarda, invece, il concetto di “temporaneità” del danno, cui si riferiscono, sia il legislatore comunitario che nazionale, questo non dovrebbe intendersi nel senso comune del termine, ma come periodo di tempo compreso tra il compimento dell’illecito ambientale e l’esecuzione dell’intervento di ripristino, ossia come periodo necessario, e, comunque, occorso per ripristinare la piena fruibilità della risorsa danneggiata. Afferma in proposito la sentenza in commento che si tratta di “quello speciale profilo di danno conseguente alla perdita di fruibilità della risorsa naturale e/o di un suo servizio compromessa dalla condotta illecita” che qualsiasi intervento di ripristino ambientale, per quanto tempestivo, non può mai eliminare”.

Nel caso in esame, dunque, la tempestività dell’intervento dell’autorità giudiziaria che ha disposto la interruzione dei lavori ed il potere di decantazione dell’ambiente marino non hanno evitato, secondo la Corte di Cassazione, il danno ambientale, sia pure con le caratteristiche proprie delle perdite temporanee.

Tuttavia, il carattere temporaneo dell’evento dannoso non deve far erroneamente ritenere che le sue conseguenze siano circoscritte in quel predeterminato intervallo. Le conseguenze del danno ambientale, com’è noto, a volte si manifestano e/o possono essere riscontrate ben oltre il periodo in cui avviene l’evento dannoso. In particolari fattispecie, infatti, l’illecito ambientale non si esaurisce in un evento limitato e necessariamente contestuale alla condotta antigiuridica (danno attuale suscettibile di un immediato ristoro economico)[10]. Così avviene, specialmente, nelle ipotesi d’inquinamento ambientale provocato dal rilascio d’inquinanti nei corpi idrici (come ad es. laghi e mari), per l’evidente difficoltà oggettiva di individuare un danno permanente, una volta che l’inquinante si diffonde nella matrice ambientale “non confinata”[11].

Il fatto, poi, che le perdite temporanee non siano disciplinate dal legislatore nazionale e comunitario nella norma che definisce il danno ambientale (art. 300 T.U. e art. 2 Direttiva 2004/35/CE), ma, rispettivamente, nell’allegato 3 alla parte sesta del D. lgs. 152/06, e nell’allegato II della Direttiva comunitaria 2004/35/CE, riguardanti entrambi la riparazione del danno, può fare plausibilmente sostenere che tale scelta è determinata dalla circostanza che le perdite temporanee, pur essendo riconosciute come componenti del danno ambientale risarcibile, per il loro sviluppo sia pure circoscritto nel tempo, non sono suscettibili di risarcimento in forma specifica[12] da attuarsi mediante le misure di riparazione primarie o complementari[13] (così come il danno ambientale di cui all’art. 300 T.U. o all’art. 2 della Dir. 2004/35/CE), tanto da indurre il legislatore, comunitario e nazionale, a predisporre per loro un’apposita misura di ripristino.

La Direttiva comunitaria, riprodotta agli artt. 1 lettera c) e 1.1.3. dell’allegato 3 alla parte sesta del T.U., prevede, appunto, per la compensazione delle perdite temporanee in attesa del ripristino, la c.d. riparazione compensativa “attraverso cui si realizzano ulteriori miglioramenti alle specie e agli habitat naturali protetti o alle acque nel sito danneggiato o in un sito alternativo[14]. Mediante le azioni finalizzate a compensare le perdite temporanee, poste in essere prima che la riparazione (primaria o complementare) abbia prodotto i suoi effetti, invero, le risorse e/o i servizi danneggiati possono subire cambiamenti o trasformazioni che li rendono migliori rispetto alle condizioni preesistenti alla verificazione del danno ambientale.

La stessa Direttiva precisa, inoltre, che la riparazione compensativa non deve consistere in una compensazione finanziaria al pubblico (vale a dire in una corresponsione di denaro ovvero in una forma di risarcimento pecuniario per equivalente), bensì in una compensazione ecologico – ambientale, cioè nell’attuazione di opere produttive di benefici ambientali tali da bilanciare (o, meglio, compensare) gli effetti ed i danni provocati dall’illecito ambientale al fine di garantire la salvaguardia degli equilibri ecologici preesistenti. Ciò appare suffragare la tesi sopra esposta secondo la quale la perdita non è da intendersi in senso strettamente economico-finanziario ma in generale quale perdita di un determinato livello di benessere e ridotta fruizione delle risorse ambientali.

La scelta di una compensazione ecologico - ambientale appare la più coerente sul piano logico e sistematico con le finalità della Direttiva comunitaria, più volte citata, che non prevede forme di risarcimento puramente economiche ma soltanto, come evidenziato dal suo stesso titolo, strumenti di prevenzione e riparazione del danno ambientale.

Al riguardo è utile rammentare che la esclusione di una compensazione finanziaria fu aspramente criticata anche dal Parlamento Europeo, secondo il quale il risarcimento delle perdite temporanee costituisce un delicato aspetto della disciplina risarcitoria del danno ambientale “nell’ambito del quale una più puntuale individuazione ed una più precisa quantificazione del danno risarcibile avrebbero dovuto essere “indispensabili” per la selezione delle misure compensative”[15].

 

2. Distinzione o parificazione tra perdite temporanee e perdite provvisorie?

La Direttiva 2004/35/CE sembra assimilare le perdite temporanee alle c.d. perdite provvisorie tanto da assoggettarle alla medesima disciplina. Ciò determinerebbe, conseguentemente, l’irrisarcibilità delle perdite temporanee in quanto, così come le perdite provvisorie, costituirebbero espressione di un danno ambientale “non significativo”[16] e, pertanto, non suscettibile di risarcimento ai sensi dell’art. 2 n. 1 ) della Direttiva 2004/35/CE. Tale conclusione sembra confermata dall’allegato I alla Direttiva CE, recepito dall’allegato 4 alla parte sesta del T.U., secondo cui non è risarcibile un “danno a specie o habitat [...] che si ripristineranno entro breve tempo e senza interventi, o nelle condizioni originarie o in uno stato che, unicamente in virtù della dinamica della specie o dell’habitat, conduca a condizioni ritenute equivalenti o superiori alle condizioni originarie”.

Le perdite provvisorie sono, infatti, annoverate dalla Direttiva 2004/35 (e dal T.U.) fra i danni “non significativi”, ossia tra i danni i cui effetti, una volta cessata la condotta illecita, sono rimossi dalla stessa risorsa ambientale “offesa” attraverso un celere processo di autoriparazione che ripristina (o addirittura migliora) le condizioni preesistenti all’illecito, senza che occorra l’ausilio di un intervento esterno.

La definizione normativa sembrerebbe quindi escludere la risarcibilità del danno ambientale consistente nella mera alterazione temporanea della risorsa naturale destinata a risolversi per effetto dei naturali processi di autoriparazione. Tale restrittva Secondo parte della dottrina[17], tuttavia, tale restrittiva impostazione sembrerebbe contrastare con l’intento perseguito dal legislatore comunitario e con alcuni suoi principi fondamentali sanciti in materia di tutela risarcitoria del danno ambientale, e primo fra tutti, con il principio “chi inquina paga” (considerando 2 della Direttiva 2004/35/CE), sulla base del quale, coerentemente con il principio dello sviluppo sostenibile, dovrebbero essere attuate la prevenzione e la riparazione del danno ambientale.

Invero, anche il dato letterale sembrerebbe militare a favore di una distinzione tra le perdite temporanee e le perdite provvisorie in quanto le perdite temporanee si caratterizzerebbero per il fatto che la loro durata è limitata al tempo occorso per l’intervento di ripristino. Per le perdite provvisorie, invece, è esclusa la necessità di un intervento esterno e la loro provvisorietà sarebbe determinata dalla capacità di autoriparazione della risorsa naturale che non richiede alcun tipo di intervento antropico.

L’analisi delle caratteristiche sopra indicate induce a preferire la tesi che distingue le due tipologie di perdite, escludendo dall’applicazione della normativa ambientale in materia di risarcimento soltanto quelle provvisorie in quanto carenti del requisito della significatività richiesto per la configurazione del danno ambientale, e riconoscendo, invece, la piena risarcibilità di quelle c.d. temporanee, prescindendo, se non ai limitati fini della misura dell’indennizzo, dalla durata del protrarsi degli effetti dannosi.

Tale distinzione, però, non sembra essere condivisa, o, comunque, non assume il necessario rilievo, nella sentenza in commento in quanto la Suprema Corte annovera tra i danni risarcibili, considerandole probabilmente sinonimi delle perdite temporanee, anche le c.d. perdite provvisorie, quali danni derivanti medio tempore dalla “mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta[18]”. Secondo la sentenza, infatti, ai fini della risarcibilità rileva soltanto il dato obiettivo della sottrazione della risorsa ambientale alla piena fruibilità. Appunto per questo, assumono un rilievo del tutto marginale, tanto da risultare ininfluenti, l’intensità ovvero la durata degli effetti provocati dall’evento; non assumono, invece, alcun rilievo né il tempo necessario per il ripristino, né le relative modalità (autorigenerazione o intervento antropico).

La probabile assimilazione che la Suprema Corte ha fatto delle perdite provvisorie alle perdite temporanee che, in base ad una interpretazione letterale del dato normativo, avrebbe dovuto decretare la irrisarcibilità di entrambe, determina, invece, un ampliamento della tutela del bene ambientale dal momento che i giudici di legittimità hanno voluto accertare, con ogni probabilità, soltanto la sussistenza o meno di danni derivanti dalla impossibilità di fruire della risorsa naturale.

Diversamente, se, come affermato dalla autorevole dottrina sopra richiamata, la Corte non avesse assimilato pienamente perdite provvisorie e perdite temporanee, avrebbe dovuto in primo luogo soffermarsi sulla non facile distinzione, soprattutto in presenza, come nel caso in esame, di un danno ad una risorsa naturale che si caratterizza per il suo forte potere di autodecantazione, fra le due tipologie di perdita; conseguentemente avrebbe ritenuto suscettibili di risarcimento soltanto le perdite temporanee, con l’effetto di limitare notevolmente la tutela riconosciuta all’”ambiente”.

L’obiettivo della S.C. di voler garantire il massimo livello di tutela del bene ambientale, così come era stato assicurato nella vigenza della L. 349/86, sembrerebbe trovare ulteriore conferma nell’operato richiamo alle “ conclusioni alle quali si è pervenuti – in materia di risarcimento per equivalente patrimoniale – nell’interpretazione della L. 349 del 1986 art. 18”, ora quasi del tutto abrogato[19].

La Suprema Corte, infatti, giungendo ad una soluzione pressoché analoga a quella oggi esaminata, prima dell’emanazione della Direttiva comunitaria, riconosceva la risarcibilità delle perdite temporanee ritenute come “modifiche temporanee dello stato dei luoghi dalle quali deriva un pregiudizio qualificabile come danno ambientale[20]. La tesi si basava, sostanzialmente, su di un inquadramento prettamente risarcitorio e sanzionatorio[21] della normativa previgente, e forse sul condivisibile presupposto che anche l’alterazione di una caratteristica qualitativa della risorsa (in altre parole una modificazione temporanea della risorsa non necessariamente peggiorativa o irreversibile) ovvero della integra fruibilità dell’ambiente danneggiato costituisce “una grave lesione dell’ambiente, a nulla rilevando la sua transitorietà e l’assenza apparente di conseguenze durature[22].

Quasi superfluo sottolineare che la valutazione va fatta caso per caso, in quanto, pur in presenza di elevate potenzialità di autorigenerazione, i tempi necessari per il ripristino saranno direttamente proporzionali al tasso di inquinamento sia riguardo alla quantità di sostanze inquinanti che alla loro tipologia.

Nella fattispecie in esame, malgrado il forte potere di decantazione del mare, l’enorme quantità di materiale riversato (diverse tonnellate) e la sua natura (scarto di miniera), se da una parte non hanno precluso l’autonomo ripristino delle risorse naturali “offese”, hanno in ogni caso richiesto un lasso di tempo maggiore. Le peculiarità del caso concreto hanno probabilmente influito sulla decisione della S.C. di riconoscere il diritto al risarcimento pur in presenza di una perdita astrattamente qualificabile come provvisoria, ma in concreto non definibile come “non significativa” stante il tempo necessario per il processo di autorigenerazione dell’ambiente danneggiato.

 

3. Conclusioni

La Suprema Corte, riconoscendo il diritto al risarcimento dei danni ambientali e patrimoniali, subiti rispettivamente dalla collettività e dall’albergatore, non perde di vista il preminente obiettivo del bilanciamento dei contrapposti interessi della tutela dell’ambiente e degli altri valori presenti nel dettato costituzionale, quali: la libertà d’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e la tutela della concorrenza (art. 117 Cost. lett. d). In questo modo, non cade nel facile errore di “assolutizzare” il diritto all’ambiente (sancito indirettamente dall’art. 32 Cost. come diritto all’ambiente salubre), e, conseguentemente, di comprimere o incidere negativamente sull’esercizio e la realizzazione degli altri fondamentali diritti sopra enunciati, i quali, pur essendo rispetto al primo in una posizione subalterna, nella scala dei diritti-valori garantiti dalla nostra Costituzione, sono pure meritevoli di adeguata tutela.

Nel realizzare tale precipuo obiettivo, la S.C., tuttavia lascia in parte «scoperto» il passaggio, relativo alle perdite temporanee non cogliendo, probabilmente, la distinzione tra perdita temporanea e provvisoria. È vero che tale compito è molto arduo perché la distinzione non pare rinvenibile nemmeno nel linguaggio corrente e nella letteratura giuridica; tuttavia probabilmente sarebbe stato necessario dare spazio ad una più pregnante analisi dei due termini, allo scopo di evitare future divergenze d’interpretazioni. Infatti, accedendo ad una nozione più pragmatica, avvalendosi se del caso anche di nozioni extragiuridiche, si sarebbe raggiunta una interpretazione maggiormente adeguata e aderente alla realtà, rendendo anche più chiara la logicità del suo esito.

Indubbia rilevanza hanno assunto, ai fini della decisione in commento, le peculiarità del caso concreto e l’esigenza di non accedere ad una netta distinzione che avrebbe potuto portare, presumibilmente, ad inique conseguenze, ove la S.C. avesse escluso il diritto al risarcimento solo in forza della rigida catalogazione del danno accertato tra le perdite provvisorie “non significative”. Da qui l’esigenza della S.C. di riconoscere, nel caso in esame, una sorta di “tertium genus” che, pur presentando i connotati propri della perdita provvisoria, ha prodotto, per la grave entità dell’inquinamento, gli effetti propri, o quantomeno assimilabili a quelli della perdita temporanea.

Non va trascurata, in ogni modo, anche la circostanza che la sentenza è stata emessa in sede penale, ossia, nell’ambito di un giudizio finalizzato ad accertare e sanzionare una condotta penalmente rilevante e, pertanto, a privilegiare l’esame del comportamento posto in essere dall’agente rispetto all’approfondimento degli effetti dello stesso.

Il rigoroso criterio adottato della S.C. finisce così per portare a conclusioni parzialmente difformi dalla tipizzazione legislativa del concetto di perdita temporanea. E’ ciò appare comprensibile ove si consideri che il Giudice penale, di fronte ad un fatto dannoso, in violazione di norme di legge e regolamentari, abbia privilegiato l’accertamento delle responsabilità dei soggetti che lo avevano provocato, senza soffermarsi sull’analisi di altri elementi devoluti alla cognizione del Giudice civile, in sede di quantificazione dei danni subiti dalle parti lese.

Tale scelta, se da una parte appare corretta sotto il profilo del riparto di attribuzioni, dall’altra, appare perfettamente in linea con i principi tracciati dal recentissimo D. lgs 16 gennaio 2008, n. 4 “Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale”, il cui art. art. 3-bis, “Principi sulla produzione del diritto ambientale” indica chiaramente che: “I principi posti dal presente articolo e dagli articoli seguenti costituiscono i principi generali in tema di tutela dell’ambiente, adottati in attuazione degli articoli 2, 3, 9, 32, 41, 42 e 44, 117 commi 1 e 3 della Costituzione e nel rispetto del Trattato dell’Unione europea”.

 



*Avvocato in Palermo

 

[1] La sentenza è pubblicata per esteso in rivista giuridica dell’ambiente, 2007, 807 e ss, con note di POZZO B., La responsabilità civile per danni all’ambiente tra vecchia e nuova disciplina, in Ambiente & Sviluppo, 12/2007, 1051; GIAMPIETRO F., La responsabilità ambientale nel Testo Unico n. 152/06:un passo avanti e due indietro e in Resp. civ. e prev, 2007, 2081 e ss. con nota di GRECO G. G., Vademecum dell’illecito ambientale: sentenza Fiale.

[2] La sentenza è consultabile su: www.ambientediritto.it; www.altalex.com; www.diritto-in-rete.com e www.lexambiente; www.ambientediritto.it/sentenze/2007/Cassazione.

[3] Cfr. la sentenza, richiamata in motivazione, della Corte Cass. pen., sez. III, 15 ottobre 1999 n. 13716, in Riv. pen., 2000, 477 ss, con nota di RAMACCI L., Interventi precari e vincolo paesaggistico e Tribunale di Venezia, Ufficio del giudice monocratico, sez. pen., 27 novembre 2002 n. 1286 in Riv. giur. ambiente, 2003, 163, con nota di n. SCHIESARO G., «Chi inquina paga»: una nuova frontiera nella liquidazione del danno ambientale ex art. 18 l. 349/1986.

[4] Il Dlgs. 3 aprile 2006 n. 152 risulta da ultimo modificato dal Dlgs. 16 gennaio 2008 n. 4 “Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 3 aprile 2006, n.152, recante norme in materia ambientale” in G.U. n. 24 del 29 gennaio 2008 – s. o. n. 24.

[5] La Direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004 sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale in G.U. n. L. 143 del 30 aprile 2004 pag.0056-0075. Tale Direttiva mira all’istituzione, come sottolineato dall’art. 1 di “[…] un quadro per la responsabilità ambientale, basato sul principio “chi inquina paga”, per la prevenzione e la riparazione del danno ambientale” in modo da garantire un livello minimo di tutela ambientale. Per una prima analisi della Direttiva 2004/35/CE, cfr., per tutti, GIAMPIETRO F., La direttiva 2004/35/Ce sul danno ambientale e l’esperienza italiana. Ambiente, 2004, 805; ID., Prevenzione e riparazione del danno ambientale: la nuova direttiva n. 2004/35/Ce. Ambiente, 2004, 905.

[6] La decisione della Corte Cost., 30 dicembre 1987 n. 641, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 L. n. 349/86, nella parte in cui sottrae alla giurisdizione della Corte dei conti la responsabilità dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici per i danni arrecati all’ambiente nell’esercizio delle proprie funzioni, in riferimento agli artt. 5, 25 e 103 Cost., ha riscosso un notevole interesse tra gli studiosi. Essa può leggersi in: Foro it., 1988, I, 694, con nota di GIAMPIETRO F., Il danno all’ambiente innanzi alla corte costituzionale; Foro it., 1988, I, 1057 (m), con nota di PONZANELLI G., Corte costituzionale e responsabilità civile: rilievi di un privatista; Giur. costit., 1987, I, 3788, con nota di MILETO S., Giurisdizione della corte dei conti nelle materie di contabilità pubblica e interpositio del legislatore; Corriere giur., 1988, 234, con nota di GIAMPIETRO F., Responsabilità per danno ambientale: luci ed ombre di una rilevante decisione; in Riv. amm., 1988, 220, con nota di ARRIGONI R., Danno all’ambiente e giurisdizione della corte dei conti: un binomio impossibile?; Riv. giur. polizia locale, 1988, 299, con nota di BERTOLINI L., La sentenza n. 641 del 30 dicembre 1987 della corte costituzionale sul risarcimento del danno ambientale ovvero una definitiva deminutio capitis della giurisdizione della corte dei conti; Foro amm., 1988, 1 ss, con nota di TALICE C., La responsabilità per danni ambientali non rientra nella responsabilità amministrativa; Regioni, 1988, 525, con nota di FERRARI E., Il danno ambientale in cerca di giudice e... d’interpretazione: l’ipotesi dell’ambiente-valore; Riv. giur. ambiente, 1988, 93, ss. con note di: POSTIGLIONE A., Il recente orientamento della corte costituzionale in materia di ambiente e di CARAVITA B., Il danno ambientale tra corte dei conti, legislatore e corte costituzionale; Dir. regione, 1988, 83, ANGIOLINI V., Costituzione e danno all’ambiente: grande problema per una piccola contesa.

[7] Sul punto cfr. FRANZINI M., I metodi di valutazione economica e il danno ambientale: le ragioni di un difficile rapporto, in La responsabilità per danno all’ambiente, Milano, Giuffrè, 2006, 362 e ss.. V. anche NUTI F., Problemi posti dalla valutazione economica del danno ambientale. (In particolare in sede giudiziaria), in Diritto ed Economia dell’Ambiente “La responsabilità ambientale”, Milano, Giuffrè, 2005, 99 e ss.

[8] Cfr. LIBERATORE P., La quantificazione economica del danno ambientale nel Dlgs. n. 152/2006. Applicabilità e limiti del costo del ripristino e degli altri metodi di stima in ambito giuridico-processuale, in La responsabilità per danno all’ambiente, Milano, Giuffrè, 2006, 377.

[9] cfr. FRANZINI M., I metodi di valutazione economica e il danno ambientale: le ragioni di un difficile rapporto, cit., 365.

[10] Cfr. Cass. civ., sez. un., 25 gennaio 1989 n. 440, in Riv. giur. ambiente 1989, 97 e in Foro amm. 1989, 529 la quale afferma specificamente che “dalla condotta dell’agente possono scaturire, e normalmente scaturiscono, oltre ad effetti dannosi istantanei, anche sequele di effetti lesivi permanenti o destinati a rinnovarsi o ad aggravarsi nel tempo futuro” e che soltanto” la condanna al ripristino dei luoghi a spese del responsabile è “idonea a sopprimere la fonte della sequela di danni futuri (a volte di difficile previsione e di ancor di più difficile quantificazione in termini monetari attuali)”. La sentenza è altresì annotata da: GIAMPIETRO F., Il risarcimento del danno ambientale davanti alle sezioni unite civili. Corriere giur., 1989, 505; POSTIGLIONE A., Danno ambientale e corte di cassazione, Riv. giur. ambiente, 1989, 106; ID.,  Il danno ambientale nella interpretazione della corte di cassazione, Riv. pen. economia, 1989, 17; ID.,  L’azione civile di danno ambientale. Giust. civ., 1989, I, 566.

[11] V. “La valutazione del danno ambientale” in www.apat.gov.it

[12] Sul concetto e le forme del risarcimento del danno ambientale V. artt. 311 - 316 del Dlgs. 152/06. V. inoltre FIMIANI P. Le nuove norme sul danno ambientale, Milano, Il sole 24 ore, 2006, 110 e ss. e. BOCCONE G, Responsabilità e risarcimento per danno ambientale, Rimini, Maggioli, 2006, 179 e ss..

[13] Le misure di ripristino ambientale mirano alla riqualificazione del sito e del suo ecosistema “attraverso qualsiasi azione o combinazione di azioni, dirette a riparare, risanare o sostituire, quando ritenute ammissibili dall’autorità competente, risorse naturali o servizi naturali danneggiati”. Secondo l’art. 1 dell’allegato II della direttiva 2004/35/CE e l’art. 1 dell’allegato 3 alla parte sesta del T.U. per misura primaria si intende “qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle o verso le condizioni originarie”; per misura complementare si intende, invece, “qualsiasi misura di riparazione intrapresa in relazione a risorse e/o servizi naturali per compensare il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati”.

[14] Ai sensi dell’art. 1 lettera d) dell’Allegato II alla Direttiva 2004/35/CE, per riparazione “compensativa” si intende “qualsiasi azione intrapresa per compensare le perdita temporanea di risorse e/o servizi naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo”.

[15] Cfr. SCHIESARO G., Gli aspetti sanzionatori della responsabilità per danno ambientale alla luce della nuova direttiva, in Diritto ed Economia dell’Ambiente “La responsabilità ambientale”, Milano, Giuffrè, 2005, 41.

[16] Secondo l’allegato I “Criteri di cui all’articolo 2, punto 1), lettera a)” della Direttiva 2004/35/CE nonché dell’allegato 4 alla parte sesta del T.U. Il danno è significativo quando “produce effetti negativi sul raggiungimento o il mantenimento di uno stato di conservazione favorevole di specie o habitat ……in riferimento allo stato di conservazione, al momento del danno, ai servizi offerti dai valori ricreativi connessi e alla capacità di rigenerazione naturale”.

[17] Cfr. SCHIESARO G., Gli aspetti sanzionatori della responsabilità per danno ambientale alla luce della nuova direttiva, cit.

[18] La risorsa naturale è intatta nel caso in cui non sia stata compromessa, consumata o pregiudicata da attività antropiche finalizzate al suo diretto o indiretto sfruttamento ovvero da fenomeni naturali che possano alterarne negativamente il suo stato di conservazione.

[19] Con l’entrata in vigore del Dlgs. 152/06, la  L. 8 luglio 1986 n. 349 è stata abrogata fatta eccezione per il comma 5 dell’art. 18 secondo cui “Le associazioni individuate in base all’articolo 13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi”.

[20] Cfr. Cass. pen., sez. III, 15 ottobre 1999 n. 13716, in Riv. pen., 2000, 477.

[21] Cfr. sul punto POZZO B., Il danno ambientale, Milano, Giuffrè, 1998, 170 e  SCHIESARO G., Gli aspetti sanzionatori della responsabilità per danno ambientale alla luce della nuova direttiva, cit., 52.

[22] Cfr. Trib. Venezia, Ufficio del giudice monocratico, sez. pen., 27 novembre 2002 n. 1286 in Riv. giur. ambiente, 2003, 163, secondo cui, tra l’altro, l’alterazione del bene ambientale “costituisce una grave lesione […], a nulla rilevando la sua transitorietà e l’assenza apparente di conseguenze durature se comunque le concrete modalità dell’evento hanno raggiunto una intensa ed evidente criticità; […]Pretendere che si possa parlare di un danno ambientale solo in presenza di un’apprezzabile e duratura compromissione significa assimilare il danno solo a tragedie o scenari apocalittici”.

 

Data di pubblicazione: 13 aprile 2008.